Memorie d’Albione: La dieta pane e mattone degli inglesi
Volgo lo sguardo a Nord, oltre la stretta Manica che bagna Calais, perché sento dire un po’ dappertutto che la stanchezza del continente europeo, stretto fra moti deflazionari e demografie avverse, trovi ostello nella terra d’Albione, gloriosa madrepatria di avventurosi corsari e Isola del Tesoro capitalistico, sin dagli albori della sua epopea economica nel mondo.
Le virtuose memorie d’Albione, a ben vedere, trovano il posto d’onore nelle storie e nelle cronache economiche globali. Pochi dubiteranno che il Regno Unito abbia rappresentato la migliore e più riuscita forma di dominio imperiale basata sull’economico assai più che sulle armi, pure se di piombo erano fatti i pennini che gli scrivani della City intingevano nei loro calami. Tanto è vero che quando si trattò di passare il testimone, cambiò il titolare dell’impero, ormai oltre Atlantico, ma non il suo declinarsi, che nella pandemia economicistica del nostro tempo ha trovato un perfezionamento pressoché assoluto.
Volgo lo sguardo incuriosito perché ansioso di comprendere, ora che anche l’Ocse ha certificato il gran progresso dell’economia inglese, dove abbiano indovinato loro e dove abbiamo sbagliato noi, addestrato anche dall’esperienza che mi ha istruito su quanto il rilucere non faccia oro, se non agli occhi degli stolti.
Nel survey di Ocse leggo che “la crescita in Uk è iniziata sin dal primo quarto del 2013, fino al 2,6% nel 2014, la migliore performance fra i paesi del G7”. Leggo ancora che “il quantitative easing e le misure per rendere disponibile credito hanno esaltato la trasmissione della politica monetaria all’economia. In parallelo gli stabilizzatori fiscali hanno continuato ad operare, sicché le restrizioni fiscali sin dal 2012 hanno smesso di avere effetti visibili, aggiungendosi come elemento di crescita del paese”.
Leggo ancora che “il consumo privato è stato supportato da una considerevole creazione di posti di lavoro, dal basso costo dei prestiti e da una notevole fiducia, che ha giocato un ruolo nella riduzione del tasso di risparmio delle famiglie”.
Ma leggo anche che “l’export ha contribuito poco alla ripresa. Il Regno Unito ha continuamente perduto quote di mercato dal 1990, in linea con quanto accaduto nei paesi del G7 fin dai tardi anni ’90”. Ciò aggravandosi anche a causa del diminuito peso specifico dei settori tradable nel valore aggiunto nazionale. Il che secondo Ocse spiega anche perché la svalutazione della sterlina non sia servita a rilanciare le esportazioni.
La leggera foschia che intravedo s’infittisce quando scopro che “la crescita è previsto continui, guidata dal consumo privato e dagli investimenti privati”, ma che al tempo stesso molto di questo consumo privato è debitore del boom immobiliare che ha investito l’UK, a partire ovviamente da Londra. Il crescere dei valori immobiliari, a ben vedere, porta con sé luci e ombre: se da un lato giova alla fiducia e spinge gli investimenti, dall’altro ha prosciugato i risparmi degli inglesi e ha reso molto difficile comprar casa a chi già non ne possedeva una. Se ha contribuito a sostenere i consumi, ha fatto lo stesso per l’indebitamento inglese, già elevato.
La foschia diventa un nebbione, davvero londinese, quando leggo l’Ocse che sottolinea come fra i rischi domestici primeggi quello del recupero della produttività, il vero puzzle dell’economia inglese, che le pressioni al rialzo sui salari, in mancanza di un allineamento dei livelli produttivi, potrebbe far sfociare in inflazione.
E poi, ovviamente, c’è la questione delle banche che è correlata con la posizione esterna del Regno Unito, che esibisce ancora un deficiti di conto corrente del 6% del Pil, aggravato anche dai rientri non soddisfacenti degli investimenti dall’estero e dal calo dell’export, a sua volta connesso con la produttività.
Se il lato esterno mostra crepe, sarebbe ingenuo pensare che ciò non dipenda in qualche modo dall’interno.
Oltre alla ben nota questione della produttività, infatti, è anche il settore finanziario che espone alcune problematicità che potrebbero diventare critiche in un contesto internazionale che vede all’orizzonte politiche monetarie più restrittive.
Giusto per ricordarvelo, fra il 2009 e il 2012 la BoE ha comprato 375 miliardi di sterline di titoli, essenzialmente pubblici, pari a circa il 25% del Pil. Alcuni studi empirici stimano che ciò abbia contribuito a far scendere di 90 punti base il rendimento del decennale inglese, imprimendo una accelerazione al Pil di circa il 2%. Ma non solo: si ipotizza addirittura che il QE sia servito a indebolire la sterlina e aumentare la ricchezza delle famiglie. Capirete perché noi europei alla fine ci siamo convinti.
Ma, vedete, c’è sempre un ma. La dieta pane e mattone degli inglesi, ossia boom dei consumi interni e degli investimenti immobiliari, porta con sé quasi sempre un lato oscuro finanziario, oltre al fatto che la bonanza rappresentata dalla politica monetaria a basso costo ormai stia per terminare.
Sorvolo sui dati fiscali, di cui avrete piene le orecchie, salvo evidenziare che il consolidamento dei conti pubblici inglesi, che dovrebbe portare il bilancio pubblico, al netto degli investimenti, in avanzo strutturale fra il 2017-18, è stato pagato dal 20% più ricco, che ha visto aumentare le tasse, e dal 20% più povero, che si è visto diminuire agevolazioni e vantaggi fiscali.
Mi sembra assai più utile parlarvi delle banche.
Molti saranno sorpresi nello scoprire che il rapporto fra prestiti e pil delle banche inglesi è molto al di sotto della media Ocse. Nella classifica generale compilata dall’organizzazione stanno vicine al livello italiano, sotto quelle tedesche, americane e giapponesi. In più, i prestiti alle aziende non finanziarie si stanno ancora contraendo ancora. Una probabile conseguenza dello sboom creditizio post 2008, che ha costretto il governo a farsi carico della stabilità delle banche impegnando corpose risorse.
La conseguenza è stata che il regolatore inglese ha ristretto le regole per la concessione di crediti alle imprese. Ma si è dimenticato delle famiglie.
Già: una delle stranezze del settore bancario inglese è che i prestiti alle imprese sono bassi, mentre quelli alle famiglie sono alti. Sono arrivati quasi al 70% a fronte di poco più del 20% per le imprese. In Italia, per fare un paragone, viviamo una situazione opposta: i prestiti alle imprese sono intorno al 70% del pil, quelli alle famiglie stanno sotto al 40%.
Ciò spiega perché il mattone sia esploso e perché le piccole e medie imprese soffrano E infatti adesso i regolatori si sono messi al lavoro per restringere i requisiti di accesso ai prestiti immobiliari. Ma non è detto che basti. E in più non è detto che la coingiuntura del mattone non si inverta di nuovo, come è successo anche di recente.
L’esposizione al rischio di liquidità per le banche inglesi, infatti rimane alta (ricordatevi che siamo in tempi di exit strategy) e i debiti esterni delle banche inglese sono al terzo posto per importanza nella classifica Ocse, che vede al primo l’Irlanda e al secondo l’Olanda. A ciò si aggiunga che il settore bancario inglese rimane uno dei più grandi al mondo, con asset pari al 400% del pil, con la previsione che raddoppino da oggi al 2050.
“Ciò implica una grande esposizione dell’economia agli shock, che può creare grandi danni”, nota l’Ocse.
Dalla dieta pane e mattone a quella pane e acqua il passo può essere terribilmente breve.
(segue/3)
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L’ho letto anch’io il report della Bank of England sul puzzle della produttività, anche se forse abbiamo letto un documento diverso. Ciò che mi lasciò abbastanza stupito è che un istituzione del genere abbia ipotizzato che il calo della produttività fosse dovuto alla debolezza della domanda. Un’ipotesi del genere ha delle implicazioni enormi e potrebbe anche funzionare come chiave interpretativa per tutta l’evoluzione che ha assunto l’economia britannica negli ultimi 40 anni, con il ruolo sempre più preponderante della finanza. Oltre a zittire l’inutile chiacchericcio sulle riforme strutturali. Ad ogni modo mi è piaciuto molto il tuo articolo, anche se non sono particolarmente d’accordo su due punti:
1) A mio avviso non c’è nessun pericolo d’inflazione in UK, infatti l’inflazione salariale è piatta. Proprio quell’inflazione salariale che è rimasta costantemente indietro alla produttività, anche quando quest’ultima registrava delle brevi ma robuste fasi di crescita (magari causata dal massiccio ricorso al credito da parte delle famiglie). Mi rendo conto che esiste ancora qualcuno ossessionato dai presunti effetti deleteri della spirale prezzi-salari, ma credo che questa ossessione vada spiegata più in termini politici e di potere che secondo i canoni economici.
2) E’ vero che la svalutazione non si traduce automaticamente in un aumento dell’export e che ciò dipende da tanti fattori ( struttura produttiva del paese che svaluta, insufficiente sostegno della domanda globale in assenza di flussi di credito e in presenza di ulteriori destrutturazioni dei mercati del lavoro, etc), tuttavia le svalutazioni dovrebbero essere analizzate non soltanto dal lato delle esportazioni, ma anche dal lato della produzione interna che andrebbe a sostituire quei beni che prima venivano importati. Mi rendo conto che è un processo che non si realizza immediatamente, tuttavia ciò mi è risultato evidente, per fare un esempio, quando ho sentito un mio amico greco che mi diceva che i produttori agricoli locali di pomodoro non riescono a stare dietro alla concorrenza olandese. Pomodori, mica prodotti ad alto valore aggiunto.
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salve,
grazie per l’apprezzamento. preciso che il report sulla produttività del lavoro inglese di cui all’articolo l’ho preso dal survey ocse dedicato al regno unito uscito da poco non dalla BOE. questo spiega forse le differenza di vedute. quanto ai punti 1 e 2, nei pezzi di questa miniserie, come faccio sempre peraltro, non ho riportato mie convinzioni (anche perché non ne ho) ma le considerazioni degli economisti ocse. capisco le sue osservazione, che mi paiono sensate. ma non ne so abbastanza per entrare nel merito. sono un modesto narratore di vicende socieconomiche, non un economista.
grazie anche per il commento
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@alessio: Nel mio piccolo, e mettendo le mani avanti, ho cercato di dare una spiegazione al puzzle della produttività. Il mio commento se ti interessasse, lo trovi nel relativo articolo di Walkingdebt.
Saluti.
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