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I venti gelidi che spirano da Mosca


Nel peggiore dei suoi inverni, la Russia continua a bruciare riserve valutarie pur di tenersi al caldo, mentre i freddi della gelida perturbazione che spira da Mosca iniziano a soffiare sull’Europa.

L’ultima volta avevo incontrato la Russia prima dell’insorgere del conflitto ucraino, che ha generato le sanzioni economiche, e del crollo del petrolio, che ha provocato un notevole dimagrimento dell’Orso russo, ormai definitivamente in letargo.

Di fronte a un tale combinato disposto, non dovrei stupirmi, eppure mi succede, quando leggo della Russia nell’ultimo Global financial stability review del Fmi e scopro a che a fine marzo di quest’anno le riserve sono arrivate a 325 miliardi di dollari, quando erano 486 alla fine del primo trimestre 2014.

In pratica in un anno sono diminuite quasi del 50%.

Nel peggiore dei suoi inverni, l’Orso Russo sta consumando il grasso che aveva accumulato nei tempi buoni, quando il greggio costava caro e tutti ormai salutavano il suo ingresso a passo di carica nei Bric nell’economia internazionale. Adesso invece si trova a dover far fronte al clima rigido che la comunità internazionale gli ha costruito attorno, con poco riguardo degli esiti che sulla stessa comunità può provocare una ulteriore consunzione del gigantesco organismo che vive vicino a noi.

Gentilmente, il Fmi ce le ricorda, ma chi lo ascolterà?

Mi faccio obbligo perciò di farvene menzione, anche perché sento dire con allegra faciloneria che la Russia potrebbe soccorrere i nostri cugini greci, presi d’assedio dai loro debiti con l’Europa. Che sarebbe come dire, usando i proverbi, il cieco che guida l’orbo, stando almeno a quanto ci dicono i numeri.

Ve ne dico alcuni, e mi scuserete per la pedanteria.

Nei primi nove mesi del 2014 i deflussi di portafoglio dalla Russia sono stati di 21 miliardi, 13 dei quali dall’equity. Ciò ha ridotto a 225 miliardi lo stock di investimenti di portafoglio esteri in Russia, mentre al contempo i russi aumentavano di 10 miliardi, arrivando a 63 miliardi, lo stock di investimenti russi all’estero.

Insomma: anche fra i residenti, chi può investe altrove.

Sul versante estero, è utile ricordare che il totale del debito è arrivato a 599 miliardi a fine 2014, 74 miliardi dei quali a breve termine che andranno in scadenza fra aprile e dicembre di quest’anno, dei quali il 61% a carico del settore corporate e il resto delle banche. E’ vero come nota il Fmi, che tale cifra impegna solo un quinto del totale delle riserve esistenti. Così come è vero che il settore pubblico hanno ancora diverse risorse all’estero che possono essere liquidate. Ma basterà a calmare gli spiriti animali degli investitori internazionali?

In dettaglio, la Russia ha all’estero 61 miliardi di asset di portafoglio, 184 miliardi in valuta e depositi e 32 miliardi in prestiti a breve termine.

E tuttavia, tutti noi conosciamo bene, per averla vissuta per anni, quanto sia urticante la graticola degli spread. E immaginatevi i russi allora, che hanno le sanzioni e i ricavi del petrolio in calo. Non a caso, nota il Fmi “gli spread sui titoli sovrani e corporate sono aumentati bruscamente”.

Ma più di tutto sono le banche a preoccupare il Fmi.

Un grafico illustra meglio di ogni ragionamento l’andamento del ROE (return on equity) del sistema bancario russo, che è passato dal 18% del dicembre 2012 all’8% di due anni dopo, con i non performing loans (NPLs) cresciuti al 6,7% alla fine del dicembre scorso.

Ciò a fronte di un Loan-to-deposit ratio, ossia di copertura dei prestiti con i depositi, del 150%, che rende le banche russe disperatamente bisognose di cercare finanziamenti sul mercato dei capitali – che abbiamo visto a prezzi e con quale riluttanza glieli concedono – per funzionare. Con la complicazione, per sovrammercato, che sette banche russe, che pesano il 75% del settore, sono state sanzionate e quindi non potranno neanche provarci, ad avere soldi dall’estero.

Perciò è facile prevedere, che continuando così, le banche russe dovranno sempre più poter contare su settore pubblico per tenersi in piedi, mentre quest’ultimo potrà sempre meno contare sulla fonte principale delle sue entrate, ossia i ricavi energetici.

L’Orso russo, insomma, è destinato a dimagrire ancora.

E potremmo anche disinteressarcene, se non fosse che è così vicino a noi, e così tanto ci allieta con le sue importazioni cui corrispondono sovente nostre esportazioni di merci e capitali.

Perché le banche europee, ancora fresche di stress test Bce, sono alle prese da più di un anno con lo stress test russo, e non è che le cose siano cambiate granché.

Al contrario. L’esposizione delle banche estero verso la Russia è diminuita, nel frattempo, ma “la stabilità del sistema bancario europeo puà essere notevolmente stressata se le preoccupazioni geopolitiche spingeranno l’avversione al rischio degli investitori, che condurrebbero a tassi più alti e a un dollaro più forte”.

Ma vale anche il contrario: tassi più alti e un dollaro più forte, ossia ciò che appartiene alla logica dell’exit strategy della Fed, ormai imminente, e a QE della Bce, possono avere sui russi lo stesso effetto dell’aumentata avversione al rischio provocata dalle tensioni geopolitiche.

E allora le banche austriache, che hanno il 29,4% del totale dell’esposizione bancaria russa all’estero, quella italiane, con il 5,3 e quelle francesi, ridotte ormai appena all’1%, patirebbero per prime i freddi del peggiore inverno della Russia.

Noi per secondi.

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Il mattone sopravvalutato delle banche italiane


Sempre perché è utile capire l’aria che tira, ho letto con grande curiosità l’ultimo rapporto sulla stabilità finanziaria della Banca d’Italia che, com’era prevedibile, ha dedicato un lungo approfondimento alla questione dell’asset quality review, con relativi stress test, svolti dalla Bce e pubblicati alla fine del mese scorso.

Le cronache si sono ampiamente dilungate sulle manchevolezze di capitale di alcune banche e il market toast seguito agli stress test che ha colpito, tanto per dire, Mps, ha fatto il resto. Poi dai primi di novembre la Bce ha assunto ufficialmente il suo ruolo di supervisore e l’intera faccenda è finita nelle pieghe delle cronache, travolta dalle preoccupazioni del combinato disposto crescita bassa e disinflazione che ritma la nostra attualità.

Senonché, curiosando fra i recessi dell’imponente valutazione svolta dalla Bce sui bilanci bancari dell’eurozona, altre cose emergono, purtroppo oscurate dal dibattito pubblico.

Una in particolare ha catturato la mia attenzione. Ossia che la valutazione della Bce ha riguardato anche il terzo livello dei bilanci bancari, quello che, come si addice a qualunque terzo livello che si rispetti, è alquanto opaco.

Qui sono annidati degli attivi la cui valutazione è alquanto aleatoria, per non dire discrezionale. Vi campeggiano, ad esempio, le quotazioni di bilancio dei patrimoni immobiliari che le banche custodiscono assai gelosamente. E le italiane in particolare, visto che una quota robusta dei loro attivi sono gli immobili messi a garanzia dei prestiti che hanno concesso alle famiglie e alle imprese per i mutui per acquisto immobili, oltre agli immobili di proprietà.

Per darvi un’idea di quanto pesino, basti qui ricordare che l’esposizione verso le famiglie di mutui bancari supera i 338 miliardi di euro.

La Bce per stimare quanto valgano veramente gli immobili in pancia alle banche ha esaminato un campione di 8.000 immobili situati in Italia e all’estero per un controvalore di 33 miliardi di euro. La valutazione, che partiva dai valori di bilancio, è stata affidata a periti indipendenti.

Costoro sono arrivati alla conclusione che le stime del valore delle garanzie immobiliari delle banche italiane sono sopravvalutate dagli istituti per il 10,1%, che è di sicuro una bella cifra, anche se inferiore al 13% rilevato per l’intero campione.

Bankitalia, nel suo commento, spiega come tale differenza sia da attribuirsi sostanzialmente al ritardo col quale le banche aggiornano le valutazioni dei loro bilanci, e quindi non tengono conto del calo dei prezzi degli immobili intervenuti nel frattempo.

Sarà sicuramente così. Ma rimane il fatto che anche il 10,1% stimato è una media. Si va da un picco di sopravvalutazione del 17% per un quarto degli immobili a zero per l’ultimo quarto, con un valore mediano di circa il 6%.

In ogni caso, un aggiustamento dei valori immobiliari che li adegui ai valori correnti, ossia alle stime dei periti, implicherebbe un dimagrimento relativo dei bilanci. Il che certo non è un buon viatico per le nostre banche.

Tale circostanza peraltro interviene in un momento in cui il mercato immobiliare è ancora assai fragile.

La rilevazione svolta da Bankitalia mostra che i prezzi sono in calo praticamente dal 2007, con la curva dei prezzi che sprofonda fra il 2010 e il 2011, proseguendo il suo andamento anche fra il 2013 e il 2014.

Per darvi un’idea dello stato dell’arte, basta fare il raffronto dei prezzi fra i principali paesi dell’eurozona a partire dal 2000.

Fatto 100 l’indice dei prezzi nel 2000, l’Italia oggi mostra un livello di prezzi vicino a 140, allineato con la media della zona euro, che però evidenzia profonde differenza al suo interno. Nel momento del picco, il nostro paese aveva superato 160, di poco superiore alla media euro.

Da allora il mercato è molto cambiato. La Germania, dove la curva dei prezzi è rimasta schiacciata a 100 fino al 2010 ora si avvicina verso 120, ponendosi poco sopra l’Irlanda, che aveva toccato 200 nel 2007, e appena sotto i Paesi Bassi, che avevano raggiunto un picco di circa 150.

La Spagna, che aveva toccato un picco di 240, come il Regno Unito, ora quota circa 150 mentre in Gran Bretagna i prezzi, dopo esser calati fino a circa 180 ora svettano verso i 220.

In Belgio i prezzi hanno risentito poco della crisi, e ora si trovano al livello di quelli inglesi insieme con quelli francesi, che, nel 2011, hanno addirittura superato il picco del 2007.

Ciò vuole dire che nella zona euro c’è un gruppo di paesi dove le quotazioni sono aumentate dalla crisi in poi, altri dove sono diminuite parecchio e altri meno, fra cui, appunto c’è il nostro paese.

Tale frammentazione, l’ennesima dell’eurozona si inserisce in un contesto di crescita economica incerta e di inflazione declinante, combinazione pericolosissima per la stabilità finanziaria. Un correzione che dovesse partire dai paesi dove il mattone tira ci metterebbe un attimo a trasferirsi agli altri.

A quel punto i bilanci delle banche italiane saranno costretti a fare un esercizio di verità. Dovranno svalutare il mattone. E se le banche “ufficializzano” il calo dei prezzi, cosa succederà al mercato nel suo insieme?

Quota anno 2000 (dove peraltro il Pil è tornato di recente) è davvero dietro l’angolo.

Caccia a ottobre (in) rosso per le banche europee


Sfoglio distratto le pagine che riepilogano il lungo intervento di Ignazio Visco alla conferenza interparlamentare che le regole del fiscal compact prescrivono per gli stati, pubblicata giorni fa, ma l’unica cosa che mi suggeriscono è che il giorno della resa dei conti per le grandi banche europee è ormai dietro l’angolo.

Dal 26 ottobre la vicenda bancaria tornerà prepotentemente d’attualità con la pubblicazione dell’esito del comprehensive assessment che la Bce ha svolto in questi mesi. E solo allora sapremo se ci sarà un conto da pagare, che si aggiungerà alla già lunga lista della spesa del nostro governo, o se invece potremo tirare il fiato.

Non è una questione di poco conto. Visco ha sottolineato che “i fabbisogni di capitale risultanti dall’esercizio di valutazione dovranno essere soddisfatti in primo luogo attraverso il ricorso a risorse di natura privata”. Il che implica che eventuali carenze di capitale dovranno essere colmate dalle banche stesse e non dallo Stato. In primo luogo, però. Ma cosa succederebbe se i privati non dovessero rispondere all’appello?

Il tema è assai controverso, ed è comprensibile che nessuno azzardi una risposta. Visco, al contrario, ostenta un certo ottimismo, che solo i fatti ci diranno se è di maniera oppure se è fondato. “Al di là dell’entità dei fabbisogni di capitale che risulteranno dall’esercizio, – spiega – che prende a riferimento la situazione in essere alla fine del 2013, va ricordato che importanti risultati sono stati già ottenuti nel corso di quest’anno, rafforzando le iniziative assunte negli anni precedenti. In Italia numerosi intermediari hanno operato in bilancio ingenti svalutazioni delle poste dell’attivo (per oltre 30 miliardi nel solo 2013, per quasi 130 dal 2008), accrescendo la trasparenza dei bilanci. Sono state realizzate operazioni di rafforzamento patrimoniale per quasi 40 miliardi, di cui oltre 10 nel corso del 2014. Grazie a questi interventi le banche potranno far meglio fronte alle eventuali necessità di rafforzamento risultanti dall’esercizio”.

Per una di quelle misteriose vie che intraprende il pensiero, sapere che dal 2008 le banche italiane hanno svalutato 130 miliardi di crediti e hanno rafforzato il patrimonio per 40 miliardi, mi fa venire in mente un vecchio film degli anni ’90 che con le banche non c’entra nulla: caccia a ottobre rosso, la storia di un sottomarino sovietico sulla pelle del quale Usa e Urss giocano l’ennesimo esercizio di quel conflitto profondamente scacchistico che è stata la guerra fredda.

Ripenso alla trama e mi accorgo che in effetti le banche europee somigliano pericolosamente a quel sottomarino: sono dotate di armi nucleari, ossia gli esotici strumenti finanziari nascosti nei loro bilanci, e viaggiano negli abissi misteriosi del sistema finanziario, il loro personalissimo mare, senza che nessuno sappia bene cosa tengono ben nascosto nei loro arsenali. Sostanzialmente spaventano tutti, trattandosi di armi di distruzioni di massa, a cominciare dagli stati che pure le ospitano più che volentieri.

Da questa prospettiva il lungo discorso di Visco smette di annoiarmi e diventa interessante. L’avvio della supervisione unificata in sede europea, e segnatamente all’interno della Bce, è prevista per il 4 novembre, quindi pochi giorni dopo il disvelamento del comprehensive assessment. Da quel giorno a Francoforte si installerà una sorta di torre di controllo che potrà sindacare, finalmente fuori dai circuiti nazionali, sullo stato di salute delle banche, 120 al momento, molte delle quali fanno parte della lista dell istituzioni sistemiche che il Comitato di Basilea ha redatto. In sostanza quest’autunno vedrà il primo vagito dell’Unione bancaria, che segna l’inizio di una nuova Europa dove l’unificazione della valuta di conto viene completata dall’unificazione della moneta più consistente delle nostre economie: la moneta bancaria.

Per capire la rilevanza di questo passaggio storico, basta sottolineare come fa Visco che “l’azione di politica monetaria (della Bce, ndr), la definizione dell’Unione bancaria, il tornare a discutere di quella di bilancio, a progettare, in prospettiva, un’unione politica hanno contribuito ad avviare il ripristino durevole della stabilità finanziaria dell’area dell’euro e più favorevoli condizioni di finanziamento nei paesi esposti alle tensioni”.

L’istituzione della supervisione unificata, tuttavia, è solo il primo passo. Gli altri due, tuttavia, sono già stati compiuti e aspettano solo di essere attuati. Quindi l’attivazione del meccanismo di risoluzione e, soprattutto il più controverso: l’attivazione del fondo unico di risoluzione.

Visco ci ricorda che il consiglio unico di risoluzione sarà operativo dal primo gennaio 2015, “quando avvierà l’attività di raccolta di informazioni e di collaborazione con le autorità di risoluzione nazionali per la definizione dei piani di risoluzione delle banche. Il Consiglio, in particolare, adotterà le decisioni di risoluzione – con la collaborazione delle autorità di risoluzione nazionali – per le banche vigilate direttamente dalla BCE e per i gruppi bancari transfrontalieri”. Ma solo dal primo gennaio 2016 saranno operative anche le regole previste per il fondo unico di risoluzione che dovrebbe essere alimentato da accantonamenti delle stesse banche. Salvo per il periodo transitorio, che poi è quello che inizierà dal 1 gennaio 2015.

Ed è qui che torna la domanda: da chi dovranno essere coperte eventuali carenze di capitale che dovessero essere acclarate a fine ottobre? E chi pagherà il conto di eventuali risoluzioni bancarie che dovessero rendersi necessarie a partire dal 1 gennaio 2015?

Visco si limita a ricordarci ancora che “restano da definire, rapidamente, importanti aspetti operativi del meccanismo. Si tratta, in particolare, delle modalità per rafforzare la capacità finanziaria del Fondo di risoluzione, soprattutto nei suoi primi anni di vita, dei meccanismi per la definizione dei contributi dovuti dalle banche”. E poi che “andrà assicurato il rapido completamento dei passaggi necessari per garantire il rispetto di questa scadenza e consentire all’Italia di partecipare fin dall’inizio del 2015 alla preparazione del meccanismo unico di
risoluzione”.

Ma soprattutto è sullo schema assicurativo dei depositi che si giocherà la partita politica più importante: “Uno schema unico di assicurazione dei depositi, anche attraverso la mutualizzazione delle risorse all’interno dell’Unione, consentirebbe di affrontare meglio eventuali episodi di crisi sistemiche, attenuando decisamente i rischi di instabilità finanziaria a livello locale”.

Ed è proprio sul concetto di mutualizzazione delle risorse che andremo a vedere le carte di questa nuova eurozona. Se l’accettazione della mutualizzazione passerà per la logica degli aiuti condizionati, prevedendo al tal fine un ruolo apposito del fondo Esm, sarà evidente che l’eurozona avrà compiuto un importante passo in avanti verso l’unione fiscale utilizzando surrentiziamente quella bancaria. E non servirà molto tempo per capire se sarà così.

Una volta conclusa la “caccia” alle banche europee, che molto presto sapremo se ben capitalizzate o no, conosceremo anche chi e come dovrà pagare l’eventuale conto che la Bce presenterà ai mercati allo scopo, nobilissimo, di ristabilire la fiducia. Se poi la caccia a ottobre rosso finirà col farci scoprire banche in rosso ciò non potrà che affrettare il processo di unificazione bancaria, magari passando da una massicia stagione di fusioni e acquisizioni, visto che “il funzionamento della vigilanza unica sarà tanto più efficace quanto più verranno superati i limiti derivanti da ordinamenti ancora in gran parte nazionali”.

Ristabilire la fiducia, unificare il sistema finanziario, dopo quello monetario, preparerà anche il campo per un’ulteriore evoluzione della finanza europea. Oltre a spezzare il legame ancora forte fra banche e debito sovrano, bisognerà pure affievolire quello fra banche e imprese, cosicché queste ultime, ancora troppo dipendenti dai finanziamenti bancari, imparino a reperire fondi sul mercato dei capitali, come succede negli Stati Uniti.

Conclusione: alla fine di questo percorso avremo un nuovo sistema finanziario europeo, integrato, unificato, centralmente regolato e controllato. L’unione fiscale o politica, a questo punto, sarà solo questione di tempo.

E neanche troppo.