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La Brexit delle banche inglesi è iniziata nel 2012


Quel che bisognerebbe osservare, nel futuro dei negoziati che opporranno l’Ue alla UK per decidere il futuro della Brexit, è la fisionomia che andrà ad assumere la regolamentazione delle banche britanniche. Queste ultime, come ricorda la Bis nel suo ultimo quaterly review, sono “un centro nevralgico dell’attività bancaria internazionale”. E non tanto (o non solo) per la quantità di risorse che passano dal Londra, ma perché “Il Regno Unito svolge un ruolo particolarmente importante come centro di redistribuzione dei capitali denominati in euro”.

Agli inglesi l’euro non piace, e la Brexit sta lì a confermalo, ma commerciare in euro è stato, ed è tuttora, una delle attività preferite degli intermediari dislocati a Londra, “la maggior parte dei quali – ricorda la Bis – ha sede legale fuori dal Regno Unito”. Sono quindi banche estere allocate a Londra, ma non banche inglesi strictu sensu. Cambiare le regole del gioco, quindi, potrebbe avere un’influenza determinante per il territorio britannico che, giova ricordarlo, dall’attività finanziaria trae una quota significativa del proprio prodotto lordo.

L’analisi svolta dalla Bis consente di apprezzare l’importanza di questo smercio di euro che vede Londra nel ruolo di hub. “Le banche e gli altri intermediari finanziari ubicati nel paese prendono in prestito euro dall’estero per poi investirli in attività transfrontaliere denominate in euro. Le banche situate nel Regno Unito rappresentano i maggiori prenditori e prestatori di euro al di fuori dell’area dell’euro”.

Per avere un’idea di quanto pesi questa prassi, basta ricordare che circa il 54% di tutti gli impieghi transfrontalieri non consolidati denominati in euro a livello mondiale
al di fuori dell’area dell’euro e il 60% di tutte le passività segnalate alla Bis erano nei confronti di residenti nel Regno Unito. Di recente, tuttavia, questa quota è diminuita, in parte perché sono aumentate le attività in euro di altri parte del mondo – ad esempio grazie al notevole aumento di emissioni obbligazionarie in euro di residenti Usa – e poi per le mutare ragioni di cambio.

Rimane il fatto, tuttavia, che “dal lancio della moneta unica, le posizioni denominate in euro hanno rappresentato gran parte dei portafogli transfrontalieri delle banche ubicate nel Regno Unito”. In sostanza, le banche inglesi sono quelle che più di tutte hanno prestato in euro prendendo a prestito in euro. “Per la maggior parte degli anni 2000 – sottolinea – la quota dell’euro nelle attività transfrontaliere delle banche nel paese ha oscillato intorno al 40%, eguagliando pressoché quella delle attività denominate in dollari Usa”.

Questa particolarità deriva dal fatto che c’è una differenza sostanziale fra le banche inglesi propriamente dette, ossia di nazionalità inglese, con quelle di nazionalità estera che però agiscono sul territorio britannico. “Il Regno Unito emerge come centro nevralgico preminente dell’attività bancaria internazionale – spiega la Bis -.
Tuttavia, gran parte di questa attività è riconducibile a banche di altri paesi con dipendenze nel Regno Unito”. Che poi magari sono le stesse che prestano in euro alle loro dipendenza britanniche e da lì trasferiscono euro fuori dall’UK. Evidentemente tali operazioni trovano la loro ragione d’essere in una qualche convenienza finanziaria che si motiva con le regole che legano le banche europee all’UK, ossia ciò di cui dovrà discutersi nei futuri negoziati.

Il risultato di queste pratiche è che alla fine di marzo 2016 le banche situate nel Regno Unito sono risultate le più attive nelle concessione di crediti transfrontalieri, con ben 4.500 miliardi di prestiti concessi, seguite da quelle del Giappone, con 4.300, e degli Usa, con 3.800 miliardi. Ovviamente, per poter dare tanto, bisogna pure ricevere parecchio. E infatti il Regno Unito, con 3.800 miliardi, è risultato, sempre nel periodo considerato, come il secondo maggior destinatario di credito bancario transfrontaliero dopo gli Usa (4.800 miliardi). Quasi due terzi di questi crediti erano impieghi interbancari, un terzo dei quali con banche collegate. Vale la pena osservare che la maggioranza delle attività verso il Regno Unito arriva dalle banche statunitensi, seguite però a poca distanza da quelle tedesche, spagnole e francesi.

Quel che bisogna osservare, perciò, dell’esito del post Brexit, è se e come le regole che andranno a decidersi finiranno col turbare pratiche ultradecennali che hanno consentito all’UK di diventare lo snodo fondamentale della finanzia europea. Pratiche che già le perturbazioni dei mercati con l’esplodere della crisi hanno notevolmente mutato.

Se infatti è vero che sin dal suo esordio le posizioni denominate in euro sulla piazza londinese hanno pareggiato quelle in dollari – circa il 40% delle attività transfrontalieri – dal 2012 queste quote hanno iniziato ad assumere andamenti divergenti, in gran parte a causa dell’andamento dei tassi di cambio. Sicché dal 2012 a marzo 2016 la quota in euro è scesa dal 39 al 33% a fine marzo 2016, mentre quella in dollari è salita dal 39 al 44%. In sostanza, le banche localizzate in UK hanno trovato sempre meno conveniente usare euro per i propri prestiti. La Brexit dei banchieri inglesi non è iniziata il giugno del 2016. Ma almeno quattro anni prima.

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Gli effetti deflazionari della terza età


Scopro con divertito stupore che le mie malfondate intuizioni circa il legame fra andamento dell’economia e della demografia non sono così infondate, relativamente almeno agli effetti che gli andamenti demografici hanno su quello dei prezzi.

Stupore cui si aggiunge la sorpresa, quando osservo, leggendo un paper della Bis (“Can demography affect inflation and monetary policy?”), che fior di banchieri centrali iniziano a sospettare che l’aumentare della quota di popolazione anziana abbia effetti deflazionari, impattando implicitamente sul livello del prodotto.

Ma più di tutto, mi convince a leggere il paper la domanda che gli autori si fanno all’inizio: “Perché l’inflazione era alta negli anni 1960-70 e perché è bassa oggi?”, che mi sembra assolutamente interessante.

Sicché mi armo della consueta santa pazienza e inizio a compulsare le 50 pagine dello scritto, che magari non darà una risposta definitiva, ma almeno offre degli spunti di riflessioni utili al nostro discorso.

Secondo il punto di vista più comune, l’impennata dell’inflazione degli anni 60-70 fu frutto di errori commessi dalle banche centrali, che non agirono efficacemente per impedire il fenomeno.

Più di recente, alcuni banchieri centrali hanno ipotizzato che le tendenze demografiche possano avere a che fare con l’andamento dei prezzi, e persino il Fmi, prendendo spunto dall’esperienza giapponese, ha ipotizzato che il divenire anziano della popolazione spinga al ribasso i prezzi, per lo più facendo rallentare la crescita, indebolendo persino gli effetti della politica monetaria.

Sulla scorta di queste analisi precedenti, gli autori del paper hanno condotto un’analisi su 22 economie riguardante il periodo 1955-2010 al termine della quale affermano di aver trovato “una significativa e stabile connessione fra la struttura anagrafica della popolazione e l’inflazione” o direttamente “o tramite le aspettative di inflazione”. Ciò anche di fronte al verificarsi di eventi come i due shock petroliferi, o seguendo l’andamento del tasso reale di interesse o dell’output gap, nei confronti dei quali “l’impatto demografico sembra essere complementare”.

Ancora più importante, sottolineano, è la circostanza che “il risultato non dipende da nessun periodo particolare”. La relazione fra demografia e inflazione risulta sussistente nel dopo 1980 come nel dopo 1995, e sussiste anche nei periodo straordinari, come appunto sono stati quelli degli shock petroliferi.

Secondo le stime degli autori, “la demografia pesa circa un terzo delle variazioni dell’inflazione e in gran parte per la decelerazione avvenuta dai tardi anni ’70 ai primi anni ’90”.  Soprattutto, le rilevazioni hanno mostrato un pattern a U: “Una quota maggiore di persone a carico (ossia, giovani e anziani) è correlata con un più alto tasso di inflazione, mentre una quota maggiore di coorti in età lavorativa è correlata con un’inflazione più bassa”.

L’estensione dell’analisi alla politica monetaria ha permesso inoltre di arrivare a un’altra conclusione: c’è una relazione fra gli andamento demografici e la politica monetaria, anche se non appare stabile come quella individuata fra demografie e prezzi.

In particolare, prima della metà degli anni ’80 la politica monetaria “ha rinforzato ‘impatto demografico sull’inflazione: i tassi di interesse reali erano bassi proprio mentre erano alte le pressioni inflazionarie”.

Questo pattern si è invertito dalla seconda metà degli anni ’80, quando la politica monetaria ha iniziato a mitigare gli impatti demografici, anche se non completamente. “In altre parole – spiegano – in quel periodo i tassi di interesse reali erano bassi e le pressioni demografiche inflazionarie lo erano altrettanto”.

Insomma: la demografia impatta sull’economia, in tanti modi. Ma questo in pratica che vuol dire?

“Il nostro risultao è rilevante per la teoria economica e le policy”, sottolineano i due autori. Della prima potremmo pure infischiarcene, atteso che le teorie economiche cambiano di continuo. Più interessante però l’effetto che ciò ha sulle politiche, che magari a queste teorie fanno riferimento. In particolare le politiche monetarie che si basano sulla stima dell’inflazione prevista e si orientano verso i target di riferimento.

Questi ultimi, in particolare,  “potrebbero rimanere ottimali – si chiedono – se le pressioni inflazionarie sottostanti cambiano significativamente?”.

Detto in altre parole, può bastare un 2% di target se l’andamento demografico spinge verso lo zero? O se invece, aumentando gli anziani, e quindi quelli fuori dai processi produttivi, l’andamento demografico spingerà verso un’inflazione più alta?

Il problema si aggrava se si considera che i paesi hanno strutture demografiche profondamente diverse, pure se in comune hanno una quota crescente di anziani. In alcuni di questi, dove l’invecchiamento della popolazione si prevede più rapida, ci si può aspettare una maggiore spinta verso l’inflazione. Fra questi spiccano Italia, Grecia, Spagna (sempre perché piove sul bagnato) e Corea del Sud.

Chi ha orecchi intenda, diceva il filosofo.

 

La fine dell’indipendenza delle banche centrali


Al culmine dell’età delle banche centrali, come ebbe a definirla un bel libro di Curzio Giannini del 2004, scopriamo che è iniziato il loro inesorabile declino.

Dieci anni dopo un paper della Bis (“The exit from non-conventional monetary policy: what challenges?”) sommarizza tale tramonto questionando su quella che poi è la peculiarità delle banche centrali, ossia la loro capacità di essere indipendenti dai governi e dai mercati. E questo fa piazza pulita di un dogma – quello della credibilità, appunto – finora mai messo in discussione per la semplice circostanza che farlo avrebbe significato indebolire il presupposto stesso delle banche centrali e, in ultima analisi, l’intero costrutto che su di loro si basa per far circolare il credito.

La fine dell’indipendenza delle banche centrali, insomma, strette nella morsa delle esigenze fiscali dei governi e dell’insaziabilità dei mercati, fa scricchiolare la fede nella loro credibilità, che in un regime di fiat money è ciò che rende le banche centrali ciò che sono: custodi della stabilità.

Senza indipendenza non può esserci credibilità. E senza credibilità non può esserci credito, ossia ciò che le banche centrali alimentano virtualmente senza limiti.

Senza indipendenza viene strappato il velo di Maya grazie al quale queste entità venivano percepite, rivelandosi per ciò che sono: la punta avanzata dell’intervento pubblico in economia, da una parte, e i recettori di ultima istanza di tutta la spazzatura finanziaria generata dall’intervento privato nell’economia.

Sicché oggi, dopo una crisi devastante, troviamo banche centrali con i bilanci gonfi di asset, che finiscono col farle somigliare a un gigantesco debito (pubblico) fuori bilancio che gli stati hanno acceso per socializzare debiti altrettanto giganteschi del settore privato.

Questo infingimento globale viene perpetuato per dare sostanza – ossia liquidità – al circuito economico, sperando che chissà come la macchina imballata dell’economia globale si rimetta in marcia.

Il rito viene celebrato ogni volta che una banca centrale accende una speranza, inevitabilmente costosa. Il banchiere centrale parla, promette più soldi, le borse salgono, i governi si rilassano, i cittadini sperano. Ma poiché la costituente della crisi che stiamo vivendo è spirituale – ossia non materiale – tale infingimento è per sua natura destinato a perpetuarsi senza fine, pena il redde rationem: la resa dei conti.

Ossia quello che tutti vogliono evitare.

Ed è per questo che la Bis mostra di essere così preoccupata. “L’uscita (dalle politiche monetarie straordinarie, ndr) avrà successo solo se le banche centrali rimarranno libere dalla dominanza fiscale e da quella finanziaria”. Ossia se riusciranno, sostanzialmente, a infischiarsene della realtà.

Capite bene di che razza di atto di fede sto parlando.

Il fatto è che la crisi ha mostrato come falsi i tre dogmi principali che hanno retto il central banking negli ultimi trent’anni. Ossia che le operazioni di mercato aperto non cambino i prezzi relativi degli asset; che il tasso a breve sia l’unico strumento di politica monetaria a disposizione delle BC per perseguire i propri obiettivi di politica economica; che la liquidità delle banche commerciali sia un problema irrilevante, se le banche hanno i bilanci in ordine.

La realtà post-2008 ha fatto piazza pulita di queste teorizzazione astratte, rendendo chiaro un’evidenza che a me, uso a fare i conti della serva piuttosti, è evidente a naso: “Il bilancio della Banca centrale conta”, per dirla con le parole del paper. “Gli acquisti su larga scala di bond e asset hanno abbassato i tassi a lungo, la netta separazione fra le operazione di mercato aperto delle BC e la gestione del debito dei governi si è offuscata e le banche adesso fanno molta più attenzione alla liquidità dei loro bilanci”.

In sostanza, la favoletta del central banking, che vedeva le BC come entità sostanzialmente sovrannaturali – ha mostrato la sua fallacia alla prima seria prova dei fatti. Con l’aggravante che “a causa dell’allungamento della maturità degli asset delle BC le decisioni prese durante la crisi avranno conseguenze più durature e incerte nel tempo”.

La constatazione perciò che “nello scorso decennio i bilanci delle banche centrali siano cresciuti quasi dovunque più di quanto ognuno avrebbe mai pensato” diventa la questione centrale delle BC e del loro rapporto col futuro dell’economia.

Prendiamo la Bce. Francoforte ha concentrato la sua azione con prestiti a medio termine alle banche, tramite i quali le banche hanno comprato titoli di stato, “supportando un profittevole carry trade che ha aiutato le banche a ricapitalizzarsi“. La BoE, la BoJ e e Fed hanno comprato direttamente bond per far scendere i tassi nazionali, ma di fatto “riallocando tutti i portafogli internazionali di bond e quindi influenzando i tassi di cambio”.

“Altrettanto importante – spiega – come le BC abbiano alterato la dimenzione e gli scopi del loro bilancio per rispondere alle condizioni economiche e finanziarie creando aspettative nel settore privato su quello che le BC faranno in futuro”. E infatti le BC sono state costrette a elaborare la dottrina della forward guidance per tenere calma la bestia dei mercati.

Con l’aumentare dei bilanci delle BC, è aumentata anche la liquidità delle banche commerciali, che si sono imbottite di riserve. Negli Usa, ad esempio, all’eccezionale espansione di bilancio della Fed (oltre il 20% del Pil) ha corriposto un livello di riserve delle banche commerciali che ormai quota il 25% del totale dei depositi, mentre nel 2008 erano quasi a zero. Comprensibile che le banche siano diventate prudenti sul versante della liquidità, visto i disastri che si sono verificati nell’autunno del 2008.

Ma la domanda è: un livello di riserve così elevato può creare problemi allorquando la BC deciderà di normalizzare la politica monetaria?

Quanto agli acquisti di bond a lungo termine, che la Fed aveva sperimentato in precedenza solo durante la seconda guerra mondiale, questa pratica ha creato un link difficile da gestire fra gli obiettivi di politica monetaria e la gestione del debito da parte dei governi.

“Nel dopoguerra molte banche centrali erano coinvolte nella gestione del debito dei governi, ma non erano indipendenti”, nota il paper. Col che si capisce bene che, di fatto, non lo sono più neanche adesso.

La lezione degli anni ’80, quando gli stati ingolfati dalla stagflazione iniziarono formalmente a separarsi dalle loro BC, sembra sia andata definitivamente perduta. A meno che non si voglia credere davvero che la Fed non tenga conto del governo quando decide le sue operazioni di acquisto di bond.

O che, almeno, non tenga conto dei mercati.

“Abbassare i tassi a lungo termine (comprando bond pubblici, ndr) ha contribuito a ricondurre i prezzi degli asset nelle economie core a livello pre-Lehman, o ancora più in alto”. La domanda stavolta è: l’uscita dalle politiche non convenzionali sarà in grado di  evitare conseguenza negative in futuro su questi asset?

Una risposta rassicurante esiste: l’aumento di ricchezza (finanziaria) determinata dalle politiche espansive delle BC avròà effetti sulla domanda globale, senza considerare che una valutazione più elevata degli asset renderà possibile accendere debiti più elevati, se li si usano come collaterali.

L’aspetto rassicurante, perciò, porta con sé l’ipotesi che ci sia un crescita costante di domanda, ovvero di debito.

Ma il problema, con questa risposta rassicurante è che “la recente recessione è durata troppo a lungo”. “I prezzi degli asset sono cresciuti, ma gli effetti benefici sulla crescita reale che avrebbe dovuto conseguirne non si è ancora materializzata” e questa “sconnessione è preoccupante”. “Stiamo creando una bolla destinata a sgonfiarsi”, si chiede (un po’ retoricamente) l’autore.

Oltre ai rischi di bolla, che aumentano sempre più, c’è un altro rischio che si alimenta al ritmo del forsennato turbinare delle emissioni numerarie delle BC: il rischio di esposizione ai tassi di interesse.

“Al centro di questo rischio c’è il debito in Treasury detenuto al di fuori della Fed, cresciuto dai 3 trilioni del 2007, con un rendimento medio del 5%) a otto trilioni (con un rendimento medio dell’1% a metà 2013″. Un aumento dei tassi può avere effetti devastanti su questi asset.

Di fronte a tutto ciò i banchieri centrali dicono ormai da anni di voler uscire dalle politiche non convenzionali, ma in realtà non riescono a smetterla di usarle. Le Fed ha ridotto gli acquisti di bond, ma in compenso la Bce ha armato il bazooka. Col risultato che non solo i bilanci aumentano, ma anche la maturità delle scadenze.

Le BC sono sempre più pesantemente coinvolte nelle politiche dei governi e dei mercati, anche se dicono convintamente il contrario. Anche perché “è impossibile quantificare come reagirebbe il mercato dei bond a vendite da parte delle banche centrali”. Anche qui non serve essere esperti per saperlo: reagirebbe come reagisce ogni mercato quando si vende massicciamente: con un calo. Quindi perdita sui corsi e aumento dei rendimenti, ossia il contrario di quello che le BC dicono di voler perseguire.

Conclusione: le BC non possono smettere di comprare bond statali (Fed) perché ormai sono troppo interconnesse con le tesorerie dei governi, né possono pensare di venderli, perché aumenterebbero i tassi. Sicché assistiamo a dichiarazioni che prevedono tassi a zero molto a lungo, e insieme a bilanci che si gonfiano sempre più per riuscirci.

“C’è una grande incertezza sul quando e quanto velocemente le BC potranno ridurre il loro possesso di bond”.

E in tale incertezza che emerge con prepotenza l’unica certezza: le BC non possono più decidere senza tenere conto del governo e dei mercati. “L’allarme dell’ex vice presidente della Fed sull’aumento delle minacce all’autonomia delle banche centrali vanno prese molto seriamente”.

Altro che indipendenti.

 

 

Le banche spagnole ballano la samba


Il segreto di Pulcinella meglio custodito, ma in quanto tale noto a tutti, sulle banche spagnole è che sono ballerine. E non tanto perché sono state al centro di un salvataggio europeo, con alcune decine di miliardi di euro elargiti dal fondo Esm e ciò malgrado siano ancora piene di problemi. Ma perché conservano una pesante esposizione verso i paesi emergenti dell’America Latina, a cominciare dal Brasile.

Ballerine di samba, perciò. Ma anche amanti dei nachos, visto che dopo il Brasile nella classifica dei rischi esteri viene il Messico.

Le ultime statistiche consolidate rilasciate pochi giorni fa dalla Bis, relative all’ultimo trimestre 2013, totalizzano l’esposizione delle banche spagnole verso i paesi latino-caraibici a quota 488 miliardi di dollati, quasi un terzo del totale degli oltre 1.500 miliardi di esposizione estera.

Di questa montagna di denaro, il Brasile assorbiva 161 miliardi a fine 2013, in calo rispetto al picco di 2010 miliardi toccato nel 2011, e, a seguire il Messico, con altri 159 miliardi. A grande distanza segue il Cile, con circa 67 miliardi e poi il Perù con 22.

Ma poiché è il totale che fa la somma, come direbbe Totò, quello che risulta chiaro scrutando tali statistiche è che la Spagna, per evidenti ragioni storico-culturali, è pesantemente esposta verso un’area geografica che sta vivendo grandi turbolenze provocate dai timori degli irrigidimenti della politica monetaria americana.

Il dato interessante che si può osservare andando a ritroso è che tale esposizione è considerevolmente aumentata durante la crisi. Basta notare che nel 2007 (primo trimestre) superava di poco i 250 miliardi. E con l’avvento della crisi è aumentata. Le banche spagnole, insomma, hanno provato a lucrare rendimenti investendo sui paesi emergenti (come hanno fatto tutti in realtà) mentre all’interno sempre le stesse banche rischiavano il crack a causa della pesante esposizione al settore immobiliare, che ha condotto al salvataggio europeo.

Se andiamo ancora più indietro scopriamo che nel 2000 l’esposizione estera delle banche spagnoe verso quest’area era appena a 98 miliardi. E questo spiega di ogni altro commento cosa siano stati i primi dieci anni del XXI secolo.

La ricerca del rendimento, tuttavia, adesso rischia di far rientrare dalla finestra la crisi bancaria che, faticosamente, la Spagna ha per adesso scongiurato grazie ai soldi dell’Esm e al prezzo di una devastante correzione fiscale e della posizione estera che ha distrutto la domanda interna e portato la disoccupazione al 27%. Anche perché le previsioni per le economie emergenti non sono delle migliori.

Nella sua ultima relazione annuale la Banca d’Italia, pur notando che la crescita del Pil in Brasile è stata robusta nel 2013, non può fare a meno di notare la panoplia di criticità di fronte alle quale si trova l’economia brasiliana. Il settore esterno, che poi è quello che nei primi anni del 2000 ha fatto gridare al miracolo brasiliano, ha contribuito negativamente alla crescita con un -0.9%, al contrario di quanto ha fatto la domanda interna, cresciuta soprattutto grazie all’aumento dei salari reali, con un’inflazione al consumo che ha raggiunto il 5,9% a fine 2013.

Tutto ciò si è ripercosso sulla posizione fiscale, che si è deteriorata. Il deficit sul Pil è arrivato al 3,3%, l’avanzo primario si è ridotto all’1,9% e il debito è arrivato al 66,3%. tutti elementi che hanno indotto S&P ad abbassare il rating, mentre a febbraio 2014 il governo decideva di tagliare 14 miliardi al bilancio pubblico per evitare ulteriori abbassamenti dell’avanzo primario.

Come se ciò non bastasse, è arrivata la tegola del tapering americano, che a maggio 2013, dopo le esternazioni di Bernanke, ha terremotato il real brasiliano, già affaticato da un saldo di conto corrente negativo per il 3,6% del Pil (era il -2,4 nel 2012).

Son partiti i deflussi di capitale, persino dalla Spagna, che dai 181 miliardi di inizio 2013 è passata bruscamente ai poco più di 160 del terzo trimestre. Alta inflazione e grandi deflussi hanno costretto la banca centrale a stringere i cordoni della borsa.

La conseguenza è che i tassi sono schizzati alle stelle. Il Selic, che ad aprile 2013 era al 7,25%, è stato rialzato nove volte di fila, arrivando all’11% del 2014. E le prospettive di crescita del paese adesso sono decisamente orientate al ribasso.

Questo pattern, pure se con le dovute differenza, si è visto anche in Messico che come il Brasile e tante altre economie emergenti ha aumentato i suoi debiti, spesso emettendo bond sui mercati internazionali, e ha sofferto svalutazione, inflazione e saldo di conto corrente negativo. L’intera area, infatti, ha visto peggiorare significativamente la sua posizione estera. I saldi dei conti correnti di tutti i paesi sono peggiorati e il debito estero pure. Il Brasile ormai sfiora il 14% del Pil (era il 12% nel 2011), il Messico ha superato il 20%, il Cile ha superato il 47%, la Colombia il 24% e il Perù il 29%.

Che l’America Latina impensierisca non poco la Spagna si deduce agevolmente anche sfogliando l’ultimo report della banca centrale spagnola proprio su queste economie, e notando che tale reportistica sia ormai consuetudine del regolatore spagnolo.

Nell’ultimo disponibile, che analizza lo stato dell’arte nella prima metà del 2014, leggo che “i rischi per l’America Latina sembrano dipendere più dal mutamento delle condizioni monetarie internazionali che dal rallentamento dell’economia cinese”. La Banca di Spagna nota preoccupata il rallentamento dell’area latina cominciato già nel 2012, in Argentina e Brasile, per poi estendersi, nel corso del 2013, in Messico, Cile e persino Colombia e Perù. E l’outlook per il 2014 è stato ancora rivisto al ribasso.

E proprio al Brasile la banca di Spagna ha dedicato un approfondimento, notando in conclusione che se è vero che l’economia brasiliana ha delle fragilità (il credito al settore privato è crescito del 21% l’anno fra il 2004 e il 2013), ha pure dei buffer che potrebbero funzionare da salvagente anche se pare ormai evidente che quest’economia gigantesca abbisogni di profonde riforme per non finire in stallo.

E per fare le riforme serve tempo. Risorsa, questa sì, scarsissima.

In un contesto così complesso, con gli Stati Uniti pronti a premere il freno monetario alzando i tassi già dall’anno prossimo, è più che comprensibile che la banca centrale spagnola guardi all’America Latina come a una possibile fonte di contagio e di instabilità per il sistema bancario domestico, peraltro ancora tutt’altro che risanato, e di conseguenza per tutta l’Europa.  Il rischio importato dagli emergenti latini, in sostanza, è diventato assai sostanzioso e non riguarda solo la Spagna, ma tutti noi.

L’ultimo post programma surveillance della commissione Ue sulla Spagna, rilasciato nel maggio scorso, nota che nel 2013 il settore bancario è tornato a far utili, ma la profittabilità rimane ancora bassa, con una quota di crediti non performing (NPLs) ancora inchiodata al 13,4% a febbraio.  “Inoltre – aggiunge – un rallentamento nei mercati emergenti, in particolare in alcuni paesi latino-americani, potrebbe indebolire la redditività di alcune banche”, per non parlare dei rischi di aprire vere e proprie voragini.

Il segreto di Pulcinella, appunto.

Le banche europee di fronte allo stress test (russo)


Come sempre molto istruttiva, la lettura dell’ultimo International banking statistics della Bis, (l’italiana Bri, Banca dei regolamenti internazionali) relativo a dicembre 2013, ci racconta alcune cose che aiutano a focalizzare bene il momento che stiamo vivendo.

Potremmo sintetizzare così: da una parte abbiamo l’eurozona, dove il mercato dei prestiti continua a franare, al contrario di quanto accade per quello Usa e quello giapponese.

Dall’altra abbiamo i paesi emergenti, che vedono crescere la quota di prestiti a loro destinati, ma non tutti. La Cina, nella versione di grande accaparratrice, fa la parte del leone, mentre la Russia, ancora prima della crisi ucraina, continua a sperimentare deflussi che fanno scricchiolare l’impianto della sua contabilità economica, con importanti ripercussioni sempre sull’eurozona, che della Russia è stata ed è tuttora ampia finanziatrice.

Il combinato disposto è evidente: il mondo bancario europeo sta vivendo tuttora una situazione di grande stress, a cui si aggiungeranno anche gli stress test previsti dal percorso di Unione Bancaria. Tutto ciò non può che avere effetti sulla concessione di credito. E spiega bene perché, in un contesto quantomeno disinflazionario, la Bce stia valutando tutte le opzioni possibili per far arrivare soldi all’economia reale.

I dati parlano chiaro. I flussi transfrontalieri di prestiti registrano, fra settembre e dicembre del 2013, un calo di 93 miliardi, pari a un -0,3% sul totale. Rimarchevole la circostanza che tali flussi siano diminuiti nei confronti delle entità non bancarie per il settimo trimestre consecutivo, anche se a un passo meno sostenuto del passato.

Ma ancora di più salta all’occhio il calo di flussi dei prestiti denominati in euro, calati nel trimestre di 325 miliardi, pari al 3,3%. Al contrario, i prestiti denominati in dollari e in yen sono aumentati di 49 miliardi (+0,4%) e di 62 miliardi (+5,3%).

Sono aumentati i prestiti alle economie emergenti, cresciuti nel trimestre di 95 miliardi (+2,7%), per lo più concentrati in Asia, e in particolare in Cina, che ha assorbito 85 miliardi (+11% rispetto a settembre).

Se dal quadro generale scendiamo nel dettaglio, notiamo che il calo di 93 miliardi dei prestiti nell’ultimo trimestre è il settimo consecutivo registrato dalla Bis. E pure se ridotto rispetto al dato dei trimestri precedenti, quando si era registrata una diminuzione di 519 miliardi (-1,8%), porta il totale della contrazione da marzo 2012 a 2,3 trilioni di dollari, ossia -7,7%.

Ma scopriamo ancor di più se veniamo in profondità il dato dei prestiti denominati in euro. I 325 miliardi di calo dell’ultimo trimestre 2013 peggiorano un situazione di dimagrimento dei prestiti in euro che ormai va avanti dal 2008. Il dato aggregato ci dice che dal picco di marzo di quell’anno, quando i prestiti denominati in euro cumulavano 8,8 trilioni, la montagna di prestiti ha perso 1,8 trilioni, pari al 21%. Cosa più importante, “la contrazione nei prestiti transfrontalieri denominati in euro – nota la Bis – pesa per circa i due terzi sulla riduzione generale dello stock dei prestiti nello stesso periodo”, ossia dal marzo 2008 a dicembre 2013.

In sostanza, il credit crunch è stato un fatto eminentemente europeo. Con l’aggravante che la restrizione dei prestiti ha colpito pesantemente le banche europee, quindi il mercato interbancario europeo, diminuito di ben 1,2 trilioni su 1,8 totale, a fronte dei 360 miliardi in meno alle banche fuori dall’area. “Nel 2013 i prestiti in euro alle banche dell’area hanno continuato a declinare”.

Questa situazione si innesta in un contesto sempre più difficile per le economie emergenti, in particolare quelle che stanno vicino a noi.

Non è certo un caso che la Bis faccia un focus sulla situazione della Russia e dell’Ucraina.

Mentre infatti continuano i flussi di prestiti verso l’Asia (+7,3%), Cina in particolare, e proseguono, anche se al rallentatore quelli verso l’America Latina (+0,9%), si contraggono quelli verso i paesi emergenti dell’Europa, dell’Africa e del Medio Oriente (-1,7%).

“I prestiti nell’europa emergente hann continuato a diminuire nell’ultimo trimestre 2013. Gli sviluppi della regione sono stati dominati dalla notevole contrazione dei prestiti in Russia (11 miliardi in meno, -6,1% e i prestiti all’Ungheria (-3 miliardi, -6,8%)”.

Questo calo, nota la Bis, è antecedente alla crisi ucraina, e quindi non tiene conto dell’agitazione che ormai da mesi si sta concentrando sullo stato di salute dell’economia russa. Ricordo che a fine aprile la Banca centrale russa ha dovuto alzare i tassi a breve al 7,5%, mentre il cambio del rublo verso il dollaro continua a indebolirsi.

Ebbene, una febbre in Russia è capace di provocare più di un raffreddore agli azionisti di maggioranza dell’eurozona, sia direttamente che indirettamente.

I dati della Bis mostrano che a fine 2013 l’esposizione delle banche russe col resto del mondo ammontava a 242 miliardi di dollari (o 219 secondo il metodo di calcolo ultimate risk basis). La Francia, storicamente grande finanziatrice della Russia, è quella più esposta, con 49 miliardi, seguita però dagli Stati Uniti (32 miliardi) e dall’Italia (29 miliardi), una decina in più della Germania.

All’esposizione diretta della banche, osserva la Bis, bisogna anche aggiungere quella che dipende dall’esposizione in derivati o da garanzie offerte su contratti, che quotano 151 miliardi, la gran parte della quale (125 miliardi) rappresenta garanzie che coprono principalmente le passività potenziali dei venditori di protezione sui credit default swap (CDS) considerati a valori nozionali. Questa carta, più o meno tossica, di solito è in pancia sempre alle banche. E’ evidente che un peggioramento degli standard finanziari della Russia avrà conseguenze (perdite) su questi contratti.

L’esposizione verso l’Ucraina è assai più contenuta, si parla di 27 miliardi di dollari, di cui circa un quarto nei confronti di banche austriache e altrettanto verso quelle italiane, e un po’ meno verso quelle francesi. Complessivamente le banche europee sono esposte per il 90% del totale verso l’Ucraina.

Ma quello che preoccupa non sono tanto le esposizione dirette, che pure sono importanti in epoca di stress test. Sono gli incroci fra le singole banche, vicendevolmente intrappolate nelle ragnatele di prestiti tessute in tutta Europa.

E poi ci sono i legami con i parnet più vicini della Russia, ossia quelle della Comunità di stati indipendenti (CSI) nata nel 1991 dall’accordo fra Russia, Ucraina e Bielorussia, e poi allargata all’Armenia, l’Azerbaijan, il Tajikistan, il Turkmenistan e l’Uzbekistan. In pratica la parte centrale dell’Europa orientale che oggi costituisce il nerbo dell‘Unione Euroasiatica voluta da Putin. E poi ci sono i legami con i Paesi Baltici.

A tal proposito, vale la pena riportare l’opinione del Fmi, così come scritta nell’ultimo Global financial stability report. “I rischi geopolitici in Russia e in Ucraina hanno avuto finora ricadute limitate nei mercati globali. Finora l’impatto è stato limitato ai mercati regionali: si è innescato un aumento del rischio di credito sovrano russo e ucraino (i famosi CDS, ndr), una forte svalutazione del rublo e della grivna e un aumento dei rendimenti obbligazionari locali. Tuttavia i paesi della CSI e in misura minori i paesi baltici (ormai stabilmente nell’orbita dell’eurozona, ndr) hanno forti legami con commercio, rimesse, investimenti diretti esteri”.

Insomma, se si mette male per la Russia, si mette anche per l’Europa, dentro e fuori l’eurozona.

Questo è il vero stress test che ci aspetta.

Altro che quelli della BCE.

Il “bondage” che soffoca le economie emergenti


Tutto il mondo è eurozona, viene da dire, leggendo un pregevole paper della Bis (The global long-term interest rate, financial risks and policy choices in EMEs), dove si narra di come la generosa politica monetaria dell’Occidente abbia finito con l’intonare i tassi reali a lunga dei paesi emergenti su quelli americani, replicando di fatto ciò che è accaduto da noi negli anni buoni dell’euro. Ricordate quando i tassi italiani erano a un passo da quelli tedeschi?

Anche lì, come da noi, è crollata la spesa per interessi dei governi. Anche lì, come da noi, sono saliti i prezzi degli asset, a cominciare dal mercato immobiliare. E anche lì, come nei Piigs, si è sviluppata una certa ipersensibilità all’andamento delle bilance dei pagamenti, che ha condotto in tempi recenti a minacciosi turbamenti valutari che le loro banche centrali, a differenza di quelle dell’eurozona che sono state commissariate, stanno cercando di contrastare muovendo i tassi.

Senonché nei paesi emergenti, che ormai anche il nostro presidente della Bce ha osservato essere uno dei principali rischi della fragile ripresa internazionale (ma c’ero arrivato persino io), s’è aggiunta un’altra complicazione: i tassi a lungo bassi, quando non negativi, hanno spinto gli investitori esteri, sempre a caccia di rendimenti, a sottoscrivere grandi quantità di bond locali, il che ha rilassato notevolmente le condizioni monetarie di queste economie. Tanto che le aziende locali si sono sentite autorizzate a iniziare a finanziarsi emettendo bond sul mercato internazionale, anziché rivolgersi alle banche, indebitandosi quindi in valuta straniera. “Questa espansione – avverte la Bis – mostra che gli indicatori di vulnerabilità basati solo sulla misura dell’espansione del credito bancario non fotografano pienamente il rischio finanziario sistemico”.

Conclusione: un bel pacco di debito estero, per lo più del settore corporate, di cui una quota rilevante in valuta straniera. Ricetta sicura per un disastro.

Bond locali comprati dall’estero e bond corporate collocati all’estero è un perfetto “bondage” per questi paesi. Ormai gli emergenti rischiano seriamente di finire strangolati, come peraltro è successo tante volte in passato.

E infatti appena è partito il primo spiffero di tapering, e i rendimenti dei Treasury a 10 anni si sono alzati, sono partite le prove generali del temutissimo sudden stop. Ossia la fine dei soldi facile che arrivano dall’estero, con tutto ciò che questo comporta persino in paesi (finora) gonfi di riserve. E anche questo noi dei Piigs l’abbiamo visto accadere fra il 2010 e il 2011. Solo che il nostro estero erano i paesi creditori dell’eurozona.

Per dare un’idea di quanto sia rilevante la questione, prendo a prestito un po’ di numeri dal paper che dimensionano bene il problema.

La Bis ha misurato la crescita delle emissioni di bond e dei prestiti bancari degli emergenti fra il 2010 e il 2013, comprese le emissioni generate da entità finanziarie stabilite nei centri off shore. Flussi diversi da quelli normalmente indicati nelle bilance dei pagamenti che misurano più compiutamente l’esposizione al rischio di chi prende a prestito.

Viene fuori, a livello aggregato, che negli ulimi tre anni e mezzo (dal 2010 fino al primo semestre 2013) i prenditori emergenti hanno emesso circa 990 miliardi di dollari di bond, la gran parte dei quali sono stati accesi da soggetti non bancari. Parliamo di circa 700 miliardi, pari a oltre il doppio di quanto gli stessi soggetti hanno preso a prestito nel frattempo dalle banche internazionali.

I prestiti accesi presso banche internazionali, infatti, non si sono interrotti. Il totale, infatti, raggiunge quota 862,5 miliardi. Le banche degli emergenti ne hanno assorbito la gran parte, pari a circa 545 miliardi, il resto, 317 miliardi, è andato al settore non bancario. “Le banche internazionali – nota la Bis – sono ancora pesantemente impegnate nel business interbancario”. Il che aggiunge quel pizzico in più di rischiosità a tutta questa partita. Ma questo finora non ha cambiato le vecchie abitudini: “Nonostante le turbolenze nel mercato globale dei bond del maggio 2013 – nota la Bis – l’emissione netta di bond rimane abbastanza sostenuta nella seconda metà del 2013”.

Forse che queste emissioni di bond sono state sostenute da quote crescenti di esportazioni di questi paesi? La Bis ritiene di no. Al contrario “l’esposizione valutaria delle corporation degli emergenti è aumentata”. Ne deriva che “le emissioni di corporation non bancarie su questa scala, un possibile stop degli afflussi a un certo punto nel futuro, può avere conseguenza sul sistema bancario domestico”, visto che le banche locali, incoraggiate dall’ampia disponibilità di risorse, hanno allentato le condizioni creditizie, rivolgendosi al mercato dei finanziamenti all’ingresso, notoriamente assai volatile.

Il risultato è che “la banca centrale può trovarsi di fronte a una grande instabilità nel mercato interbancario domestico nel caso in cui le corporation trovassero difficoltoso continuare a finanziarsi all’estero e se l’esposizone estera è molto ampia la banca centrale può esser costretta a cntemplare misure in una scala tale da minare la propria credibilità”.

La conclusione della Bis è assai poco rassicurante. “Nei mesi recenti molte economia emergenti hanno dovuto fare i conti con una violenta e simultanea caduta delle loro valute nei confronti del dollaro e dei prezzi dei loro bond governativi. Gli investitori esteri in bond emergenti si sono ricordati di quanto fossero esposti non appena le condizioni finanziarie globali sono cambiate”. Ciò dimostra, qualora fosse necessario, quanto i movimenti dei tassi a lungo americani abbiano impatto sulla politica monetaria e la stabilità finanziaria di questi paesi.

Qual è il problema? Che “il lungo periodo di tassi a lungo declinanti a livello globale è finito. A un certo punto le economie avanzate aumenteranno i tassi a breve e ridurranno le loro esposizione nei bond emergenti, siano essi governativi che corporate”.

Solo allora vedremo gli effetti del “bondage” su questi paesi.

E non sarà uno spettacolo edificante.

L’Europa keynesiana (in salsa tedesca)


Riprendiamo, dunque, da dove eravamo rimasti, ossia dalla questione bancaria che questo 2014 vedrà grande protagonista delle cronache e delle preoccupazioni di noi tutti, se non altro per la semplice circostanza che le banche, ci piaccia o no, sono diventate l’architrave del nostro Stato e della periclitante costruzione europea.

Le banche, perciò, ovvero l’ennesima scommessa dell’eu-topia europea, che trova nel faticoso compromesso sull’Unione bancaria il magico ingrediente che dovrebbe addensare la frammentazione finanziaria dell’eurozona, in ultima analisi sociale, in amalgama digeribile per il delicato stomaco dei mercati.

Ma siccome le cronache sono ancora avare di notizie, in questo principio d’anno, rivolgiamoci alla storia che contiene nella sua memoria ovvietà che l’incultura del presente ha dimenticato a tal punto da ritrasformarle in dibattito politico. Scopriremo, ricercando, quanto sia profonda e avvinta nel passato più remoto la nostra tragicomica attualità che in fondo sogna da ottant’anni almeno – per non dire da almeno due secoli – lo stesso sogno: l’unità al prezzo dell’omologazione. Ovvero, il benessere diffuso al prezzo di un crescente dispotismo. Senza poi che nessuno – o solo pochi – si interroghi sul significato di tale benessere od osservi che tale dispotismo ormai, nel territorio europeo, si declina con lo strumento monetario. Difficile da capire ancor più che da gestire, ma che comunque sta diventando un notevole surrogato della vecchia politica di potenza degli stati.

Ecco un pezzo della nostra radice: “Riunire un gruppo di paesi, alcuni dei quali saranno in una posizione debitoria e altri in una posizione creditoria, in un’Unione monetaria allargata al mondo intero è senz’altro possibile. Viceversa, è impossibile, a meno che non abbiano anche un sistema bancario ed economico comune (corsivo mio, ndr), riunirli in un’unione monetaria che sia contro il mondo intero”, perché “”i membri in credito dovrebbero fare un prestito forzoso e non liquido dei loro saldi attivi a favore di quelli in debito”. Il fatto che tali parole, scritte da Keynes nel 1941 suonino attuali, mostra meglio di ogni ragionamento quanto siamo incagliati e, soprattutto da dove siamo partiti e dove siamo arrivati.

L’Unione bancaria soddisfa, keynesianamente, il requisito fondante di un’Unione monetaria e, soprattutto, permette di evitare, sempre keynesianamente, la circostanza che i paesi ricchi finiscano col dover prestare ai poveri per tenere in piedi la costruzione monetaria.

Questo svela un requisito del presente che rimane sovente sottotraccia nelle analisi: l’Europa di oggi deve moltissimo a Keynes. Ma a guardare bene, si potrebbe dire di tutto l’Occidente.

Innanzitutto nel presupposto: nell’intervento statale, esplicito o furbescamente camuffato od obliterato dalla sua sostituzione con un organismo di banca centrale, quale antidoto necessario al laissez faire contro il quale Keynes scaglierà nel corso della sua lunga carriera i suoi dardi più appuntiti. A ragione, diranno in molti. A controprova di quanto il keynesianesimo, nelle sue varie declinazioni, sia consustanziale oggidì nella nostra costituzione di europei e occidentali.

Checché ne dica la vulgata, infatti, Keynes non fu, o almeno non solo, spesa statale in deficit, che poi divenne popolare solo perché fu lo strumento degli stati per incoraggiare la deriva capitalistica camuffata dalla società dei consumi. Nel suo fondo l’economista inglese diceva solo una cosa: non si può fidarsi della mano invisibile in economia. Ergo: bisogna intervenire. Con ciò legittimando una supremazia, quella della politica sull’economia, che ha dato forma e foraggio all’epopea occidentale del dopoguerra.

Pensiero comune, peraltro.

A Friburgo, ai tempi di Weimar, per dirne una, maturavano i talenti dell’ordoliberalismo tedesco, che poi frutteranno nella dottrina dell’economia sociale di mercato che ha reso celebre la Germania del dopoguerra, proprio mentre Keynes confezionava la sua Teoria generale. Segno che la reazione alla mano invisibile, tentativo maldestro di celare la potenza dello stato nazionale dietro una vernice di ottimismo economico, era nell’aria: matura, per così dire. E nessuno più di Keynes, probabilmente suo malgrado, è stato associato a tale movimento.

In tal senso non possiamo non dirci keynesiani.

Questa parole sulla necessità di un’Unione bancaria per dare corpo a un’Unione monetaria Keynes  le scrive nel 1941, dicevo, e più precisamente in un documento del 15 dicembre intitolato “Proposte per un’Unione monetaria internazionale”, uno dei tanti papelli che andarono ad alimentare la proposta inglese sui tavoli di Bretton Woods, che poi finì com’è noto. Il meccanismo di clearing fondato su una moneta unità di conto internazionale proposto da Keynes per trovare finalmente una soluzione alle costanti crisi delle bilance dei pagamenti fu accantonato perché la potenza egemone, l’America, una moneta l’aveva già e non aveva nessuna convenienza a metterla in comune, rinunciandoci.

Ma l’Europa non dimenticò la lezione. Una decina di anni dopo, la clearing house di Keynes delineò la fisionomia di uno degli esperimenti meglio riusciti della nascente Comunità europea: l’Unione europea dei pagamenti. Ancora una volta lezione keynesiana, ma a metà, giocoforza. Gli stati nazionali europei preferirono affidare al welfare – quindi alla redistribuzione politica del reddito – il ruolo di integratore sociale, esattamente come oggi mettendo all’indice il welfare rischiano il risultato opposto, ossia disintegrare la società usando il pretesto del suo costo ormai immane.

E qui entra in gioco l’entità sovranazionale, della quale Keynes era un grande estimatore, da bravo inglese che aveva bene assorbito la lezione imperiale e sperava ingenuamente di insegnarla anche agli americani.

Costoro però, assai più sensibili alla roba che alla seduzione del pensiero astratto, sapevano con l’istinto del predatore che l’impero – il loro – era già nelle cose. Non abbisognava certo dei calcoletti di uno studioso inglese, malgrado le rassicurazioni costanti di costui circa la convenienza reciproca, quindi angloamericana, a far funzionare la sua clearing house. “La banca (la clearing house, ndr) deve essere posta sotto una direzione angloamericana – scrisse -. Potremmo richiedere che la sede centrale sia situata a Londra e il consiglio direttivo si riunisca qui e a Washington”. S’intravede la preoccupazione dell’economista, anzitutto inglese,  di “dare continunità storica all’area della sterlina”, nonché preservare “la tradizionale libertà di Londra come piazza finanziaria”. Preoccupazioni affatto aliene agli Usa, che infatti non abboccarono.

L’entità sovranazionale era per definizione il miglior antitodo contro la prepotenza statale (non inglese). La Bri, ad esempio, pervicacemente difesa in sede di contrattazione a Bretton Woods, quando gli americani volevano chiuderla, e che poi diventerà il contabile dell’Unione europea dei pagamenti, dopo esserlo stata negli anni ’30, quando si trattava di commercializzare le riparazioni tedesche, e oggi la scrittrice delle regole bancarie che tanto fanno affannare le autorità.

Ma soprattutto il principio che più stava a cuore di Keynes era quello della compensazione multilaterale, che peraltro l’esperienza dell’UeP dimostrò funzionare egregiamente, a certe condizioni. La prima delle quali, ovviamente, era la cessione di sovranità.

Tale principio ha una radice ancora più profonda. Ed è lo stesso Keynes a mostrarcela sempre in uno scritto del 1941, dell’8 settembre stavolta, intitolato “Il problema degli squilibri finanziari globali”. Lettura consigliata, perché Keynes mostra in poche pagine come il problema delle bilance squilirate dei pagamenti abbia trovato nel ventennio occorso fra le due guerre, ogni soluzione immaginabile trovandosi ogni volta sbagliata. Fra questa vale la pena citare quella dell'”uso della deflazione, e peggio ancora di “deflazioni competitive per forzare un aggiustamento dei livelli dei salari e dei prezzi, al fine di spingere o di attrarre il commercio verso nuovi canali”, che oggi richiama alla memoria la recente strategia mercantilistica tedesca.

Tanto per dire che torniamo sempre alle origini.

Fu proprio la Germania di allora, infatti, a trovare il principio che illuminò Keynes. “Dopo i tentativi e gli errori precedenti – scrive – il dottor Schacht inciampò per disperazione in qualcosa di nuovo che aveva in sé i germi di un buon accorgimento tecnico (..) e permise a una Germania impoverita di accumulare le riserve senza le quali non avrebbe potuto imbarcarsi nella guerra. Il fatto che tale metodo sia stato usato al servizio del male non deve impedirci di vedere il vantaggio tecnico che offrirebbe al servizio di una buona causa”. Il meraviglioso pragmatismo inglese.

Il dottor Schacht era quel Hjalmar Schacht, bancario tedesco di cultura americana che stabilizzò il marco dopo la tremenda iperinflazione di Weimar e finì a presiedere la Reichsbank, la banca centrale tedesca di Weimar, dove rimase fino al 1930, tornandovi tre anni dopo, quando Hitler divenne cancelliere. Nel 1934 fu nominato ministro dell’economia e da quella posizione organizzò il suo personalissimo New deal alla tedesca, peraltro nei suoi risultati assai più efficace di quello americano, realizzando un keynesianesimo ante litteram: quindi spesa pubblica per creare posti di lavoro, obbligazioni statali destinate a circolare all’interno della Germania (Mefo) e, soprattutto, il meccanismo della compensazione dei crediti con i debiti, tramite il quale la Germania finì con l’annullare il suo debito estero. Il principio era molto semplice: le importazioni da un paese venivano pagate con merci tedesche, non con denaro.

A queste compensazioni bilaterali, la Germania sostituì una compensazione multilaterale che agiva pienamente già nel ’41, quando Keynes scriveva il suo documento. Schacht aveva già abbandonato la vita ministeriale e al suo posto era arrivato in più conosciuto Walther Funk. Fu proprio in quel periodo che riprese vigore il dibattito sulla Großraumwirtschaft, l’economia del grande spazio di cui i teorici tedeschi discutevano già dagli anni ’30 (Ai più curiosi suggerisco la lettura del saggio di Paolo Fonzi “La «Großraumwirtschaft» e l’Unione Europea dei Pagamenti: continuità nella cultura economica tedesca a cavallo del 1945”, in Ricerche di storia politica, nr 2, 2012, pp. 131-154, il Mulino).

I successi militari della Germania hitleriana, infatti, avevano riesumato una discussione che sembrava confinata nell’alveo accademico. C’erano ampi territori da sfruttare e strumenti tecnici da realizzare per favorire il commercio fra il Reich e i territori occupati. L’idea perciò di creare e organizzare forme di integrazioni sovranazionali di livello regionale parve agli economisti tedeschi il miglior modo per garantirsi le forniture e le risorse economiche necessarie a proseguire la guerra. La Großraumwirtschaft, peraltro, riprendeva suggestioni del secolo precedente, quando dopo la vittora di Sedan (1870) la Germania si fece sedurre dall’idea di un’area economica integrata a forte egemonia tedesca.

Il 1940, anno in cui la vittoria finale nazista sembrava ormai imminente, Goring conferì a Funk l’incarico di progettare questo “spazio economico” europeo a guida tedesca. Si formò un gruppo di lavoro al quale ovviamente presero parte anche i banchieri della Reichsbank, l’antenata della Bundesbank, al quale si diede l’incarico di promuovere l’unificazione europea con l’obiettivo finale di arrivare a un’unificazione monetaria e doganale. Vale la pena ricordare che già nei primi anni ’30 era fallito a Ginevra il tentativo di realizzare un’Unione doganale europea, col risultato, assai avversato dai francesi, che se ne creò una fra l’Austria e la Germania.

I punti salienti del piano tedesco del ’40 prevedevano la formazione di un sistema di clearing centralizzato, il progressivo alleggerimento dei controlli valutari, formazione di un sistema di cambi fissi in Europa. Tutte questioni che diverranno di stringenti attualità nell’immediato dopoguerra, come abbiamo visto. Ma lo sono anche oggi.

Il punto saliente, che ci ricollega al presente, è che il progetto prevedeva che l’area integrata fosse a due velocità. Nel primo cerchio stavano i paesi “affini”, quindi la grande Germania, la Boemia e la Moravia oltre al governatorato generale (parte della Polonia, la Danimarca, la Norvegia, l’Olanda, il Belgio il Lussemburgo e forse la Slovacchia). Quindi un cerchio esterno, all’inizio escluso da meccanismo di clearing e dall’Unione monetaria, dove dovevano stare i paesi del sud est europeo.

Oggi diremmo, i paesi dell’euro A e quelli dell’euro B.

Anzi, lo dicono in tanti, immaginandola come l’unica soluzione ai guai della moneta unica. E tanti hanno ricominciato a parlare del clearing keynesiano quale strumento tecnico utile a pareggiare gli squilibri Target 2.

Potremmo fermarci qui, ma vale la pena fare un altro paio di esempi per mostrare come a tali radici corrispondano comportamenti attualissimi. Prediamo l’Ltro, il piano di rifinanziamento delle banche deciso dalla Bce che ha prestato mille miliardi alle banche all’1% per tre anni.

Nel 2011, quando fu deciso, si disse che era un’idea dell’ex governatore Trichet. Ma gli storici ci dicono che tale modalità di intervento, collegato però alla fissazione di investimenti produttivi da parte delle imprese, era stato delineato da Keynes già nel 1930 proprio per abbassare i tassi di lungo termine. E in effetti quella era l’idea della Bce. Ma poi è finita che le banche hanno iniziato a fare carry trade con i soldi della Bce, e alle imprese sono arrivati solo gli spiccioli.

Abbiamo già visto il debole che Keynes, negli anni ’30, nutriva per le pratiche mercantilistiche, oggi quanto mai attuali. Ma che dire della Tobin Tax? “L’introduzione di una sostanziosa imposta governativa su tutte le transazioni finanziarie potrebbe rivelarsi la riforma più praticabile di cui disponiamo per mitigare il predominio della speculazione sull’impresa”, scriveva Keynes nel capitolo 12 della sua Teoria generale.

Tasse sulla finanza e sulla rendita, deciso interventismo statale (diretto o tramite le banche centrali), clearing dei saldi delle bilance del pagamenti, unioni sovranazionali economico-monetarie, e quindi bancarie: l’Europa keynesiana.

Ma in salsa tedesca.

I governatori dell’eurozona battono un colpo


Dunque Mario Draghi ha confermato, nel corso di un dibattito al Parlamento europeo, che “i bond sovrani verranno sottoposti a stress come altri titoli”.

Non era difficile immaginare che sarebbe finita così, ma averne la conferma serve anche a comprendere che la partita che si sta giocando su questa class di asset è la più strategica, per non dire sistemica, dell’intera eurozona.

Non che avessi dubbi. Ne avevo talmente pochi che mi sono portato avanti col lavoro e, qualche post fa, mi sono inerpicato con grande fatica nella ragnatela della regolamentazione bancaria di Basilea II e III, che anche ieri Draghi ha citato come fonte di ispirazione normativa, spiegando che non tocca certo alla Bce decidere come trattare i bond sovrani, ma proprio ai banchieri di Basilea (che per la cronaca è espressione delle Banche centrali). Alludendo con ciò al fatto, già messo in evidenza dal suo collega della Bundesbank Weidmann, che i regolatori di Basilea fossero stati troppo generosi nel giudicare risk free (e quindi non bisognosi di accantonamento nel capitale di vigilanza delle banche) i titoli di stato.

Abbiamo visto che non è così. Le regole di Basilea, di recente ribadite anche dalla Bri, dicono esattamente il contrario: ossia che tutte le classi di titoli, quindi anche quelli sovrani, sono soggetti a una classificazione del rischio. E fissa anche un criterio di ponderazione, legato al rating, in virtù del quale le banche possono sapere esattamente quanto capitale devono mettere da parte ogni tot di titoli di stato.

Quello che i nostri governatori (Weidmann, Draghi) omettono di dire (difficile credere che sia sfuggito a tutti), è che le regole di Basilea III sono state tradotte nella direttiva europea CRD IV (36/2013) sui requisiti della patrimonializzazione bancaria e in un regolamento (575/2013) che entreranno in vigore dal prossimo gennaio. Il regolamento, in particolare, (articolo 114) fissa un rischio zero per i titoli di stato denominati in valuta nazionale da parte di tutti i paesi europei. Quindi non è tanto Basilea ad aver creato il “problema”, ma semmai il mondo politico europeo.

Questo ovviamente i nostri eurogovernatori non lo dicono.

La conseguenza di questa regolamentazione, quindi, è che i titoli italiani, denominati in euro, hanno la stessa classificazione di rischio di quelli tedeschi. Non per scelta dei banchieri, ma dei politici.

Vale la pena fare un ulteriore approfondimento andandosi a leggere il parere proprio su questo regolamento che la Bce depositò presso parlamento e consiglio europeo, citato nel preambolo. Un passaggio in particolare, laddove si sottolinea che “la Bce sostiene fermamente l’obiettivo di affrontare esposizioni al rischio specifiche relative, tra l’altro, a determinati settori, regioni o stati membri per mezzo di atti delegati che affidino alla Commissione la facoltà di imporre requisiti prudenziali più stringenti”.

Quindi non è che i banchieri non ci abbiano provato a dire come la pensavo. Solo che non hanno avuto successo.

Senonché i nostri governatori centrali intendono spezzare una volta per tutte il legame fra stati sovrani e banche residenti. Che poi è uno dei punti qualificanti dell’Unione Bancaria, sempre che si riesca ad approvarla entro aprile come Draghi ha esortato anche ieri l’europarlamento a fare.

E siccome questa certezza non c’è, ecco che intanto scatta il piano B: ossia usare la supervisione bancaria, che di sicuro è l’unico momento sovranazionale già operativo sul quale nessuno può mettere bocca, come grimaldello per scardinare il più possibile questo nesso stati-banche, in nome della prudente regolazione finanziaria e per evitare che la disciplina di mercato faccia più danni. Quindi per il nostro bene.

Il “fantasma” del governo degli eurobanchieri batte un colpo.

La conseguenza di tale prezzatura dei bond sovrani è evidente: detenere titoli dei Piigs sarà costoso per le banche dell’eurozona, mentre i titoli a rating elevato saranno a rischio zero, quindi gratis, proprio per le regole di Basilea hanno fissato. Una scelta che potrebbe amplificare la frammentazione dell’eurozona, anziché ridurla.

Sinceramente ammirato da tanta finezza, ho visto emergere la questione dei bond sovrani nel dibattito esoterico dei banchieri centrali fino a diventare di dominio pubblico, quindi essoterico, in queste ultime ore. Nella mattina in cui si è tenuto il dibattito di Draghi, il Financial Times riportava una pregevole intervista al responsabile della divisione economica della Bce Peter Praet, che spiegava come fosse necessario prevedere una qualche forma di meccanismo capace di arrivare a una “prezzatura” del rischio dei bond sovrani. Magari un fondo dove le banche siano “invitate” a depositare capitale di vigilanza.

Non è tanto lo strumento tecnico che interessa, ma il principio. E il pretesto economico anche.

Il pretesto economico è questo: i nostri governatori, che temono un’ondata deflazionaria nell’eurozona anche se dicono il contrario (ultimo sempre Draghi ieri), hanno il problema di fare arrivare credito alle imprese evitando che finisca come in passato, ossia che le banche facciano carry trade con i soldi della Bce. Per riuscirci devono “costringere” le banche a dare credito all’economia, scoraggiando quindi l’accumulo di bond sovrani. Così potranno anche spezzare il famoso legame fra stati e banche residenti, la qualcosa obbligherà gli stati a dare corso a tutti i necessari consolidamenti fiscali, visto che non potranno più contare sui soldi delle “loro” banche per finanziare i propri deficit.

Il principio è questo: usare il bastone della presunta market discipline (ovvero la minaccia che i mercati punirebbero scelte non coerenti con la loro fame di certezze) e la carota della regolazione (le famose norme di Basilea) per bypassare una precisa norma votata dalle autorità europee. Ossia che tutti i titoli dell’eurozona siano risk free.

Se la logica economica che guida questo ragionamento può essere comprensibile, rimane un dubbio metodologico sul principio.

E anche una domanda: chi governa l’eurozona: i politici o i governatori?

L’Internazionale dei banchieri centrali verso il sol dell’avvenire


Il riequilibrio (rebalancing) se mai ci sarà, dicono in molti, arriverà grazie all’Internazionale. Non mi riferisco alla prima Internazionale e neanche alla seconda. Tantomeno all’Internazionale comunista bolscevica o a quella socialista del secondo dopoguerra. Tutte costoro vagheggiavano, in forma più o meno rivoluzionaria, il trionfo del lavoro sul capitale, che comunque di per sé è una forma di riequilibrio.

La nuova Internazionale, ossia quella dei banchieri centrali, si propone un obiettivo assai più ambizioso: il trionfo del capitale sugli stati. In questo senso è assai più rivoluzionaria.

Ma a parte l’idea di arrivare al riequilibrio tramite una rivoluzione, le due Internazionali non potrebbero essere più diverse. La rivoluzione dell’Internazionale dei banchieri non è chiassosa come quella di marxiana memoria. Non urla: sussura. Non obbliga: suggerisce. Non minaccia con la crisi: difende dalle crisi. Soprattutto è tanto invisibile e opaca , e quindi rassicurante per i bravi cittadini, quanto quelle altre erano chiassose e manifeste, e quindi preoccupanti per i bravi cittadini.

Per scoprirla dobbiamo fare un salto indietro nella storia di quasi cent’anni e arrivare al 1929, quando i paesi vincitori della Grande Guerra si accordarono per dare attuazione al piano Young, che avrebbe sostituito il piano Daves, ossia il primo accordo per ottenere le famigerate riparazioni di guerra dalla sconfitta Germania. Il piano Young prevedeva una nuova formula per arrivare a riscuotere qualcosa dall’esausta Germania e in tale contesto, un anno dopo, nel 1930, venne fondata a Ginevra una società anonima per azioni, i cui azionisti potevano essere solo banche centrali o istituzioni finanziarie da esse deputate, che divenne mandataria delle potenze alleate per la riscossione dei pagamenti tedeschi e prese il nome dei Banca dei Regolamenti Internazionali.

Malgrado avesse sede in Svizzera, la banca non risultava soggetta alla giurisdizione elvetica, ma anzi le venne riconosciuto uno status internazionale che prevede tuttora diversi privilegi: è un’entità assolutamente autarchica che gode di ampie immunità estese anche al campo penale, salvo rinuncia dei diretti interessati.

L’alberello piantato a Ginevra crebbe silenziosamente senza dare nell’occhio. Attraversò quasi indenne il secondo conflitto mondiale grazie ai buoni uffici degli inglesi guidati da J.M.Keynes, che a Bretton Woods si opposero fermamente alla chiusura della Banca e riuscirono a convincere gli americani a ritirare la decisione, che pure era stata presa, di liquidarla.

Nel dopoguerra la Bri si mette al servizio della sua causa Internazionalista, come sempre in maniera silenziosa. Lavora sugli statuti, per rendere possibile l’adesione del maggior numero possibile di banche centrali europee, comprese quelle del blocco sovietico e si dedica a un volenteroso sostegno del sistema ideato a Bretton Woods, collaborando con il G10 per evitare le crisi valutarie che covavano sotto traccia già negli anni ’60.

Ma l’incarico più importante che le fu affidato, in quel periodo, fu quello di tenutaria dei conti dei paesi aderenti all’Unione europea dei pagamenti, un sistema multilaterale di compensazione messo in piedi in Europa per far ripartire i commerci fra gli stati devastati dalla guerra. Il principio fondante di tale clearing house era squisitamente keynesiano e ciò spiega perché ai tempi delle discussioni di Bretton Woods la delegazione inglese si fosse spesa così tanti per tenere in vita la Bri.

Con la fine di Bretton Woods, segnato dall’abolizione della convertibilità del dollaro del 15 agosto 1971, la Bri cambiò pelle di nuovo e trovò la sua più autentica vocazione: la vigilanza bancaria e assicurativa. Forte di una ultraquaratennale esperienza, ci mise poco a diventare un’autorità in materia.

Ma la svolta avvenne nel 1974. Come sempre la finanza combinò uno dei suoi guai: fallirono alcune banche sistemiche in Germania (la Bankhaus Herstatt di Colonia, chiusa d’autorità dalla Bundesbank il 26 giugno), Gran Bretagna (la British-Israel Bank di Londra) e Stati Uniti (la Franklin National Bank di New York). Il panico che si scatenò di conseguenza fu il brodo di coltura ideale dove far germinare un’altra entità nel seno della Bri: lo Standing Committee on Banking regulation and Supervisory Practices, meglio conosciuto come Comitato di Basilea. L’iniziativa venne presa dalle banche centrali dei paesi del G10 su proposta della Banca d’Inghilterra.

Nasce così lo strumento di governo dell’Internazionale. Il suo verbo si innerva su una parola magica: regolazione finanziaria. Un termine tecnico che pochi capiscono, a cominciare dai politici, e ancor meno temono. Roba da banchieri e avvocati, che vuoi che sia.

Il Comitato, nei dieci anni successivi, si dà un gran daffare per individuare il supervisore nazionale delle pratiche bancarie e assicurative e separare le sue responsabilità da quelle del paese ospitante. In pratica, crea una rete  internazionale di interlocutori.

Sul finire degli anni ’80 arriva l’ennesima crisi, quella del debito dei paesi sudamericani. I paesi del G10 ancora una volta entrano nel panico e chiedono al Comitato di elaborare un sistema di misurazione del rischio di credito e di requisiti minimi di capitale per le banche da applicare a livello internazionale. Si arriva così, nel 1988, all’Accordo sul Capitale di Basilea, il papà di quello che oggi è conosciuto come Basilea II.

Possibile che la politica non abbia compreso che, in un mondo sempre più globalizzato e finanziarizzato, la regolazione diventa l’unico potere che conti davvero?

Evidentemente sì. O forse già da allora il governo ombra dei  tecnici, tutte persone comme il faut, parve loro la soluzione migliore per governare l’esplosione sotterranea dei costosi sistemi sociali messi in piedi nel dopoguerra che con sempre maggior chiarezza mostravano di essere insostenibili.

Sul finire degli anni ’90, quando scoppiò la crisi asiatica, si guardò naturalmente al Comitato di Basilea come unica autorità dotata di know how  e credibilità sufficienti per affrontare in maniera sistemica il tema della stabilità finanziaria.

Fu l’ennesima crisi, insomma, a far sì che l’approccio del Comitato, basato sulla cosiddetta soft law (quindi atti che non hanno forza di leggi, ma appaiono come raccomandazioni e suggerimenti) diventasse una vera e propria policy di governo.

Le conclusioni del Comitato, infatti, divennero la base, nel 1999, per l’azione dei paesi del G7 contro la crisi. Sempre i paesi del G7, al contempo, estesero tale approccio creando una nuova entità: il Financial Stability Forum, (FsF) una sorta di super Comitato di Basilea che diventa il pilastro centrale dell’Internazionale dei banchieri. La sua strategia si articola lungo tre direttive: fissare gli obiettivi, stabilire la governance e promuovere incentivi.

Proprio sul binomio governance/incentivi scatta la genialata. Affinché un sistema di soft law sia efficace, occorre che i paesi destinatari dei “suggerimenti” abbiano incentivi capaci di convicerli a trasformarli in leggi nazionali.

L’Internazionale dei banchieri comanda tramite la politica, non con o contro la politica.

Gli incentivi sono di due tipi: quelli indiretti, ossia derivanti dalla reazione del mercato al mancato recepimento di un “consiglio” degli esperti, e quello diretto, ossia la reazione dei partecipanti alla comunità internazionale se un paese non accetta le regole del gioco, comprese quelle non scritte. Il primo è un incentivo assai potente, specie in un mondo indebitato come il nostro. Sapere che le banche di un paese non applicano le regole di Basilea sui requisiti minimi di capitale perché il paese in questione non ha recepito gli indirizzi del Comitato, ad esempio, non può non avere un effetto diretto sul costo dei prestiti per queste banche e, indirettamente, sullo stato di salute del paese. Gli incentivi diretti sono più visibili e altrettanto eclatanti: l’esempio più eloquente è la decisione del FsF di classificare i centri offshore nel mondo.

Tutto questo, ovviamente, viene fatto nell’interesse della stabilità finanziaria. Quindi (come al solito) per il nostro bene. Peccato che serva il potere maieutico di una crisi per farcelo comprendere e apprezzare.

Volete un altro esempio?

Pochi giorni fa la Bri ha rilasciato il suo ultimo rapporto al G20 sull’implementazione a livello globale delle regole di Basilea III, il seguito di Basilea II. Vale la pena leggerlo perché dà la misura di quanto sia ormai diffusa l’Internazionale della regolazione e consente di intravedere in controluce il conflitto strisciante, esploso, specie in conseguenza della crisi, fra quest’ultima e gli stati nazionali.

E’ proprio l’ultima crisi scoppiata dal 2008 in poi a far da levatrice a Basilea III. Il pacchetto di “suggerimenti” chiamato Basilea II, suo antecedente, fu definito nel 2004 e si basava su tre pilastri: la fissazione dei requisiti di capitale minimo per le banche, le regole per la supervisione e il set di regole per la disciplina di mercato. La release 2.5 di Basilea II arrivò nel luglio del 2009, nel bel mezzo della tempesta iniziata nel 2008, e si occupò di fissare le regole per la cartolarizzazione e l’esposizione del portafoglio di negoziazione.

Ma evidentemente non era sufficiente. Travolte dalla crisi, le banche (e quindi gli stati) sollecitarono il Comitato a elaborare un nuovo set di regole capaci di dare maggiore stabilità al sistema.

Arriviamo così al 2010. Il Comitato rilascia il set di Basilea III, che aumenta ancor di più il livello di capitale prudenziale richiesto alle banche e fissa nuove regole per la la gestione della liquidità globale.

Ovviamente, trattandosi di soft law, è necessario che tali regole siano recepite dagli Stati espressione dei partecipanti al Comitato, tanto per cominciare. Ma non è certo un problema. A novembre del 2011 i leader del G20 impegnano i rispettivi paesi a recepire Basilea 2.5 entro il 2011 e Basilea III entro il 2019. Tali propositi vengono riaffermati nel vertice del G20 di giugno 2012 di Los Cabos e, ancora una volta, nel vertice di Mosca del febbraio 2013 fra i ministri finanziari e i governatori centrali del G20.

Questo tanto per dare un’idea di quanto pesi la cosiddetta soft law.

Ad agosto 2013 risultava chele regole di Basilea II erano state implementate da 24 dei 27 paesi rappresentati nel Comitato di Basilea. Mancano solo Stati Uniti (guarda caso), Russia e Argentina. Le regole di Basilea 2.5 sono state implementate da 22 paesi su 27. Devono terminare il lavoro gli Stati Uniti (ancora una volta), Argentina, Indonesia, Messico e Russia. Mentre le regole di Basilea III sono pressoché operative in 11 paesi su 27.

E’ interessante notare che la Cina risulta aver implementato pienamente Basilea II e Basilea 2.5 e il primo pezzo di Basilea III. Si trova persino più avanti degli Usa, della Germania e della Francia, in questo processo. Si trova al livello del Giappone, del Canada e della Svizzera.

Ma è tanto pervasivo il potere di convincimento dell’Internazionale dei banchieri, che le sue regole vengono recepite anche dai paesi che non appartengono al club di Basilea.

Il rapporto della Bis riporta una rilevazione statistica, condotta stavolta dal FsF, su 100 giurisdizioni (ossia paesi) che non appartengono al Comitato di Basilea. I 74 che hanno risposto hanno fatto concludere che fra il 2012 e il 2013 “c’è stato un significativo progresso negli sforzi di adottare gli standard di capitale fissati da Basilea”. Ben 54 giurisdizioni hanno già adottato o stanno per adottare Basilea II, 16 Basilea 2.5 e 26 Basilea III.

L’Internazionale dei banchieri, insomma, viaggia con passo sostenuto verso il sol dell’avvenire.

Sembra proprio che il segno del nostro tempo sia, nel nostro interesse, affidarsi a una pattuglia di tecnici sconosciuti nei confronti dei quali nessuno, tantomeno i politici, ha la capacità critica e le conoscenze necessarie per confutarli o metterli in discussione. Ma forse questo è il prezzo che dobbiamo pagare per continuare a vivere come viviamo: costantemente al di sopra delle nostre possibilità.

A noi tutti è richiesto un atto di fede nei confronti di costoro, malgrado ciò implichi una silenziosa erosione del principio democratico. E’ il trionfo del sentimento religioso sul principio di razionalità.

Ma perché stupirsi? In fondo tutte le Internazionali, nella storia, hanno sempre avuto a che fare in qualche modo con la religione.

O forse era il contrario?

Il Capitale? Ormai è in riserva


Per immaginarsi il mondo che sarà (o che potrà essere) abbiamo messo insieme le informazioni contenute in due pubblicazioni, una della Banca dei regolamenti internazionali, l’altra del Fondo Monetario. La prima, intitolata “The great leveraging”, racconta della sbornia di debito che ha coinvolto il mondo negli ultimi 30-40 anni, facendo il parallelo con quanto accaduto dal 1800 in poi. La seconda si intitola “International Reserves: IMF Concerns and Country Perspectives” e racconta dell’evoluzione delle riserve degli stati del mondo. Siccome tutto si tiene, la lettura incrociata di questi illuminanti papers svela alcune cose:

1) L’espansione del credito/debito, misurata con la quantità di asset detenuti dalle banche in rapporto al Pil, si è impennata a partire dagli anni ’80 (quando ha raggiunto, per poi superarlo, il livello della crisi pre 1929), e non si è mai fermata. Il rapporto Bank Asset/Pil, che si collocava intorno a 0,2 nel 1870, nel 2012 vi avviava a superare quota 2. In pratica si è moltiplicata per dieci;

2) anche la quantità di riserve globali si è moltiplicata per 10 fra il 1990 e il 2011. Da circa 1.000 miliardi di dollari, ormai si è superata quota 10.000. Il grosso di queste riserve si trova nei cosiddetto paesi emergenti, quindi grossomodo Cina e paesi esportatori di petrolio;

3) L’accumularsi di riserve trova la sua ragione nella prudenza di questi paesi, che a fronte delle grandi crisi economico-finanziarie che hanno sconvolto il mondo negli ultimi 30-40 anni (a fronte di nessuna crisi rilevata dal dopoguerra al 1970), hanno preferito mettere fieno in cascina per tutelarsi. Molti temono che questa enorme quantità di denaro, riflesso evidente della moltiplicazione del credito/debito, sia una fonte di squilibrio. Ma comunque il volume delle riserve accumulate rimane relativamente piccolo a fronte dello stock globale di asset finanziari in giro per il mondo. Per dare un’idea, a fronte dei quasi 10 trilioni di dollari di riserve, ci sono circa 70-80 trilioni di asset detenuti dalle banche commerciali che arrivano a quota 250 trilioni se si aggiungono i mercati dei bond e delle azioni;

4) Una quota significativa di queste riserve è stata utilizzata dagli stati per rimpinguare i loro fondi sovrani. A febbraio 2008 (ultimi dati disponibili contenuti nello studio del Fmi) c’erano 31 fondi sovrani detenuti da 29 paesi con asset stimati in circa 3 trilioni di dollari. Il Fondo monetario stima che tali fondi avranno un ruolo sempre più crescente sulle finanze pubbliche dei paesi alle prese con squilibri finanziari.

Possiamo trarre alcune conclusioni. La crescita senza precedenti degli asset finanziari nel mondo ha finito con aumentare l’incidenza delle crisi sui cicli economici. L’espansione del credito/debito iniziata con gli anni ’80 ha finito col spostare l’asse della ricchezza finanziaria dalle economie (ex) leader a quelle emergenti. I paesi “emersi” hanno mantenuto il proprio benessere semplicemente indebitandosi con i paesi “emergenti” che hanno visto i propri crediti espandersi allo stesso ritmo dei debiti altrui e hanno imparato a creare riserve per cautelarsi dalle crisi prossime venture, in attesa di capire come questa ipoteca economica diventerà, in un domani più o meno lontano, politica.

Il Capitale, insomma, ha creato altro Capitale ed è finito in riserva.

Che fine farà il capitalismo?