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Il Fondo monetario europeo? C’è già


Nel lungo e difficile lavoro di scavo che ho intrapreso alla ricerca della radice del nostro agire economico m’imbatto nello statuto del Fondo monetario internazionale che, come tanti, conosco per sentito dire non avendolo mai letto né tantomeno meditato.

Come tanti, leggo parecchie cose sul Fmi, trascurando però di approfondire quelli che sono i compiti e i poteri che lo statuto gli affida. E poiché credo che non ci si imbatta mai a caso in qualcosa, mentre si scava alla ricerca di qualcos’altro, decido di armarmi dell’ormai collaudata santa pazienza e comincio a leggerlo questo misconosciuto statuto: in fondo sono solo una settantina di pagine e poi ho letto di peggio.

Comincio dagli scopi, che qui riproduco per vostra comodità. All’articolo 1 lo statuto prescrive che il Fmi deve “promuovere la cooperazione monetaria internazionale attraverso un’istituzione permanente che mette a disposizione un meccanismo di consultazione e collaborazione per quel che riguarda i problemi monetari internazionali; facilitare l’espansione e la crescita equilibrata del commercio internazionale e contribuire così ad istaurare e mantenere elevati livelli di occupazione e di reddito reale e a sviluppare le risorse produttive di tutti gli Stati membri, obiettivi principali della politica economica; promuovere la stabilità dei cambi, mantenere tra gli Stati membri dei regimi di cambio ordinati ed evitare svalutazioni competitive dei tassi di cambio; aiutare a stabilire un sistema multilaterale di pagamenti relativi alle transazioni correnti tra gli Stati membri e ad eliminare le restrizioni valutarie che limitano la crescita del commercio internazionale; assicurare agli Stati membri, prendendo le opportune cautele, la disponibilità temporanea di risorse del Fondo, fornendo loro in tal modo la possibilità di correggere squilibri nelle loro bilance dei pagamenti, senza dover ricorrere a misure che rischierebbero di compromettere la prosperità nazionale o internazionale; conformemente a quanto sopra, ridurre la durata e l’ampiezza degli squilibri delle bilance dei pagamenti degli Stati membri”.

Il resto dello statuto è dedicato a questioni di ordine tecnico, prescritte allo scopo di attuare quanto previsto dall’articolo 1, frutto di ultradecennali incontri fra i partecipanti al Fondo e che qui possiamo sorvolare, concentrandoci sullo scopo più evidente di questa entità: contribuire al riequilibrio globale intervenendo, se necessario, con prestiti condizionati alle economie in disordine.

Tale nobile fine mi torna in mente mentre sfoglio cronache, anche recenti, che auspicano la creazione, nell’eurozona, di un fondo monetario europeo che dovrebbe, secondo i sostenitori, sostituire la troika Fmi, Bce e Commissione Ue, nella gestione degli affari nostri.

Senonché non serve essere fini analisti per comprendere un’evidenza ormai palese: in Europa, e segnatamente nell’eurozona, il Fondo monetario europeo c’è già, ed è stato creato surrentiziamente, come la gran parte delle attività che agiscono nella nostra economia, sommando le competenze della Bce, da una parte e del fondo Esm, dall’altra. Queste due entità agiscono sostanzialmente in tandem, come si è potuto osservare nelle varie crisi che hanno colpito alcuni paesi dell’eurozona.

Se dagli scopi del Fmi espungiamo quelli legati alla stabilità delle valute fra gli stati membri, che nel caso dell’eurozona vengono vanificati dall’adozione della moneta unica, possiamo notare che il fine di “aiutare a stabilire un sistema multilaterale di pagamenti relativi alle transazioni correnti tra gli Stati membri” viene assicurato dal sistema Target 2, gestito dalla Bce, mentre quello di “assicurare agli Stati membri, prendendo le opportune cautele, la disponibilità temporanea di risorse del Fondo” è il compito del fondo Esm, che ormai si connota per l’ampiezza delle sue risorse, 80 miliardi di capitale già versato su un capitale assegnato di 700 miliardi, capaci di generare prestiti per 500 miliardi, e per la pesante condizionalità che l’erogazione di tali prestiti porta con sé.

Ma c’è di più. Pochi giorni fa il fondo Esm ha signato un accordo con la  Nordic Investment Bank (NIB), una banca d’affari e di sviluppo pubblica posseduta da otto stati dell’Europa del nord: Danimarca, Norvegia, Svezia, Finlandia, Islanda, Estonia, Lettonia e Lituania. Tale accordo, che prevede collaborazioni e consultazioni istituzionale fra le due entità, segue quello di marzo con la European Bank for Reconstruction and Development (Bers), sostanzialmente siglato per gli stessi fini. Ma soprattuto rivela la visione ormai nordica, e quindi baltica, che la finanza europea è in procinto di sviluppare.

Di fatto il Fondo Esm è diventata un’entità che travalica i confini dell’eurozona, capace quindi di dialogare con la vera lingua franca del nostro tempo, ossia la finanza, con altre entità che si propongono gli stessi fini: sostenere lo sviluppo e i paesi in crisi con politiche mirate e strettamente condizionate. Ciò replica in sostanza quello che la Bce si propone di fare grazie al’attivazione del processo di Unione Bancaria che, lo ricordo, concede anche a stati membri dell’Ue di aderire alla supervisione unificata pure se non aderenti alla moneta unica.

Qualcuno penserà che mi stia abbandonando alle speculazioni, e forse ha ragione. Rimane il fatto che il fondo Esm riveste un’altra peculiarità che lo assimila definitivamente ai grandi organismi internazionali.

Il 18 marzo di quest’anno, infatti, il Comitato di Basilea che fissa le pratiche regolatorie cui tutte le giurisdizioni sono chiamate ad adeguarsi, quindi le varie versione Basilea II e III, ha deciso che le obbligazioni emesse dall’Esm debbano essere inserite nella lista delle entità che ricevono una pesatura del rischio pari a zero, e che possono essere considerate come asset di livello 1, high quality liquid asset (HQLA). In precedenza l’Eba, il 20 dicembre, 2013 aveva già espresso una raccomandazione di considerare gli asset dell’Esm altamente liquidi e con alto merito di credito.

A molti parrà un astruso tecnicismo, e difatti lo è. Ma ha un significato assai preciso: vuol dire che chi compra le obbligazioni che il fondo emette sulla base della propria dotazione di capitale non deve accantonare capitale di rischio. E quindi tali obbligazioni sono un ottimo investimento per le banche che le comprano, pure se al costo di rendimenti assai bassi.

Se volessimo approfondire ancora un po’ scopriremmo che a godere di tale considerazione, nelle regole di Basilea, sono davvero in pochi. L’articolo 56 dell’International convergence of capital measurement and capital standard rilasciato a Basilea nel 2006 statuisce infatti che la lista delle entità a rischio zero comprende solo la Bce, la Commissione europea (qualora un giorno si deciderà ad emettere obbligazioni) e, dulcis in fundo, proprio il Fondo Monetario Internazionale.

In sostanza, aldilà di ciò che dicono i trattati, l’Europa, a cominciare dall’eurozona dispone già di un meccanismo, pure se bicefalo, che non solo disciplina i pagamenti interni, ma interviene, potendo emettere obbligazioni che godono di trattamento regolamentare privilegiato, imprestando agli stati, sotto precisa e stringente condizionalità, per riportare in equilibrio le bilance dei pagamenti.

Detto ciò ripercorrere le cronache che almanaccano di istituendi fondi monetari europei è vagamente straniante. Ma in fondo è il solito gioco che amano fare gli europei: lasciar parlare i tanti, mentre pochi decidono.

La politica, d’altronde, si segnala per i suoi clamorosi ritardi. Scorrendo vecchi archivi ho ritrovato persino tracce di una discussione, dove si dà conto della decisione delle autorità europee di “consolidare gli accordi e le istituzioni esistenti in un Fondo monetario europeo”, oggetto di un seminario tenutosi a Ginevra sul finire del ’79, subito dopo quindi la nascita del sistema monetario europeo. Già da allora si rifletteva sulla necessità di creare per l’Europa un meccanismo di stabilizzazione gestito a livello europeo.

Adesso c’è. Solo che nessuno se n’è accorto.

 

 

 

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La crisi sta finendo (e un anno se ne va)


La crisi sta finendo, dice Andreas Dombret, algido banchiere della Bundesbank, che mi ha fatto venire in mente il glorioso refrain dei fratelli Righeira, mentre leggevo la sua allocuzione tenuta a Dallas il 15 aprile scorso (“The State of Europe: End of the crisis or crisis without end?)

L’estate sta finendo, cantavano quei due simpaticoni che non era neanche maggio. Dombret fa la stessa cosa: dice che la crisi sta finendo, piano piano piano.

Con un bel forse finale.

D’altronde non si può rimproverare al nostro un difetto di prudenza. Semmai un eccesso di piaggeria, quando ricorda che la Fed di Dallas viene considerata, per scrupolosità e saggezza, la Bundesbank americana. Oppure quando ricorda di sentirsi un po’ americano pure lui, visto che ha il doppio passaporto. Oppure quando, senza tema del ridicolo, dice che Dallas è stata sempre nel suo cuore, perché da ragazzino si pasceva pure lui delle disavvanture di J.R e Sue Ellen, eroi dell’omonima e celeberrima serie che spopolò negli anni ’80, tanto che adesso è stata pure riesumata. Sempre perché gli anni ’80 non finiscono mai.

Dal che ho dedotto che oltre ad avere un cuore, il nostro Dombret ha alle spalle un notevole vissuto emozionale inzuppato di sani principi capitalisti. Per cui la sua prudenza germanica, pure quando tratta con ruvidità una certa faciloneria negli eccessi finanziari statinitensi, mai si spinge fino al punto di sollevare dubbi circa il grado di parentela tedesco con i fratelli americani. Che sono forse chiassosi, un filino irresponsabili, ma comunque parenti, pure se alla lontana.

Germania e Stati Uniti si piacciono, insomma, e devono piacersi.

In questo connubio inestricabile, che i banchieri centrali tedeschi sono chiamati a gestire, e pure con una certa allegria, Dombret si muove con insospettabile grazia, parlando a nuora (l’eurozona) perché suocera (gli Usa) intenda. Neanche fosse italiano.

Vale la pena perciò scorrere rapidamente il suo intervento, anche perché ci fornisce un’interessante “inside view”, come la chiama, sullo stato attuale di casa nostra.

“La fine della crisi nell’euro area – dice – si avvicina sempre più, e, cosa più importante, la zona considerata nel suo insieme ha superato finalmente la recessione. Questa ripresa – sottolinea – non è soltanto guidata dai paesi “core”, come la Germania. Alcuni dei paesi colpiti dalla crisi hanno finalmente imboccato la strada per la ripresa e quelli che ancora non l’hanno fatto stanno iniziando a vedere la luce alla fine del tunnel“.

E ancora: “Gli sforzi per realizzare riforme strutturali stanno gradualmente dando frutti. La competitività è migliorata nei paesi periferici e per quasi tutti ormai, tranne che Cipro, si prevede una crescita dell’export quest’anno. Questi progressi si riflettono nel miglioramento dei saldi di conto corrente, che sono tornati positivi”.

Come ogni storia, anche quella narrata da Dombret si può raccontarla in tanti modi, dal lato della luce o da quello dell’ombra. Quindi non occorre stupirsi qualora tanto ottimismo contrasti con la vostra percezione della realtà. Ricordatevi che voi non siete banchieri centrali tedeschi, e che non state neanche parlando agli americani. E ricordate, soprattutto, che l’economia è uno splendido esercizio di retorica.

Che c’entra il fatto che l’uditorio sia statunitense? Chi ricorda le critiche americane dell’anno scorso alle politiche “egoiste” condotte dalla Germania, capirà subito perché Dombret osservi che “la Germania è parte di questa equazione di rebalancing”. “Dal 2007 – osserva – il saldo di conto corrente nei confronti dell’euro-area si è ridotto costantemente dal 4,5% del Pil al 2%. E poiché gli investimenti sono previsti in crescita quest’anno e il prossimo, questo rebalancing dovrebbe continuare”:

E fin qui siamo nel campo della contabilità internazionale. Dombret ha buon gioco nel ricordare che Spagna e Irlanda sono usciti dai programmi di assistenza dei fondi europei di stabilità, e che il Portogallo si prevede ne uscirà quest’anno. “Date un’occhiata alla Spagna – sottolinea – che è un paese di interesse per voi in Texas a causa della sua rilevanza per il Messico”. “La Spagna è in recessione – sottolinea – e ha un tasso di disoccupazione superiore al 25%. E tuttavia sta vendendo i suoi bond a dieci anni a un tasso del 3,29%, non troppo superiore a quello che pagano i bond americani. Questa è certamente una situazione nella quale si potrebbe cercare segni di esuberanza”.

Poi Dombret sposta il tiro sull’argomento che più gli sta a cuore, ossia il ruolo della politica monetaria, che in una filiale della Fed è come parlare di corda a casa dell’impiccato. “Alcuni osservatori – dice – propongono una politica monetaria più espansiva, spaventati come sono dai rischi di deflazione“. Ma, osserva Bundesbank e Bce concordano sul fatto che tale rischio “sembra essere limitato”.

Deflazione a parte, “possiamo osservare che la fine della crisi si avvicina”, anche se “ci sono ancora alcuni ostacoli che possono bloccare la strada. Alcuni li vediamo, altri no”. Fra questi la crisi Ucraina, anche se l’esposizione relativamente bassa delle banche europee, circa 23 miliardi, non suscita particolari preoccupazioni.

“Tuttavia dobbiamo tenere conto delle relazioni che la crisi ucraina ha con la Russia, e la rilevanza dell’economia russa, molto più grande“. Ma soprattutto, “un ostacolo conosciuto è il prolungato periodo di tassi bassi”.

A questo punto ai banchieri centrali americani devono aver fischiato le orecchie. Tanto che Dombret si è affrettato a precisare: “Non fraintendetemi: lo stato corrente della politica monetaria è certamente adeguato, e tuttavia quando i tassi stanno a un livello basso per un periodo di tempo prolungato si possono sperimentare effetti non voluti”. Fra questi Dobret ricorda che gli investitori possono essere spinto a cercare più rischi per avere rendimenti più elevati “e in effetti sembra che questo stia accadendo”.

In particolare Dombret si preoccupa del mercato immobiliare, dove “un forte recupero registrato in alcune aree dell’eurozona ci fa pensare”. “Credo – sottolinea vagamente minaccioso – che tutti noi ricordiamo cosa accadde dopo che esplose la bolla nel mercato immobiliare americano nel 2007”.

A questo punto il fischio nelle orecchie dei banchieri americani devve essersi fatto persistente.

Ma sempre in omaggio alla buona creanza, Dombret parla di casa sua. “Nel mercato delle abitazioni in Germania – spiega – fra il 2009 e il 2012 i prezzi nelle grandi città sono saliti di quasi il 25% e nel 2013 di un altro 8,9%. I calcoli della Bundesbank ci fanno parlare si sopravvalutazioni in alcune aree urbane. Ma se guardiamo nell’insieme, la crescita nel 2013 è stata solo del 4,5%, un livello che non dà tante ragioni di preoccupazione. Ma per me i campanelli d’allarme cominceranno a suonare non appena una rapida crescita dei prezzi delle case sarà accopmagnata da una crescita altrettanto significativa dei prestiti. Ancor di più se tale crescita è accompagnata da un calo degli standard di tali prestiti. Al momento tuttavia questa campane non hanno iniziato a suonare”.

Poi c’è la questione dei mercati azionari. “Nel 2013, molti mercati sono soltanto cresciuti: l’EuroStoxx 50 del 18%, l’FTSE 100 del 14%, il Dow Jones del 28% e il Nikkei di quasi il 57%, e in più è diminuita ache la volatilità”.

Ce n’è abbastanza per temere che siamo entrati in una nuova fase di “esuberanza irrazionale”?

Se ne può discutere, dice Dombret. Ma certo, spiega, i mercati stanno scontando i futuri miglioramenti dei fondamentali economici, forti della convinzioni che i governi faranno tutto ciò che serve per irrobustire la crescita. Ma se così non fosse, avverte, “si può creare un ampio spazio per uno shock da fiducia”, che è un modo elegante per dire che i rialzi possono trasformarsi in repentini ribassi.

Ma soprattutto, tenere i tassi bassi a lungo può generare un effetto psicologico deleterio. Ossia proprio il non fare tutto ciò che è necessario, quindi rimandare gli aggiustamenti. “Le riforme devono continuare a livello nazionale e a livello europeo”.

Fra questi ultimi primeggia il progetto di Unione Bancaria, di recente approvato dal Paramento europeo, che dovrebbe contribuire a risolvere questioni complesse come quella delle banche troppo grandi per fallire.

Dopo una lunga analisi del perché e del percome dell’Unione bancaria, Dombret affronta il problema che più di tutti sta a cuore dei nostri banchieri centrali: il finanziamento dell’economomia. E qui tornano a far capolino gli ABS che, ricorda, nel caso europeo si sono dimostrati più resilienti di quelli americani.

La conclusione è addirittura edificante: “Tornare alla prosperità economica e alla stabilità finanziaria richiede politiche orientate alla stabilità finanziaria. E poi serve una mutua e confidente cooperazione, qualità che viene promossa da istituzioni come l’American council of Germany”. Quindi è inutile che vi spieghi fra chi.

“Così facendo mi auguro che finalmente arriveremo alla fine di una crisi che sembra senza fine”, conclude.

La crisi sta finendo, insomma.

Prima o poi.

Supercazzole berlinesi con scappellamenti lussemburghesi


Nello splendido mondo del diritto, dove si può dire tutto e il suo contrario, la sentenza della Corte costituzionale tedesca sul fondo Esm, che segue di un mesetto quella sulla legittimità dell’OMT di Mario Draghi si iscrive d’ufficio nell’affollato universo delle supercazzole: c’è scritto di tutto e quindi può piacere a tutti. Ma (per ora) non serve a niente. O meglio: serve a ribadire che la politica Ue è in qualche modo subordinata a quella degli stati nazionali, in particolare di quello tedesco.

Talché ormai non è esagerato parlare di genere: nelle supercazzole dei giudici berlinesi si scrive peste e corna delle decisioni sovranazionali, salvo poi, alla fine dei conti, bocciare chi ad esse si oppone o, come nel caso dell’OMT, passare il cerino ad altri.

E tuttavia, nelle lunghe declaratorie delle Corte berlinese chiunque può trovarci quello che più gli abbisogna: i nazionalisti esasperati, i banchieri della Bundesbank, gli alfieri dell’integrazione europea. I giudici di Berlino hanno una buona parola per tutti. Addirittura, in calce alla decisione sull’Omt, c’è anche il parere di due giudici che, sostanzialmente, accusano la Corte di essersi fatta carico di una decisione che non le competeva. Il che aggiunge un’altra categoria alle già numerose che si abbeverano alla sapienza costituzionale tedesca: quella degli incompetenti.

Se poi avete voglia di spendere un poo’ di tempo e leggere l’ultima supercazzola berlinese, quella sull’Esm, leggerete una roba del genere: “Il Bundestag non può acconsentire ad un garanzia automatica intergovernativa o sovranazionale che non è soggetta a rigorosi requisiti e i cui effetti non sono limitati, e che una volta che è stato messo in moto viene rimosso dal controllo e dall’influenza Bundestag”.

Capito l’antifona? D’altronde già altrove la Corte aveva osservato che “la responsabilità sul budget del Bundestag è in particolare violata dal fatto che il trattato Esm stabilisce un’obbligazione sovranazionale per consentire possibili incrementi di capitale”.

In sostanza, se la Germania un domani dovesse essere chiamata a contribuire a un ricapitalizzazione dell’Esm, prima deve essere autorizzata dal Bundestag che, ricorda la Corte berlinese, è l’unico titolare democraticamente legittimato a spendere i soldi dei tedeschi. La qualcosa, alle orecchie più attente, non può che suonare come un triste de profundis sulle speranze di una politica di bilancio sovranazionale. Se un eventuale ministro del bilancio europeo deve chiedere prima al Bundestag se può spingere il pedale  della spesa capite bene che, di fatto, una eventuale politica fiscale sovranazionale è condizionata al via libera del parlamento tedesco.

Epperò, alla fine di una lunga analisi, la Corte boccia il ricorso, che peraltro riguardava anche il vari trattati “fiscali” e addirittura il sistema Target 2, beccandosi un robusto scappellamento lussemburghese da parte dell’Esm che risiede nel granducato, proprio come la Corte di giustizia chiamata, sempre dalla corte berlinese, a decidere le sorti dell’Omt, sul quale, sempre i igiudici tedeschi hanno scritto peste e corna prima di scappellarsi, stavolta loro, ai giudici sovranazionali.

Conclusione: il fondo salva stati va bene, ma nei limiti dei suoi 700 miliardi finora fissati come capitale di massima, ai quali la Germania potrà contribuire entro i limiti dei 190 miliardi approvati dal Bundestag. Che è un modo elegante di dire che il futuro delle politiche europee è strattamente in mano dei dei politici tedeschi.

Altro che cessione di sovranità.