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Gli altri greci dell’eurozona: Torero camomillo trasloca in Spagna

La Spagna, dunque, con la sua economia da torero che nella prima metà dei Duemila strappava gli olé da mezzo mondo. Chiunque ricorderà un qualche amico o conoscente che a quel tempo studiava spagnolo e cercava casa a Barcellona, ansioso di darsi alla produttiva movida spagnola.

Senonché, com’è noto, il torero finì incornato dal cattivissimo toro reso furioso dal maltempo finanziario e anche indispettito, forse, dalla noncuranza con cui il torero, vagamente sbruffone, ignorava gli allarmi, che pure c’erano, sulla sua costituzione fragilina.

Sia come sia, i medici, corsi al capezzale del malato, notarono atterriti, ben nascoste sotto la muleta, le cicatrici profonde di una crescita nutrita a mattone e debito, e prescrissero una cura da cavallo, alla quale il nostro torero si premurò di obbedire, ben lieto di onorare il suo antico curriculum di hidalgo.

Della storiella edificante del torero spagnolo, che così per sommicapi vi ho narrato, esiste anche una versione 2.0 secondo la quale il torero, dopo le amorevoli cure dell’ospedale Troika, sta pensando seriamente di tornare a calcare l’arena, la quale per l’occasione, si scalda elargendo al pubblico una sorta di coming soon. L’economia spagnola torna a crescere, dicono i banditori. E cosa importa di tutto il resto?

La Spagna peraltro ha chiuso il suo programma di aiuti, attingendo solo in parte ai 100 miliardi che le istituzioni estere le avevano concesso, col che denotandosi, per lo meno a livello di percezione, che la situazione spagnola non doveva poi essere così grave. Non a caso di recente son tornate a fischiarmi nelle orecchie voci di amici e conoscenti che parlano della Spagna come la patria di un nuovo miracolo economico.

Senonché, educato allo scetticismo da San Tommaso, sono andato a rivedermi cosa scrive la Commissione Ue sul redivido torero spagnolo, al quale ovviamente vanno i miei più calorosi auguri di una lunga e serena vita, e mano a mano che mi ubriacavo di grafici e tabelle succedeva che nelle orecchie, invece degli olé di amici e conoscenti, iniziava a farsi sentire un motivetto familiare a chi ha figli piccoli o sia un patito dello zecchino d’oro: il torero camomillo. In effetti l’arena è già affollata, come dice la canzone, però non c’è il torero, o almeno quello dei primi anni duemila. Al suo posto è arrivato il matador tranquillo che dorme appena può, e che sul toro preferisce dormirci sopra piuttosto che stordirlo con le sue piroette. Converrete che il ritornello si adatta perfettamente alla Spagna in versione 2015.

Evito di ripetere cose ormai ampiamente note (o forse no). Mi basta ricordare che la Spagna deve vedersela ancora con un tasso di disoccupazione superiore al 23%, che ha debiti, privati e pubblici, per oltre il 350% del Pil, la maggior parte dei quali sono privati, e soprattutto ha una posizione estera netta negativa per quasi il 100% del Pil che, scrive la Commissione, richiederebbe notevoli e prolungati surplus di conto corrente. ” La Spagna – scrive l’Ue nell’ultimo Country report – avrebbe ancora bisogno di raggiungere un avanzo corrente record del 1,7% del PIL in media nel periodo 2014-24, al fine di dimezzare la sua NIIP-to-PIL entro il 2024″. Dimezzare, non eliminare. Quindi arrivare a un deficit del 50%. E ricordo che la soglia Ue per lo squilibrio macroeconomico esterno è un deficit del 35% del Pil.

Per darvi un’idea di cosa vuol dire, avere un avanzo corrente dell’1,7 medio, osservo solo che nel 2014 il saldo corrente è tornato negativo per lo 0,1% e si prevede torni in attivo, al +0,6%, nel 2015. All’apice della correzione, avvenuta nel 2013, il saldo corrente, come si può osservare dal grafico, non è riuscito a superare la soglia del 2%.

Ancora peggio mi sento, quando vedo che nemmeno ai tempi buoni il torero spagnolo riusciva a chiudere in equilibrio i suoi conti esteri. Al contrario: all’apice del boom e degli olé, il conto corrente sprofondava, fra il 2005 e il 2006, a un deficit dell’8% del Pil.

Come abbiano fatto gli spagnoli a recuperare lo si capisce osservando le componenti del conto corrente, dove si nota il crollo del deficit della bilancia dei beni, che da sola aveva raggiunto l’8% del Pil, e che nel 2012 aveva ridotto il buco a meno del 2% del Pil.

E qui casca l’asino. Se infatti andiamo a vedere come la Spagna abbia ottenuto la sua crescita dell’1,4% nel 2014, che si prevede arrivi al 2,3% nel 2015, notiamo che il driver è stata la domanda interna, contribuendo negativamente l’export. Ciò significa che gli spagnoli devono consumare e investire a casa loro per poter crescere, sia a livello privato che pubblico, ma appena cominciano a farlo il saldo corrente va a farsi benedire.

E viceversa. Nel momento della correzione, infatti, la curva del Pil scendeva sottozero perché la componente positiva dell’export netto non riusciva a compensare quella negativa del crollo della domanda interna. Pensare che uno grande paese come la Spagna possa pagare i suoi debiti con le esportazioni, in effetti, sembra alquanto avventuroso. Tanto più se osserviamo che nel frattempo la quota di mercato estero dei prodotti spagnoli si è pure ridotta di oltre il 20%.

Insomma: il torero deve consumare di suo, sennò deperisce e muore. Pure adesso che è un matador tranquillo.

Come si possa immaginare che la domanda interna si sviluppi, in un contesto di debiti, privati e pubblici, di questo livello, e con un sistema bancario ancora assai problematico, malgrado i salvataggi, dove i crediti deteriorati sono in media al 13% e quelli del settore costruzioni quasi il triplo, e le banche sono ancora assai restie a prestare, è davvero esercizio che farebbe perdere il sonno a chiunque.

Capite bene perché torero camomillo dorme appena può.

(4/segue)

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Il paradigma spagnolo e la Grande Redistribuzione

In un tempo in cui gli stati sono diventati laboratori dove sperimentare le astruserie dell’economia applicata, vale la pena soffermarsi sul caso spagnolo, che ormai somiglia sempre più al paradigma di una nuova teoria che individua nella Grande Redistribuzione la soluzione finale per evitare le secca della Grande Stagnazione che minaccia la società globale.

Nessuno stato meglio della Spagna, per le sue dimensioni e la sua storia recente, poteva giovare alla bisogna.

E’ facile capire perché. La Spagna, già dai tempi buoni, è stata sempre additata come l’esempio da seguire per uno sviluppo rigoglioso e sostenibile. Quelli che si deliziano di cronache socio-economiche ricorderanno i primi anni duemila, quando la Spagna sui giornali veniva dipinta come una sorta di paradiso terrestre, dove lo sviluppo galoppava, la disoccupazione scendeva, i consumi erano alle stelle e tutti i giovani europei studiavano spagnolo (come ora studiano tedesco) sognando di trasferirsi a Barcellona per godersi la movida.

La meravigliosa narrazione del maistream celava una realtà dove il debito privato di famiglie e imprese – e vi faccio grazia di quello delle banche – saliva alle stelle, logico contraltare di un debito pubblico fra i più bassi dell’area e dove le imprese di costruzioni, artefici principali di tale boom, cementificavano le coste dove oggi campeggiano i cartelli di invenduto.

Sicché il conto corrente della Spagna si inabissava. Ma erano tempi in cui la bilancia dei pagamenti era poco nota alle cronache economiche (anche adesso, ma meno di prima). E inoltre era molto trendy parlare bene della Spagna, innalzata a epitome della riscossa dei paesi latini, storicamente poveri e inefficienti, sull’onda trionfante della globalizzazione.

Lo stesso gioco si sta tentando di farlo adesso. La Spagna si tende a raccontarla come un altro caso di successo: stavolta di uscita dalla crisi.

Nei mesi scorsi sulla stampa avrete letto del caso spagnolo. Del suo miracoloso risanamento che, pure se a costo di grandi sacrifici, traccia il solco di un risanamento globale. Gli stati perciò iniziano a guardare verso il paese dei toreri, cercando di capire come e a che prezzo siano riusciti a uscire fuori dal baratro che lo stava inghiottendo.

Ma è davvero così? E soprattutto chi ha pagato il prezzo?

Per rispondere a questa domanda mi servo dell’ultimo staff report del Fondo Monetario sulla Spagna uscito pochi giorni fa. E mi accorgo, sin dall’epigrafe, che ci sono sempre due modi per raccontare una storia: quello di chi guarda il bicchiere mezzo pieno e quello di chi lo guarda mezzo vuoto. Scegliere a quale dare priorità, nell’esposizione, è una precisa scelta politica, atteso che l’attenzione di solito supera raramente la prima pagina.

Se volessimo raccontarla dal lato dell’ottimista, allora potremmo dire che la Spagna dopo nove trimestri di crescita negativa la crescita è tornata positiva nella seconda metà del 2013. L’export sta performando bene, nota il Fmi, “conquistando quote di mercato”, mentre il conto corrente “è in surplus per la prima volta dal 1986”. “Il turismo è in boom e gli indicatori di competitività sono in crescita”.

Che bravi ‘sti spagnoli.

Lato finanziario, gli spread sono bassi a livello record, alimentati “dalla ritrovata fiducia negli asset spagnoli”, la domanda domestica sta crescendo notevolmente, anche quella privata, grazie alle migliori prospettive del mercato del lavoro. Dulcis in fundo, il consolidamente fiscale continua. Il saldo primario strutturale di bilancio è migliorato dell’1,5% del Pil nel 2013, nonostante il calo del pil, e il saldo fiscale generale è vicino al target.

Ce n’è abbastanza per alimentare una decina di talk show.

Anche perché tutto questo è stato reso possibile da “forti riforme”, che sono state insieme fiscali, finanziarie e del mercato dei prodotti e del lavoro.

Se volessimo raccontarla dal lato del pessimista, tuttavia, non mancherebbero gli argomenti.

Potremmo notare ad esempio che la disoccupazione, tuttora al 26%, è cambiata poco rispetto a un anno fa. La maggioranza dei disoccupati è senza lavoro da più di un anno. Parliamo di 3,5 milioni di persone, pari al 15% della forza lavoro, e “c’è il rischio di una permanente distruzione di skill professionali”. Inoltre “il mercato del lavoro rimane altamente frammentato, con una grande parte di lavoratori dipendenti collocata temporaneamente e non volontariamente su lavori part time”. Sicché la forza lavoro sta declinando notevolmente, “in parte tramite emigrazione netta”.

Tutto ciò ha avuto un chiaro impatto sulla società spagnola, dove “gli standard di vita sono caduti significativamente dall’inizio della crisi”. E non potrebbe essere diversamente, atteso che quattro milioni di persone che sono rimaste senza lavoro “hanno sofferto grandi perdite di ricchezza”. Anche a causa dei debiti che avevano sul groppone, aggiungo io.

La ricchezza mediana, infatti, è crollata, provocando di conseguenza una notevole crescita della disuguaglianza, misurata dall’indice di Gini, a fronte del fatto che comunque l’economia rimane pesantmente indebitata.

Il debito pubblico infatti, altro ex miracolo spagnolo, è in crescita costante, ormai vicino al 100% del Pil, e il deficit fiscale, malgrado i progressi, era ancora al 6,5% del Pil nel 2013.

Lato debito privato stanno pure peggio. Quello corporate è ben al di sopra della media storica e quella internazionale, mentre quello delle famiglie rimane vicino ai massimi storici. E sarebbe strano il contrario. La somma dei due quota il 200% del Pil, persino più alta degli inglesi.

“Come risultato – nota il Fmi – la Spagna è pesantemente indebitata con il resto del mondo”.

La Niip, ossia la posizione netta degli investimenti esteri, è addirittura peggiorata nel 2013 e ora sfiora il 100% del Pil, mentre nel 2007 era all’80. E, aggiungo io, le banche spagnole, fresche di salvataggio internazionale, sono notevolmente esposte verso i paesi emergenti dell’America Latina, e quindi sono assai vulnerabili a eventi esterni.

Anche qui, c’è da riempire un altro talk show.

Indeciso se guardare al bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto mi soffermo su un’altra glossa del FMI, laddove, notando il notevole miglioramento del saldo di conto corrente, passato da un deficiti del 10% nel 2007 a un surplus dell’1% nel 2013, osserva che a differenza della Corea del Sud, dove l’aggiustamento (dopo la crisi delle Tigri asiatiche) fu favorito da una corposa svalutazione valutaria, in Spagna il miglioramento del saldo è avvenuto senza una svalutazione nominale dei prezzi.

Vi dirò di più: il caso spagnolo è l’unico registrato fra le cronache di 276 episodi di paesi che hanno avuto deficit di conto corrente superiori al 10% fra il 1980 e il 2013 che abbia subito un aggiustamento senza deprezzamenti nominali.

Più o meno.

“In Spagna – scrive infatti il Fmi – il real effective exchange rate (REER) che si è deprezzato significativamente è quello basato sul costo unitario del lavoro (ULC/REER), riflettendo largamente la perdita di posti di lavoro”.

Traduco: i prezzi sono cambiati poco, ma svalutando il ULC/REER perché sono diminuiti i costi del lavoro, la Spagna ha guadagnato competitività e conquistato quote di export.

E allora vedo emergere dalla nebbia dei resoconti ufficiali e dalle favolette del mainstream il nuovo paradigma che, piaccia o no, sta orientando le scelte di politiche economiche dei paesi debitori: la Grande Redistribuzione.

Spostare quote di ricchezza dal lavoro al capitale. Processo storico ormai avviato da un trentennio, a dirla tutta, ma la crisi ormai lo ha eletto al rango di unica risposta possibile alla crisi a patto di non scegliere una secolare stagnazione.

Questo nuovo paradigma promette a popolazioni eternamente indebitate di continuare a vivere fingendo che tutto sia come prima, al prezzo di una vita lavorativa che sarà sempre più lunga, meno pagata e meno stabile. I creditori degli spagnoli continueranno a prestare i soldi alla poverissima Spagna, se e nella misura in cui rispetterà i suoi impegni internazionali, e la popolazione – o meglio la parte maggiore della popolazione – dovrà pagarne il prezzo.

Gli stati, dal canto loro, saranno troppo impegnati a pagare le loro obbligazioni per poter stendere reti di protezione. E anzi, dovranno pure fare gli sceriffi di Nottingham per saziare l’inesauribile fame dei creditori ed evitare la frusta dello spread.

Il retropensiero, neanche troppo celato di questo nuovo paradigma, è che i soldi è meglio concentrarli su chi già ne ha tanti. I ricchi sono bravi a gestirli.

I poveri no.

 

Le banche spagnole ballano la samba

Il segreto di Pulcinella meglio custodito, ma in quanto tale noto a tutti, sulle banche spagnole è che sono ballerine. E non tanto perché sono state al centro di un salvataggio europeo, con alcune decine di miliardi di euro elargiti dal fondo Esm e ciò malgrado siano ancora piene di problemi. Ma perché conservano una pesante esposizione verso i paesi emergenti dell’America Latina, a cominciare dal Brasile.

Ballerine di samba, perciò. Ma anche amanti dei nachos, visto che dopo il Brasile nella classifica dei rischi esteri viene il Messico.

Le ultime statistiche consolidate rilasciate pochi giorni fa dalla Bis, relative all’ultimo trimestre 2013, totalizzano l’esposizione delle banche spagnole verso i paesi latino-caraibici a quota 488 miliardi di dollati, quasi un terzo del totale degli oltre 1.500 miliardi di esposizione estera.

Di questa montagna di denaro, il Brasile assorbiva 161 miliardi a fine 2013, in calo rispetto al picco di 2010 miliardi toccato nel 2011, e, a seguire il Messico, con altri 159 miliardi. A grande distanza segue il Cile, con circa 67 miliardi e poi il Perù con 22.

Ma poiché è il totale che fa la somma, come direbbe Totò, quello che risulta chiaro scrutando tali statistiche è che la Spagna, per evidenti ragioni storico-culturali, è pesantemente esposta verso un’area geografica che sta vivendo grandi turbolenze provocate dai timori degli irrigidimenti della politica monetaria americana.

Il dato interessante che si può osservare andando a ritroso è che tale esposizione è considerevolmente aumentata durante la crisi. Basta notare che nel 2007 (primo trimestre) superava di poco i 250 miliardi. E con l’avvento della crisi è aumentata. Le banche spagnole, insomma, hanno provato a lucrare rendimenti investendo sui paesi emergenti (come hanno fatto tutti in realtà) mentre all’interno sempre le stesse banche rischiavano il crack a causa della pesante esposizione al settore immobiliare, che ha condotto al salvataggio europeo.

Se andiamo ancora più indietro scopriamo che nel 2000 l’esposizione estera delle banche spagnoe verso quest’area era appena a 98 miliardi. E questo spiega di ogni altro commento cosa siano stati i primi dieci anni del XXI secolo.

La ricerca del rendimento, tuttavia, adesso rischia di far rientrare dalla finestra la crisi bancaria che, faticosamente, la Spagna ha per adesso scongiurato grazie ai soldi dell’Esm e al prezzo di una devastante correzione fiscale e della posizione estera che ha distrutto la domanda interna e portato la disoccupazione al 27%. Anche perché le previsioni per le economie emergenti non sono delle migliori.

Nella sua ultima relazione annuale la Banca d’Italia, pur notando che la crescita del Pil in Brasile è stata robusta nel 2013, non può fare a meno di notare la panoplia di criticità di fronte alle quale si trova l’economia brasiliana. Il settore esterno, che poi è quello che nei primi anni del 2000 ha fatto gridare al miracolo brasiliano, ha contribuito negativamente alla crescita con un -0.9%, al contrario di quanto ha fatto la domanda interna, cresciuta soprattutto grazie all’aumento dei salari reali, con un’inflazione al consumo che ha raggiunto il 5,9% a fine 2013.

Tutto ciò si è ripercosso sulla posizione fiscale, che si è deteriorata. Il deficit sul Pil è arrivato al 3,3%, l’avanzo primario si è ridotto all’1,9% e il debito è arrivato al 66,3%. tutti elementi che hanno indotto S&P ad abbassare il rating, mentre a febbraio 2014 il governo decideva di tagliare 14 miliardi al bilancio pubblico per evitare ulteriori abbassamenti dell’avanzo primario.

Come se ciò non bastasse, è arrivata la tegola del tapering americano, che a maggio 2013, dopo le esternazioni di Bernanke, ha terremotato il real brasiliano, già affaticato da un saldo di conto corrente negativo per il 3,6% del Pil (era il -2,4 nel 2012).

Son partiti i deflussi di capitale, persino dalla Spagna, che dai 181 miliardi di inizio 2013 è passata bruscamente ai poco più di 160 del terzo trimestre. Alta inflazione e grandi deflussi hanno costretto la banca centrale a stringere i cordoni della borsa.

La conseguenza è che i tassi sono schizzati alle stelle. Il Selic, che ad aprile 2013 era al 7,25%, è stato rialzato nove volte di fila, arrivando all’11% del 2014. E le prospettive di crescita del paese adesso sono decisamente orientate al ribasso.

Questo pattern, pure se con le dovute differenza, si è visto anche in Messico che come il Brasile e tante altre economie emergenti ha aumentato i suoi debiti, spesso emettendo bond sui mercati internazionali, e ha sofferto svalutazione, inflazione e saldo di conto corrente negativo. L’intera area, infatti, ha visto peggiorare significativamente la sua posizione estera. I saldi dei conti correnti di tutti i paesi sono peggiorati e il debito estero pure. Il Brasile ormai sfiora il 14% del Pil (era il 12% nel 2011), il Messico ha superato il 20%, il Cile ha superato il 47%, la Colombia il 24% e il Perù il 29%.

Che l’America Latina impensierisca non poco la Spagna si deduce agevolmente anche sfogliando l’ultimo report della banca centrale spagnola proprio su queste economie, e notando che tale reportistica sia ormai consuetudine del regolatore spagnolo.

Nell’ultimo disponibile, che analizza lo stato dell’arte nella prima metà del 2014, leggo che “i rischi per l’America Latina sembrano dipendere più dal mutamento delle condizioni monetarie internazionali che dal rallentamento dell’economia cinese”. La Banca di Spagna nota preoccupata il rallentamento dell’area latina cominciato già nel 2012, in Argentina e Brasile, per poi estendersi, nel corso del 2013, in Messico, Cile e persino Colombia e Perù. E l’outlook per il 2014 è stato ancora rivisto al ribasso.

E proprio al Brasile la banca di Spagna ha dedicato un approfondimento, notando in conclusione che se è vero che l’economia brasiliana ha delle fragilità (il credito al settore privato è crescito del 21% l’anno fra il 2004 e il 2013), ha pure dei buffer che potrebbero funzionare da salvagente anche se pare ormai evidente che quest’economia gigantesca abbisogni di profonde riforme per non finire in stallo.

E per fare le riforme serve tempo. Risorsa, questa sì, scarsissima.

In un contesto così complesso, con gli Stati Uniti pronti a premere il freno monetario alzando i tassi già dall’anno prossimo, è più che comprensibile che la banca centrale spagnola guardi all’America Latina come a una possibile fonte di contagio e di instabilità per il sistema bancario domestico, peraltro ancora tutt’altro che risanato, e di conseguenza per tutta l’Europa.  Il rischio importato dagli emergenti latini, in sostanza, è diventato assai sostanzioso e non riguarda solo la Spagna, ma tutti noi.

L’ultimo post programma surveillance della commissione Ue sulla Spagna, rilasciato nel maggio scorso, nota che nel 2013 il settore bancario è tornato a far utili, ma la profittabilità rimane ancora bassa, con una quota di crediti non performing (NPLs) ancora inchiodata al 13,4% a febbraio.  “Inoltre – aggiunge – un rallentamento nei mercati emergenti, in particolare in alcuni paesi latino-americani, potrebbe indebolire la redditività di alcune banche”, per non parlare dei rischi di aprire vere e proprie voragini.

Il segreto di Pulcinella, appunto.

Diplomazia dei prestiti esteri: Spagna, ossia il parente povero della Germania

Non vi ruberò troppo tempo. Anche perché si rischia di esser noiosi e ripetitivi a raccontare ancora una volta la storia dei guasti compiuti nel primo decennio del XXI secolo dalle politiche dissennate seguite nell’Eurozona, che hanno creato l’esplosiva dicotomia fra i PIIGS e i virtuosi nordeuropei. Però, vedete, mi ci tirano per i capelli.

Mi ero ripromesso di smetterla, insomma.

Ma poi mi sono capitati fra le mani un po’ di documenti e dati che mi hanno fatto vedere una simpatica sfumatura del copione che ormai conosciamo bene. Quello, vale a dire, che ha visto i ricchi prestare ai poveri nel periodo di grazia, salvo poi lasciarli in mutande in quello di disgrazia.

Mi sono accorto, vale a dire, che questo paradigma trova la sua perfetta esemplificazione nel rapporto che si è venuto a creare fra i due campioni dell’una e dell’altra categoria: ossia la Spagna e la Germania. Ho scoperto che sono parenti, e non l’avrei mai detto. Parenti alla lontana, certo.

Sarà una questione di pesi specifici. Ma, vedete, questi due paesi raccontano esattamente la stessa storia, pure se in controluce. Il successo tedesco e l’insuccesso spagnolo, vale a dire, sono due facce della stessa medaglia. E anche se oggi il caso spagnolo viene presentato come un successo delle politiche di risanamento imposte dall’Europa al pasticcione paese latino, bisognerebbe pure ricordare che il risanamento del conto corrente spagnolo e la prevista crescita del Pil iberico (+1,2% nel 2014, +1,7 nel 2015) porta con sé una disoccupazione del 25% quest’anno e del 23,8 l’anno prossimo (nel 2007 la disoccupazione in Spagna era più bassa di quella tedesca) e un deficit fiscale sopra il 5%. Per tacere delle svariate decine di miliardi che il fondo ESM (pagato anche dall’Italia) ha dovuto prestare alla Spagna per salvare le sue banche.

Per cominciare a raccontare questa storia, vale la pena servirsi dell’ultimo ritrovato del Fmi, ossia il progetto denominato Coordinate portfolio investment survey, un database che misura gli investimenti di portafoglio di un paese verso gli altri, che ha il pregio di rappresentare in filigrana una vera e propria diplomazia del denaro sotto forma di prestiti esteri. Fra i vantaggi dello strumento c’è anche quello di raccontare la storia dal 2001 in poi, quindi giusto agli albori dell’età dell’euro.

A giugno 2013 la Germania aveva investimenti di portafoglio all’estero per oltre 2.800 miliardi di dollari, di cui quasi 800 in azioni e circa 2.000 in obbligazioni. La Spagna appare fra le prime cinque controparti, anche se fanalino di coda, nel settore obbligazioni con circa 145 miliardi di dollari, pari al 7% del totale, dei quali 143 mld a lungo termine. Per darvi un termine di paragone, è quasi lo stesso livello di investimenti in obbligazioni di lungo termine che la Germania ha negli Stati Uniti.

Limito l’analisi a questa categoria perché, come abbiamo visto, è quella più rappresentativa, e porto le lancette dell’orologio al 2001, quando gli investimenti in obbligazioni spagnole a lungo termine da parte dei vari investitori tedeschi superavano di poco i 25 miliardi di dollari. Appena tre anni dopo, nel dicembre 2004, avevano già superato i 100 miliardi.

La Germania si accorge di avere un parente povero e si commuove. Tutti conoscono la generosità dei parenti ricchi.

Due anni dopo, a dicembre 2006, erano oltre 190 miliardi, per arrivare a 228 miliardi a dicembre 2007.

Erano gli anni del miracolo spagnolo, credo ricorderete, quando tutti studiavano la lingua e sognavano di trasferirsi a Barcellona. Ma non ci vuole chissà quale divinità a fare miracoli quando si decuplicano in sette anni gli affussi di capitale estero. Il miracolo semmai servirebbe quando parte il deflusso.

Nel caso della Spagna i guai cominciano dopo il dicembre 2009. Nel corso del 2010 l’esposizione tedesca si riduce a 171 miliardi, che diventano 151 nel 2011 e 139 nel dicembre 2012. Parte il salvataggio delle banche spagnole e, miracolosamente, torna la fiducia. Arriviamo così ai 143 miliardi del primo semestre 2013.

Per vostra conoscenza, ricordo che circa un terzo di tali investimenti era in pancia alle banche tedesche, e una quota di poco superiore a fondi e assicurazioni.

Questo spiega bene perché la Spagna sia in cima ai pensieri (quasi quanto l’Italia) della Germania, come peraltro mostra anche il bollettino mensile della Bundesbank di febbraio, che dedica un ampio paragrafo al miracolo spagnolo (“Distinctive features of unit labour cost developments in Spain“).

Avrete sentito parlare del nuovo miracolo spagnolo no? Quella cosa che se uno fa le riforme può fare altri debiti per pagare quelli vecchi?

Ebbene: il nuovo miracolo spagnolo è uno dei più gettonati sulla stampa. Fatevi un giro e date un’occhiata: la Spagna, scrivono, è un esempio per tutti noi. D’altronde, se la Germania fa miracoli, perché non dovrebbe farli anche il suo parente povero ma risanato dai sacrifici?

Ebbene, nel bollettino della Buba leggo che il nuovo miracolo spagnolo è un crollo verticale dell’ULC, ossia del costo unitario del lavoro, guidato da un robusto aumento di produttività a fronte di salari in moderata crescita.

Traduco per i non appassionati: i salari crescono meno della produttività e quindi il costo unitario (reale) del lavoro diminuisce. Ciò favorisce l’aumento di competitività e la crescita delle esportazioni. Il mercantilismo tedesco in versione spagnola.

In effetti, spiega la Buba, “rispetto al picco raggiunto nel 2009, che era del 35,5% più alto rispetto al 2000 l’ULC è calato del 7,5% mentre quello dell’intera euro area cresceva del 3,25%. La conseguenza di questo aggiustamento è che adesso l’ULC spagnolo è perfettamente allineato con quello dell’eurozona. Come dire: gli spagnoli sono diventati un po’ più tedeschi.

Una convergenza, però, che si è verificata al prezzo di un pesante deleveraging bancario e un altrettanto impegnativo aumento della disoccupazione. E non è neanche detto che basti. L’ULC spagnolo, infatti è diminuito meno della Grecia (-17,25%) e dell’Irlanda (-11,25%) ma più del Portogallo (-3%). E tuttavia è bastato per far aumentare la competitività, che ha favorito l’aumento delle esportazioni e quindi l’aggiustamento del saldo di conto corrente.

Insomma: gli spagnoli si sono scoperti tedeschi, anche se parenti lontani (e poveri), dopo essere stati costretti a bere l’amarissima medicina che i lavoratori tedeschi avevano già sorbito a suo tempo.

Infatti la produttività spagnola è cresciuta del 13,25% dal secondo quarto del 2008 in poi, a fronte del 6,5% dell’Irlanda (altro celebrato miracolo di risanamento) e del 5% del Portogallo, al contrario di quanto è accaduto in Grecia e in Italia, dove la produttività è diminuita nei cinque anni considerati del 4,5% e del 5%. Aggiungo che a fronte di un incremento della produttività a due cifre, i salari sono cresciuti (2008-2013) solo del 7,25%.

Questo giusto per farvi capire quello che ci si aspetta da noi, che non siamo parenti poveri ma abbiamo “esportato” oltre 200 miliardi di debito italiano nelle casseforti tedesche.

Chi volesse approfondire dovrebbe giusto dare un’occhiata ai grafici che mostrano come queste tre variabili (ULC, salari e produttività) siano mutati nei vari settori dell’economia. Mi limito a dirvi che fa il il 2008 e il 2013 l’occupazione nel settore delle costruzioni, cresciuta oltre il 50% dal 2001 al 2007, è crollata di oltre il 60% dal 2008 in poi. Questo per quelli che amano le bolle.

Mi fermo qui con la Buba, perché c’è un’altra cosa che voglio raccontarvi.

Stavolta prendo a prestito da un pregevole paper della Bce (“External and macroeconomic adjustement in the larger euro area countries”) pubblicato poco tempo fa. Anche qui la Spagna la fa da grande protagonista, in coppia con la Germania.

Già dall’inizio gli autori notano che “la presenza di deficit e surplus fra i diversi partecipanti dell’eurozona non è stata generalmente percepita come un problema, visto che, ad esempio, il deficit spagnolo veniva compensato dal surplus tedesco”. Eccoli qui i nostri lontani parenti. Ma non appena a crisi ha fatto capolino “i mercati finanziari hanno manifestato segni di frammentazione”. Cioé sono esplosi gli spread.

Quello che è successo lo sappiamo già, ma vale la pena riportare qualche passaggio. Laddove ad esempio si nota che “con la importante eccezione della Germania, il tasso di disoccupazione è cresciuto a livelli senza precedenti, particolarmente in Spagna”.

Maddai.

Sulla base di queste considerazione gli studiosi hanno messo in piedi il solito modellino matematico che mette insieme Spagna, Germania, Italia, Francia e Olanda. Ve lo risparmio.

Quello che vale la pena rilevare sono le conclusioni relative a possibili scenari post crisi, prendendo come paesi campioni (guardacaso) proprio Spagna e Germania.

Sono state messi come ipotesi quattro diversi shock possibili: un rebalancing guidato dall’aumento della domanda interna tedesca; un aggiustamento costo/competitività dei salari in Spagna, un forte recupero del commercio estero in Spagna e un rimbalzo della fiducia dei consumatori, sempre in Spagna. Uno può dire: a parte che tre scenari su quattro sono in capo agli spagnoli, sta già succedendo tutto questo.

E allora vale la pena concludere con le parole della Bce: “Esplorando i differenti scenari emerge la difficoltà si ottenere insieme il rebalacing interno ed esterno. Fra gli shock considerati solo un miglioramento nella competitività dei salari sembra aiutare insieme il processo di riequilibrio del conto corrente e quello domestico, favorendo la ripresa del commercio netto e dell’occupazione tramite il canale della competitività, ma al costo di un più alto livello di indebitamento delle famiglie”. Ovviamente in Spagna.

Ecco, a questo non avevo pensato, ma non fa un piega. E mi è venuta in mente una storiella edificante che mi sembra la giusta conclusione di questo raccontare.

Dopo aver prestato a rotta di collo al parente povero, il parente ricco, che rivuole i soldi indietro, lo costringe a lavorare il doppio per guadagnare la metà per continuare a fargli credito. Ma poiché  bisogna pur vivere e i debiti si devono pur ripagare, ecco che il parente povero, che è molto dignitoso, finisce più indebitato di quanto non fosse già, sempre perché deve pur mangiare e onorare i debiti, dovendosi contentare di fidarsi del buon cuore del parente ricco, che ha così tanta pazienza e non lo manda a vivere sotto i ponti. I figli del parente povero potranno trovare alloggio sotto l’accogliente tetto del parente ricco, se proprio non trovano di che mangiare a casa loro. Ma certo, dovranno lavorare per lui e alle sue condizioni: mica si vuole incoraggiare il vizio. E che non si dica che i parenti ricchi non sono generosi.

Parenti serpenti: è proprio vero.

(1/segue)

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