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Il Fmi promuove il QE e boccia la svalutazione dei salari

Sarà pure un caso, come il buon senso suggerisce, ma il Fmi ha rilasciato di recente uno studio molto interessante per testare la sensatezza dell’ipotesi che individua nella svalutazione salariale la panacea dei mali della crisi. E questo potevo pure aspettarmelo, visto che la svalutazione c’è stata in molti paesi e pure massiccia.

Quello che non mi aspettavo invece è la conclusione: tale ipotesi può essere fondata, quella della svalutazione dei salari, ma solo se nel frattempo interviene una qualche forma di allentamento monetario. In caso contrario, e nell’ipotesi che i paesi interessati appartengano a un’unione monetaria, il rimedio funziona poco e male, conducendo di fatto a una diminuzione del prodotto nell’area considerata come un tutto. Dal che deduco che siamo stati davvero fortunati, visto che abbiamo avuto l’uno e l’altra. E se non siete contenti, beh: è un problema vostro.

Scherzi a parte, lo studio è molto ben fatto e pieno di informazioni utili a capire l’aria che tira, e sarebbe ben poco rispettoso liquidarlo con una battuta. Perciò armiamoci di pazienza e scorriamolo insieme. Hai visto mai dopo saremo più contenti.

L’ipotesi alla base del modello sviluppato dal Fmi prevede che i salari vengano deflazionati del 2%. Viene fuori che se è vero che la svalutazione salariale aumenta la competitività, è altresì evidente che il processo deflattivo, finendo con l’avere conseguenze sul livello generale dei prezzi, finisce con l’aumentare il valore reale dei debiti.

Per questo serve l’allentamento monetario. Il grafico elaborato dal Fmi mostra con chiarezza che l’effetto depressivo del calo salariale viene compensato dall’allentamento monetario. Le politiche di QE, infatti, secondo i calcoli del Fmi, abbassano di 50 punti basi i tassi a lungo termine, finendo quindi per controbilanciare l’effetto di aumento dei tassi reali provocato dalle politiche salariali deflattive. E se a questo si accoppiano anche le mitiche riforme strutturali, la crescita del prodotto sarebbe di gran lunga superiore rispetto allo scenario base di partenza.

La lezione secondo il Fmi è chiara: “Le politiche monetarie devono tenere conto dell’impatto deflazionario dei salari e della moderazione dei prezzi. La moderazione salariale può aumentare la competitività esterna e l’export netto. E tuttavia al tempo stesso può aggiungere pressioni deflazionarie che implicano più elevati tassi reale”. La qualcosa in economie indebitate come quelle che hanno subito i tagli salariali può essere molto complicato da gestire.

E poi c’è un’altra considerazione. “L’effetto netto della moderazione salariale in un’economia colpita dalla crisi può essere positiva, ma questo effetto diminuisce se tutte le economie in crisi lo fanno nello stesso momento”. In queste circostanze, infatti, può accadere che “il prodotto dell’euro area cada sotto il livello base previsto”. E non serve essere economisti per capire perché.

Ciò spiega perché “il Fmi ha ripetutamente richiesto politiche monetarie accomodative in risposta alla caduta dei salari e alla pressione sui prezzi” e perché al tempo stesso il Fmi, scrivono, non abbia mai supportato sic et simpliciter politiche deflattive per i paesi in crisi dell’eurozona. Salvo partecipare alla Troika.

Dopo aver letto lo studio mi rimangono solo alcune domande. Il QE ci sarebbe stato comunque senza la precedente svalutazione salariale? Se si fosse fatto prima il QE la deflazione salariale sarebbe avvenuta comunque? In sostanza: viene prima il QE o il calo dei salari. Ma poiché tale dilemma somiglia quello dell’uovo e della gallina ci rinuncio.

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Gli altri greci dell’eurozona: Torero camomillo trasloca in Spagna

La Spagna, dunque, con la sua economia da torero che nella prima metà dei Duemila strappava gli olé da mezzo mondo. Chiunque ricorderà un qualche amico o conoscente che a quel tempo studiava spagnolo e cercava casa a Barcellona, ansioso di darsi alla produttiva movida spagnola.

Senonché, com’è noto, il torero finì incornato dal cattivissimo toro reso furioso dal maltempo finanziario e anche indispettito, forse, dalla noncuranza con cui il torero, vagamente sbruffone, ignorava gli allarmi, che pure c’erano, sulla sua costituzione fragilina.

Sia come sia, i medici, corsi al capezzale del malato, notarono atterriti, ben nascoste sotto la muleta, le cicatrici profonde di una crescita nutrita a mattone e debito, e prescrissero una cura da cavallo, alla quale il nostro torero si premurò di obbedire, ben lieto di onorare il suo antico curriculum di hidalgo.

Della storiella edificante del torero spagnolo, che così per sommicapi vi ho narrato, esiste anche una versione 2.0 secondo la quale il torero, dopo le amorevoli cure dell’ospedale Troika, sta pensando seriamente di tornare a calcare l’arena, la quale per l’occasione, si scalda elargendo al pubblico una sorta di coming soon. L’economia spagnola torna a crescere, dicono i banditori. E cosa importa di tutto il resto?

La Spagna peraltro ha chiuso il suo programma di aiuti, attingendo solo in parte ai 100 miliardi che le istituzioni estere le avevano concesso, col che denotandosi, per lo meno a livello di percezione, che la situazione spagnola non doveva poi essere così grave. Non a caso di recente son tornate a fischiarmi nelle orecchie voci di amici e conoscenti che parlano della Spagna come la patria di un nuovo miracolo economico.

Senonché, educato allo scetticismo da San Tommaso, sono andato a rivedermi cosa scrive la Commissione Ue sul redivido torero spagnolo, al quale ovviamente vanno i miei più calorosi auguri di una lunga e serena vita, e mano a mano che mi ubriacavo di grafici e tabelle succedeva che nelle orecchie, invece degli olé di amici e conoscenti, iniziava a farsi sentire un motivetto familiare a chi ha figli piccoli o sia un patito dello zecchino d’oro: il torero camomillo. In effetti l’arena è già affollata, come dice la canzone, però non c’è il torero, o almeno quello dei primi anni duemila. Al suo posto è arrivato il matador tranquillo che dorme appena può, e che sul toro preferisce dormirci sopra piuttosto che stordirlo con le sue piroette. Converrete che il ritornello si adatta perfettamente alla Spagna in versione 2015.

Evito di ripetere cose ormai ampiamente note (o forse no). Mi basta ricordare che la Spagna deve vedersela ancora con un tasso di disoccupazione superiore al 23%, che ha debiti, privati e pubblici, per oltre il 350% del Pil, la maggior parte dei quali sono privati, e soprattutto ha una posizione estera netta negativa per quasi il 100% del Pil che, scrive la Commissione, richiederebbe notevoli e prolungati surplus di conto corrente. ” La Spagna – scrive l’Ue nell’ultimo Country report – avrebbe ancora bisogno di raggiungere un avanzo corrente record del 1,7% del PIL in media nel periodo 2014-24, al fine di dimezzare la sua NIIP-to-PIL entro il 2024″. Dimezzare, non eliminare. Quindi arrivare a un deficit del 50%. E ricordo che la soglia Ue per lo squilibrio macroeconomico esterno è un deficit del 35% del Pil.

Per darvi un’idea di cosa vuol dire, avere un avanzo corrente dell’1,7 medio, osservo solo che nel 2014 il saldo corrente è tornato negativo per lo 0,1% e si prevede torni in attivo, al +0,6%, nel 2015. All’apice della correzione, avvenuta nel 2013, il saldo corrente, come si può osservare dal grafico, non è riuscito a superare la soglia del 2%.

Ancora peggio mi sento, quando vedo che nemmeno ai tempi buoni il torero spagnolo riusciva a chiudere in equilibrio i suoi conti esteri. Al contrario: all’apice del boom e degli olé, il conto corrente sprofondava, fra il 2005 e il 2006, a un deficit dell’8% del Pil.

Come abbiano fatto gli spagnoli a recuperare lo si capisce osservando le componenti del conto corrente, dove si nota il crollo del deficit della bilancia dei beni, che da sola aveva raggiunto l’8% del Pil, e che nel 2012 aveva ridotto il buco a meno del 2% del Pil.

E qui casca l’asino. Se infatti andiamo a vedere come la Spagna abbia ottenuto la sua crescita dell’1,4% nel 2014, che si prevede arrivi al 2,3% nel 2015, notiamo che il driver è stata la domanda interna, contribuendo negativamente l’export. Ciò significa che gli spagnoli devono consumare e investire a casa loro per poter crescere, sia a livello privato che pubblico, ma appena cominciano a farlo il saldo corrente va a farsi benedire.

E viceversa. Nel momento della correzione, infatti, la curva del Pil scendeva sottozero perché la componente positiva dell’export netto non riusciva a compensare quella negativa del crollo della domanda interna. Pensare che uno grande paese come la Spagna possa pagare i suoi debiti con le esportazioni, in effetti, sembra alquanto avventuroso. Tanto più se osserviamo che nel frattempo la quota di mercato estero dei prodotti spagnoli si è pure ridotta di oltre il 20%.

Insomma: il torero deve consumare di suo, sennò deperisce e muore. Pure adesso che è un matador tranquillo.

Come si possa immaginare che la domanda interna si sviluppi, in un contesto di debiti, privati e pubblici, di questo livello, e con un sistema bancario ancora assai problematico, malgrado i salvataggi, dove i crediti deteriorati sono in media al 13% e quelli del settore costruzioni quasi il triplo, e le banche sono ancora assai restie a prestare, è davvero esercizio che farebbe perdere il sonno a chiunque.

Capite bene perché torero camomillo dorme appena può.

(4/segue)

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Il Fondo monetario europeo? C’è già

Nel lungo e difficile lavoro di scavo che ho intrapreso alla ricerca della radice del nostro agire economico m’imbatto nello statuto del Fondo monetario internazionale che, come tanti, conosco per sentito dire non avendolo mai letto né tantomeno meditato.

Come tanti, leggo parecchie cose sul Fmi, trascurando però di approfondire quelli che sono i compiti e i poteri che lo statuto gli affida. E poiché credo che non ci si imbatta mai a caso in qualcosa, mentre si scava alla ricerca di qualcos’altro, decido di armarmi dell’ormai collaudata santa pazienza e comincio a leggerlo questo misconosciuto statuto: in fondo sono solo una settantina di pagine e poi ho letto di peggio.

Comincio dagli scopi, che qui riproduco per vostra comodità. All’articolo 1 lo statuto prescrive che il Fmi deve “promuovere la cooperazione monetaria internazionale attraverso un’istituzione permanente che mette a disposizione un meccanismo di consultazione e collaborazione per quel che riguarda i problemi monetari internazionali; facilitare l’espansione e la crescita equilibrata del commercio internazionale e contribuire così ad istaurare e mantenere elevati livelli di occupazione e di reddito reale e a sviluppare le risorse produttive di tutti gli Stati membri, obiettivi principali della politica economica; promuovere la stabilità dei cambi, mantenere tra gli Stati membri dei regimi di cambio ordinati ed evitare svalutazioni competitive dei tassi di cambio; aiutare a stabilire un sistema multilaterale di pagamenti relativi alle transazioni correnti tra gli Stati membri e ad eliminare le restrizioni valutarie che limitano la crescita del commercio internazionale; assicurare agli Stati membri, prendendo le opportune cautele, la disponibilità temporanea di risorse del Fondo, fornendo loro in tal modo la possibilità di correggere squilibri nelle loro bilance dei pagamenti, senza dover ricorrere a misure che rischierebbero di compromettere la prosperità nazionale o internazionale; conformemente a quanto sopra, ridurre la durata e l’ampiezza degli squilibri delle bilance dei pagamenti degli Stati membri”.

Il resto dello statuto è dedicato a questioni di ordine tecnico, prescritte allo scopo di attuare quanto previsto dall’articolo 1, frutto di ultradecennali incontri fra i partecipanti al Fondo e che qui possiamo sorvolare, concentrandoci sullo scopo più evidente di questa entità: contribuire al riequilibrio globale intervenendo, se necessario, con prestiti condizionati alle economie in disordine.

Tale nobile fine mi torna in mente mentre sfoglio cronache, anche recenti, che auspicano la creazione, nell’eurozona, di un fondo monetario europeo che dovrebbe, secondo i sostenitori, sostituire la troika Fmi, Bce e Commissione Ue, nella gestione degli affari nostri.

Senonché non serve essere fini analisti per comprendere un’evidenza ormai palese: in Europa, e segnatamente nell’eurozona, il Fondo monetario europeo c’è già, ed è stato creato surrentiziamente, come la gran parte delle attività che agiscono nella nostra economia, sommando le competenze della Bce, da una parte e del fondo Esm, dall’altra. Queste due entità agiscono sostanzialmente in tandem, come si è potuto osservare nelle varie crisi che hanno colpito alcuni paesi dell’eurozona.

Se dagli scopi del Fmi espungiamo quelli legati alla stabilità delle valute fra gli stati membri, che nel caso dell’eurozona vengono vanificati dall’adozione della moneta unica, possiamo notare che il fine di “aiutare a stabilire un sistema multilaterale di pagamenti relativi alle transazioni correnti tra gli Stati membri” viene assicurato dal sistema Target 2, gestito dalla Bce, mentre quello di “assicurare agli Stati membri, prendendo le opportune cautele, la disponibilità temporanea di risorse del Fondo” è il compito del fondo Esm, che ormai si connota per l’ampiezza delle sue risorse, 80 miliardi di capitale già versato su un capitale assegnato di 700 miliardi, capaci di generare prestiti per 500 miliardi, e per la pesante condizionalità che l’erogazione di tali prestiti porta con sé.

Ma c’è di più. Pochi giorni fa il fondo Esm ha signato un accordo con la  Nordic Investment Bank (NIB), una banca d’affari e di sviluppo pubblica posseduta da otto stati dell’Europa del nord: Danimarca, Norvegia, Svezia, Finlandia, Islanda, Estonia, Lettonia e Lituania. Tale accordo, che prevede collaborazioni e consultazioni istituzionale fra le due entità, segue quello di marzo con la European Bank for Reconstruction and Development (Bers), sostanzialmente siglato per gli stessi fini. Ma soprattuto rivela la visione ormai nordica, e quindi baltica, che la finanza europea è in procinto di sviluppare.

Di fatto il Fondo Esm è diventata un’entità che travalica i confini dell’eurozona, capace quindi di dialogare con la vera lingua franca del nostro tempo, ossia la finanza, con altre entità che si propongono gli stessi fini: sostenere lo sviluppo e i paesi in crisi con politiche mirate e strettamente condizionate. Ciò replica in sostanza quello che la Bce si propone di fare grazie al’attivazione del processo di Unione Bancaria che, lo ricordo, concede anche a stati membri dell’Ue di aderire alla supervisione unificata pure se non aderenti alla moneta unica.

Qualcuno penserà che mi stia abbandonando alle speculazioni, e forse ha ragione. Rimane il fatto che il fondo Esm riveste un’altra peculiarità che lo assimila definitivamente ai grandi organismi internazionali.

Il 18 marzo di quest’anno, infatti, il Comitato di Basilea che fissa le pratiche regolatorie cui tutte le giurisdizioni sono chiamate ad adeguarsi, quindi le varie versione Basilea II e III, ha deciso che le obbligazioni emesse dall’Esm debbano essere inserite nella lista delle entità che ricevono una pesatura del rischio pari a zero, e che possono essere considerate come asset di livello 1, high quality liquid asset (HQLA). In precedenza l’Eba, il 20 dicembre, 2013 aveva già espresso una raccomandazione di considerare gli asset dell’Esm altamente liquidi e con alto merito di credito.

A molti parrà un astruso tecnicismo, e difatti lo è. Ma ha un significato assai preciso: vuol dire che chi compra le obbligazioni che il fondo emette sulla base della propria dotazione di capitale non deve accantonare capitale di rischio. E quindi tali obbligazioni sono un ottimo investimento per le banche che le comprano, pure se al costo di rendimenti assai bassi.

Se volessimo approfondire ancora un po’ scopriremmo che a godere di tale considerazione, nelle regole di Basilea, sono davvero in pochi. L’articolo 56 dell’International convergence of capital measurement and capital standard rilasciato a Basilea nel 2006 statuisce infatti che la lista delle entità a rischio zero comprende solo la Bce, la Commissione europea (qualora un giorno si deciderà ad emettere obbligazioni) e, dulcis in fundo, proprio il Fondo Monetario Internazionale.

In sostanza, aldilà di ciò che dicono i trattati, l’Europa, a cominciare dall’eurozona dispone già di un meccanismo, pure se bicefalo, che non solo disciplina i pagamenti interni, ma interviene, potendo emettere obbligazioni che godono di trattamento regolamentare privilegiato, imprestando agli stati, sotto precisa e stringente condizionalità, per riportare in equilibrio le bilance dei pagamenti.

Detto ciò ripercorrere le cronache che almanaccano di istituendi fondi monetari europei è vagamente straniante. Ma in fondo è il solito gioco che amano fare gli europei: lasciar parlare i tanti, mentre pochi decidono.

La politica, d’altronde, si segnala per i suoi clamorosi ritardi. Scorrendo vecchi archivi ho ritrovato persino tracce di una discussione, dove si dà conto della decisione delle autorità europee di “consolidare gli accordi e le istituzioni esistenti in un Fondo monetario europeo”, oggetto di un seminario tenutosi a Ginevra sul finire del ’79, subito dopo quindi la nascita del sistema monetario europeo. Già da allora si rifletteva sulla necessità di creare per l’Europa un meccanismo di stabilizzazione gestito a livello europeo.

Adesso c’è. Solo che nessuno se n’è accorto.

 

 

 

Prove generali di Troika sull’economia (politica) italiana

Leggo a un certo punto, nell’ultimo Staff report del Fmi dedicato all’Italia, che “un rallentamento nella crescita globale o ulteriori perdite di competitività potrebbero far deragliare la ripresa export-led”, ossia guidata dalle esportazioni. E finalmente trovo qualcosa di nuovo, per non averlo già letto nei numerosi peana che ci infligge la stampa nazionale che tanto alimentano anche quella internazionale.

La novità, poi, non è tanto che la nostra ripresa sia, o almeno tutti si aspettano che sia, export-led, ma che finalmente leggo il sottinteso degli ultimi due anni scritto a chiare lettere nei documenti di un organismo internazionale che, giocoforza, finirà col diventare l’agenda della nostra vita politica.

Volete un paio di prove?

Il Fmi scrive che un contratto a tutele crescenti aiuterebbe il mercato del lavoro.

Il Fmi scrive che bisogna riformare la giustizia civile.

Entrambi i temi sono entrati nell’agenda della nostra vita politica.

Ora, il punto non è tanto se tali esortazioni siano giuste o sbagliate. Il punto è che dobbiamo, come Paese, farci i conti, perché abbiamo troppi debiti da farci finanziare da gente che i rapporti del Fmi li legge, a differenza di quanto succede in Italia.

Detto ciò, scoprire che il nostro paese sta sperimentando una ripresa, che però ancora non si vede, export-led, implica che dobbiamo puntare sul commercio estero per uscire dalle secche della nostra depressione, esattamente come hanno fatto gli altri PIIGS. E al tempo stesso che dovremmo fare i conti con un robusto consolidamento fiscale per continuare a garantire la sostenibilità del debito.

Ma anche questo lo sapevamo già.

E tuttavia vale la pena leggerlo, questo rapporto, perché ci ricorda alcune cose che il nostro dibattito pubblico tende a sottovalutare, purtroppo.

La prima è che i nostri tassi reali, a causa dell’inflazione declinante, orbitano intorno al 3%: solo la Spagna paga il denaro più di noi, quotandosi il tasso iberico sui prestiti intorno al 3,5%. Vale la pena sottolineare che tale tasso reale, che poi è quello che ci dice sulla sostenibilità dei nonstri debiti, pubblici e privati, era di poco superiore allo 0,5% ancora a settembre 2010 ed è persino diminuito fino al terzo trimestre del 2012, quando ha iniziato, inesorabile, la sua salita.

Quelli che festeggiano il ribasso dello spread, insomma, dovrebbero pure ricordare che è vero, come ci ricorda sempre il Fmi, che è diminuito di 320 punti base dal picco del 2011. Ma è altresì vero che nel 2011 pagavamo un tasso reale sui prestiti inferiore allo 0,5%, mentre adesso siamo decollati al 3%. Colpa del crollo dell’inflazione, certo. Ma, come diceva Totò, è il totale che fa la somma.

Avere tassi reali così alti, a parte danneggiare i conti pubblici, mette a repentaglio quelli privati, a cominciare da quelli corporate. Il Fmi osserva con una certa preoccupazione il livello raggiunto dai non performing loan (NPLs), ossia i crediti in sofferenza presso le banche, e nota che con sistema bancario che deve fare i conti con questa situazione è estremamente difficile far ripartire gli investimenti, autentico tallone d’achille del sistema italiano, ancora sotto del 27% rispetto al livello pre crisi.

Ne sia prova il fatto che le risorse che il governo ha destinato al pagamento dei debiti della PA, circa l’1,6% del Pil al momento in cui scrive il Fmi, non sono state usate dalle imprese per investire, ma per ripagare i debiti. In sostanza, è come se il pagamento dei debiti della Pa sia servito direttamente alle banche e indirettamente al Paese.

Ma poiché dovremmo scommettere sulla ripresa export-led, giova pure sottolineare un altro punto. “La combinazione fra una domanda interna debole e un miglioramento della crescita globale – scrive il Fmi – ha condotto a una diminuzione degli squilibri esteri italiani e a un modesto surplus di conto corrente nel 2013”. Addirittura, “la quota di export globale dell’Italia è aumentata per la prima volta dal 2013”.

Dev’esser questo, mi dico, ad aver generato l’equivoco. Il pensiero voglio dire che un’economia grande come quella italiana possa davvero sostenersi solo con le esportazioni: manco fossimo l’Irlanda o la Svizzera.

Allora mi vado a cercare il grafico che fotografa il rapporto fra investimenti ed esportazioni e osservo che, fatto 100 il livello del 2008, l’export, dopo aver conosciuto un tonfo nel 2009, quando è sceso quasi a 75, non ha ancora, malgrado tutto, superato il livello 95, mentre gli investimenti sono in costante calo, orami sotto 75. Il famoso 27% in meno. E mi riesce difficile capire come potrebbe, un’economia che non investe, recuperare quote di export.

Ma è di sicuro un mio limite. A meno che, certo, non si pensi di migliorare l’export netto semplicemente contraendo la domanda interna. La qualcosa sarebbe vagamente suicida, in un momento deflazionario come quello che stiamo vivendo, con una disoccupazione al 12,3%, cui bisognerebbe aggiungere un altro 2% di lavoratori non ricompresi delle statistiche, e la considerazione che abbiamo una disoccupazione di lungo termine al 58%, 20 punti sopra la meda Ocse.

A fronte di questi dati sul lavoro, abbiamo che i salari nominali sono aumentati dell’1,4%, nel primo quarto del 2014, che significa un incremento reale dello 0,9%. “L’esperienza di altri paesi indica che riprendersi da una bassa inflazione con salari crescenti è più probabile generi disoccupazione”, osserva il Fmi. Ciò sembra voler implicare o un ulteriore peggioramento della disoccupazione o una decisa diminuzione del salari.

Ma soprattutto, un’economia export-led dovrebbe poter contare su un sistema finanziario robusto per sostenere la produzione di merci a basso costo, come insegna la ricetta mercantilista. E invece le nostre banche, oltre ad essere gravate dalle sofferenze interne, soffrono di una notevole esposizione verso i paesi centro-orientali che le rende particolarmente vulnerabili a scossoni di quell’area geografica, come mostra con chiarezza il caso russo-ucraino.

Il Fmi ci ricorda che che oltre ad essere esposti a shock sul versante energetico, visto che importiamo l’80% del nostro fabbisogno, e ai relativi prezzi – un incremento del costo del 15-20% potrebbe far salire lo spread di 100 punti base – lo siamo anche sul versante finanziario, con esposizioni bancarie nell’ordine del 3% del Pil e di investimenti diretti per un altro 1%.

So what? “Ritardi nell’azione politica nazionale, o nelle riforme Ue, o grandi sorprese negative nell’asset quality review (della Bce, ndr) possono minare la fiducia e spingere l’Italia in un brutto equilibrio. E in quanto terzo mercato più grande dei bond sovrani, il contagio esterno potrebbe essere notevole”. Tale contagio inizierebbe propagandosi tramite gli altri PIGS, quindi Portogallo, Irlanda e Spagna e poi, da lì in poi, l’unico limite sarebbe la fantasia.

E così veniamo al punto. Abbiamo seminato obbligazioni pubbliche in mezzo mondo e adesso dobbiamo sostenerne la credibilità, pena un grave e doloroso redde rationem globale. “Rapidi progressi nell’agenda delle riforme potrebbero migliorare la fiducia e l’attività economica, rinforzandosi l’una con l’altra”, ci ricorda il Fmi.

Dobbiamo fare le riforme perché il resto del mondo continui a comprare il nostro debito, visto che siamo seduti sulla bomba che potrebbe far saltare la montagna di capitale fittizio generata in questi anni.

Dobbiamo quantomeno dire che le stiamo facendo e che vogliamo continuare a farle, visto che ancora, come nota il Fmi, le riforme sul mercato e sui prodotti non si vedono.

Al buon cuore del Fmi aiutarci a scriverne l’agenda. Il Fondo ci suggerisce anche le misure da adottare qualora si verificasse lo scenario di un drammatico calo di fiducia: costruire dei buffer fiscali aumentando l’avanzo primario, assicurare il rispetto delle fiscal rule, quindi la regola del debito del fiscal compact, per far aumentare la credibilità, e, dulcis in fundo, “attivare l’OMT se necessario”.

Ricordo ai non appassionati che l’OMT è il programma della Bce che prevede l’acquisto di bond di uno stato sovrano sul mercato secondario a fronte di chiari e certificati impegni dello Stato nazionale a fare “tutto ciò che è necessario”, per citare il nostro governatore della Bce.

Per la cronaca l’attivazione dell’OMT da parte della Bce prelude al coinvolgimento del Fmi, qualora sia necessario un supporto finanziario.

Arriviamo così ai due terzi della Troika. Manca giusto la Commissione europea e poi il gioco è fatto.

Se il mondo si convincerà che i nostri debiti sono più pericolosi del tollerabile, ci manderà la Troika. Intanto, grazie al Fmi, ci ricorda cosa ci aspetta.

Il governo italiano, qualunque esso sia, seguirà.