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L’OMT che non funziona: quello dell’Ue
Viviamo in un’epoca densa di acronimi, scorciatoie linguistiche che sottintendono marchingegni indigeribili o entità istituzionali, che costringono i lettori della reportistica internazionale a defatiganti esercizi di memoria per non perdere il filo e che denotano l’estrema complessità del nostro agire socio-economico, ormai appannaggio di impenetrabili burocrazie che decidono del nostro destino.
Sicché comprenderete perché, mentre sfogliavo l’ultimo bollettino della Bce, cadendomi l’occhio sulla sigla OMT ho subito pensato al celeberrimo (per modo di dire) Outright Monetary Transactions di cui la Bce si è fatta promotrice nel lontano 2012 per provare a raddrizzare le sorti della moneta unica, pericolosamente scricchiolanti, e che ha condotto a svariati giudizi di diverse corti, fra le quali di recente quello della Corte di giustizia europea.
Invece mi sbagliavo. L’OMT di cui parlava la Bce era la versione italiana di obiettivo di medio termine, ossia, per stesso riconoscimento della Bce, “il pilastro del meccanismo preventivo del PSC”. Il PSC, vi ricordo, è il patto di stabilità e di crescita, introdotto e poi riformato nel 2005, quando si introdusse proprio l’OMT per renderlo ancor più cogente ed effettivo.
Poiché la giungla burocratica europea è particolarmente fitta, credo di fare un buon servizio ricordando cosa sia l’OMT e come funzioni. Anche perché il Consiglio Europeo rilascerà al termine della seduta del 25 e 26 giugno le raccomandazioni di politiche fiscali ai singoli paesi, che proprio dall’andamento dell’OMT (ogni paese ne ha uno) traggono ispirazione.
Comincio da una semplice constatazione che riporto dal bollettino: “Per quanto riguarda il conseguimento degli OMT i risultati ottenuti sono scarsi”, scrive la Bce, confermando ancora una volta che la vocazione che più di ogni altra i paesi europei condividono è quella all’indisciplina.
Ricordo che l’OMT viene definito in termini strutturali, ossia corretto per il ciclo economico e le misure temporanee. Una volta che viene fissato, viene aggiornato ogni tre anni, come l’Ageing report che all’OMT fornisce la base previsionale. Il maccanismo prevede che tutti i paesi compiano progressi annuali verso il proprio OMT fino a raggiungerlo. Dopodiché devono fare in modo di mantenerlo, avendo cura di accumulare surplus nelle fasi di congiuntura positiva per utilizzarlo in quelle negative. Insomma: il solito migliore dei mondi possibili.
Se non fosse che c’è sempre una scappatoia. “Il meccanismo preventivo – spiega la Bce – consente di deviare temporaneamente dall’OMT di un paese, o dal percorso di aggiustamento adottato per raggiungerlo, per tenere conto dell’attuazione di importanti riforme strutturali che hanno effetti diretti positivi e duraturi sui conti pubblici, purché il paese torni a perseguire l’OMT entro i termini previsti dal programma di stabilità”.
Ma poiché non c’è nulla di più definito del provvisorio, ecco che la scappatoia ha consentito in questi dieci anni una notevole evasione di massa dalle regole che pure i paesi del PSC si erano dati.
Il consuntivo, infatti, lascia poco spazio all’immaginazione. “Anche se gli OMT sono parte del quadro fiscale dell’UE oramai da dieci anni, gran parte dei paesi non hanno raggiunto tali obiettivi in alcun anno durante tale orizzonte temporale. Inoltre, i paesi dell’area dell’euro hanno regolarmente rinviato le scadenze per il loro conseguimento, facendo degli OMT un “obiettivo che si sposta nel tempo”, nota la Bce.
“Di conseguenza, – sottolinea – l’area dell’euro ha affrontato la crisi finanziaria con un consistente disavanzo strutturale, che ha limitato la portata delle politiche anticicliche e ha impedito il libero funzionamento degli stabilizzatori automatici”.
Il bello è che il sostanziale fallimento del meccanismo dell’OMT non ha scoraggiato i nostri politici europei, che anzi, nel 2011, hanno pensato bene di rafforzarlo, individuando con la riforma del six pack, anche la possibilità di sanzioni finanziarie per chi viene beccato a sforare.
Non contenti, nel 2012 hanno approvato il Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’Unione economica e monetaria, che rende ancora più ambizioso l’OMT e ha consentito alla commissione di presentare, un anno dopo, il quadro temporale di convergenza, ossia il periodo di tempo per il conseguimento dell’OMT entro un dato anno da parte di ciascun paese. Con l’aggravante di un meccanismo automatico di sanzione che dovrebbe attivarsi qualora il paese non raggiunga il suo OMT.
Malgrado tutta questa fatica “le evidenze disponibili suggeriscono che l’osservanza degli OMT non è migliorata
significativamente negli ultimi anni”, sottolinea Francoforte. “In particolare, le scadenze degli OMT fissate nei programmi di stabilità del 2015 sono per un gran numero di paesi posticipate rispetto a quelle stabilite dal quadro temporale per la convergenza del 2013. La comunicazione della Commissione sulla flessibilità nell’ambito del PSC pubblicata all’inizio dell’anno potrebbe comportare un rallentamento dei progressi compiuti dai paesi verso gli OMT”.
Flessibilità, ossia parola alquanto fumosa che sostanzialmente trasforma in un fatto politico ciò che doveva essere squisitamente tecnico. Con l’aggravante che “se esercitata in eccesso, la flessibilità del PSC può determinare ulteriori deviazioni significative e durature dal percorso di aggiustamento verso l’OMT, aggravando eventualmente i rischi relativi alla sostenibilità del debito”.
Perciò la Bce esorta ad “evitare la “sindrome dell’obiettivo che si sposta nel tempo” di cui ha sofferto il meccanismo preventivo del PSC prima della crisi”. “Se i paesi dell’area dell’euro non riusciranno a ricostituire tempestivamente risorse di bilancio di riserva, saranno impreparati a fronte degli shock economici, proprio nel momento in cui la stabilizzazione fiscale è più necessaria”.
Mi risuonano nella memoria, mentre leggo queste memorie, infinite litanie di occasioni perdute, di dividendi sprecati, di leggerezza da cicale quando servirebbe la compostezza delle formiche: echi di cronache ormai ultradecennali che dovrebbero averci insegnato come sia umanamente impossibile contare sulla frugalità dei governi quando le cose vanno bene, essendo già difficile convincerli a stringere la cinghia quando vanno male.
Ma non è questo che mi stupisce, mentre leggo del fallimento dell’OMT. Quello che mi colpisce è che una legge europea, scritta dieci anni fa e sempre applicata a parole, non abbia raggiunto nessun risultato, visto che la disciplina fiscale europea ancora traballa. Mentre l’altro OMT, quello di Draghi, pronunciato e mai utilizzato, sia servito a stabilizzare l’euro nel suo momento peggiore.
Secondo voi che significa?
Prove generali di Troika sull’economia (politica) italiana
Leggo a un certo punto, nell’ultimo Staff report del Fmi dedicato all’Italia, che “un rallentamento nella crescita globale o ulteriori perdite di competitività potrebbero far deragliare la ripresa export-led”, ossia guidata dalle esportazioni. E finalmente trovo qualcosa di nuovo, per non averlo già letto nei numerosi peana che ci infligge la stampa nazionale che tanto alimentano anche quella internazionale.
La novità, poi, non è tanto che la nostra ripresa sia, o almeno tutti si aspettano che sia, export-led, ma che finalmente leggo il sottinteso degli ultimi due anni scritto a chiare lettere nei documenti di un organismo internazionale che, giocoforza, finirà col diventare l’agenda della nostra vita politica.
Volete un paio di prove?
Il Fmi scrive che un contratto a tutele crescenti aiuterebbe il mercato del lavoro.
Il Fmi scrive che bisogna riformare la giustizia civile.
Entrambi i temi sono entrati nell’agenda della nostra vita politica.
Ora, il punto non è tanto se tali esortazioni siano giuste o sbagliate. Il punto è che dobbiamo, come Paese, farci i conti, perché abbiamo troppi debiti da farci finanziare da gente che i rapporti del Fmi li legge, a differenza di quanto succede in Italia.
Detto ciò, scoprire che il nostro paese sta sperimentando una ripresa, che però ancora non si vede, export-led, implica che dobbiamo puntare sul commercio estero per uscire dalle secche della nostra depressione, esattamente come hanno fatto gli altri PIIGS. E al tempo stesso che dovremmo fare i conti con un robusto consolidamento fiscale per continuare a garantire la sostenibilità del debito.
Ma anche questo lo sapevamo già.
E tuttavia vale la pena leggerlo, questo rapporto, perché ci ricorda alcune cose che il nostro dibattito pubblico tende a sottovalutare, purtroppo.
La prima è che i nostri tassi reali, a causa dell’inflazione declinante, orbitano intorno al 3%: solo la Spagna paga il denaro più di noi, quotandosi il tasso iberico sui prestiti intorno al 3,5%. Vale la pena sottolineare che tale tasso reale, che poi è quello che ci dice sulla sostenibilità dei nonstri debiti, pubblici e privati, era di poco superiore allo 0,5% ancora a settembre 2010 ed è persino diminuito fino al terzo trimestre del 2012, quando ha iniziato, inesorabile, la sua salita.
Quelli che festeggiano il ribasso dello spread, insomma, dovrebbero pure ricordare che è vero, come ci ricorda sempre il Fmi, che è diminuito di 320 punti base dal picco del 2011. Ma è altresì vero che nel 2011 pagavamo un tasso reale sui prestiti inferiore allo 0,5%, mentre adesso siamo decollati al 3%. Colpa del crollo dell’inflazione, certo. Ma, come diceva Totò, è il totale che fa la somma.
Avere tassi reali così alti, a parte danneggiare i conti pubblici, mette a repentaglio quelli privati, a cominciare da quelli corporate. Il Fmi osserva con una certa preoccupazione il livello raggiunto dai non performing loan (NPLs), ossia i crediti in sofferenza presso le banche, e nota che con sistema bancario che deve fare i conti con questa situazione è estremamente difficile far ripartire gli investimenti, autentico tallone d’achille del sistema italiano, ancora sotto del 27% rispetto al livello pre crisi.
Ne sia prova il fatto che le risorse che il governo ha destinato al pagamento dei debiti della PA, circa l’1,6% del Pil al momento in cui scrive il Fmi, non sono state usate dalle imprese per investire, ma per ripagare i debiti. In sostanza, è come se il pagamento dei debiti della Pa sia servito direttamente alle banche e indirettamente al Paese.
Ma poiché dovremmo scommettere sulla ripresa export-led, giova pure sottolineare un altro punto. “La combinazione fra una domanda interna debole e un miglioramento della crescita globale – scrive il Fmi – ha condotto a una diminuzione degli squilibri esteri italiani e a un modesto surplus di conto corrente nel 2013”. Addirittura, “la quota di export globale dell’Italia è aumentata per la prima volta dal 2013”.
Dev’esser questo, mi dico, ad aver generato l’equivoco. Il pensiero voglio dire che un’economia grande come quella italiana possa davvero sostenersi solo con le esportazioni: manco fossimo l’Irlanda o la Svizzera.
Allora mi vado a cercare il grafico che fotografa il rapporto fra investimenti ed esportazioni e osservo che, fatto 100 il livello del 2008, l’export, dopo aver conosciuto un tonfo nel 2009, quando è sceso quasi a 75, non ha ancora, malgrado tutto, superato il livello 95, mentre gli investimenti sono in costante calo, orami sotto 75. Il famoso 27% in meno. E mi riesce difficile capire come potrebbe, un’economia che non investe, recuperare quote di export.
Ma è di sicuro un mio limite. A meno che, certo, non si pensi di migliorare l’export netto semplicemente contraendo la domanda interna. La qualcosa sarebbe vagamente suicida, in un momento deflazionario come quello che stiamo vivendo, con una disoccupazione al 12,3%, cui bisognerebbe aggiungere un altro 2% di lavoratori non ricompresi delle statistiche, e la considerazione che abbiamo una disoccupazione di lungo termine al 58%, 20 punti sopra la meda Ocse.
A fronte di questi dati sul lavoro, abbiamo che i salari nominali sono aumentati dell’1,4%, nel primo quarto del 2014, che significa un incremento reale dello 0,9%. “L’esperienza di altri paesi indica che riprendersi da una bassa inflazione con salari crescenti è più probabile generi disoccupazione”, osserva il Fmi. Ciò sembra voler implicare o un ulteriore peggioramento della disoccupazione o una decisa diminuzione del salari.
Ma soprattutto, un’economia export-led dovrebbe poter contare su un sistema finanziario robusto per sostenere la produzione di merci a basso costo, come insegna la ricetta mercantilista. E invece le nostre banche, oltre ad essere gravate dalle sofferenze interne, soffrono di una notevole esposizione verso i paesi centro-orientali che le rende particolarmente vulnerabili a scossoni di quell’area geografica, come mostra con chiarezza il caso russo-ucraino.
Il Fmi ci ricorda che che oltre ad essere esposti a shock sul versante energetico, visto che importiamo l’80% del nostro fabbisogno, e ai relativi prezzi – un incremento del costo del 15-20% potrebbe far salire lo spread di 100 punti base – lo siamo anche sul versante finanziario, con esposizioni bancarie nell’ordine del 3% del Pil e di investimenti diretti per un altro 1%.
So what? “Ritardi nell’azione politica nazionale, o nelle riforme Ue, o grandi sorprese negative nell’asset quality review (della Bce, ndr) possono minare la fiducia e spingere l’Italia in un brutto equilibrio. E in quanto terzo mercato più grande dei bond sovrani, il contagio esterno potrebbe essere notevole”. Tale contagio inizierebbe propagandosi tramite gli altri PIGS, quindi Portogallo, Irlanda e Spagna e poi, da lì in poi, l’unico limite sarebbe la fantasia.
E così veniamo al punto. Abbiamo seminato obbligazioni pubbliche in mezzo mondo e adesso dobbiamo sostenerne la credibilità, pena un grave e doloroso redde rationem globale. “Rapidi progressi nell’agenda delle riforme potrebbero migliorare la fiducia e l’attività economica, rinforzandosi l’una con l’altra”, ci ricorda il Fmi.
Dobbiamo fare le riforme perché il resto del mondo continui a comprare il nostro debito, visto che siamo seduti sulla bomba che potrebbe far saltare la montagna di capitale fittizio generata in questi anni.
Dobbiamo quantomeno dire che le stiamo facendo e che vogliamo continuare a farle, visto che ancora, come nota il Fmi, le riforme sul mercato e sui prodotti non si vedono.
Al buon cuore del Fmi aiutarci a scriverne l’agenda. Il Fondo ci suggerisce anche le misure da adottare qualora si verificasse lo scenario di un drammatico calo di fiducia: costruire dei buffer fiscali aumentando l’avanzo primario, assicurare il rispetto delle fiscal rule, quindi la regola del debito del fiscal compact, per far aumentare la credibilità, e, dulcis in fundo, “attivare l’OMT se necessario”.
Ricordo ai non appassionati che l’OMT è il programma della Bce che prevede l’acquisto di bond di uno stato sovrano sul mercato secondario a fronte di chiari e certificati impegni dello Stato nazionale a fare “tutto ciò che è necessario”, per citare il nostro governatore della Bce.
Per la cronaca l’attivazione dell’OMT da parte della Bce prelude al coinvolgimento del Fmi, qualora sia necessario un supporto finanziario.
Arriviamo così ai due terzi della Troika. Manca giusto la Commissione europea e poi il gioco è fatto.
Se il mondo si convincerà che i nostri debiti sono più pericolosi del tollerabile, ci manderà la Troika. Intanto, grazie al Fmi, ci ricorda cosa ci aspetta.
Il governo italiano, qualunque esso sia, seguirà.
Esercizi di retorica sul DEF: l’invenzione del deficit strutturale
Compulsare i vari documenti che le istituzioni stanno producendo per partecipare al grande rito collettivo del DEF è altamente istruttivo. L’evento economico assume un significato sociale che finalmente trascende la sua miseria contabile per assurgere alla dimensione di ciò che è autenticamente il Documento di economia e finanza: un pregevole esercizio retorico che si nutre di congetture economiche al solo fine di sostanziare un’azione politica di governo.
Che ciò sia il DEF, pochi dovrebbero dubitarne.
Stupefacente invece è la constatazione, che ho tratto leggendo le opinioni sul Def dell’Istat, della Banca d’Italia e della Corte dei Conti, di quanto profondo sia tale congetturare.
E, peggio ancora, che tali congetture non si limitino alle stime sul dati del futuro, come pure sarebbe lecito pensare, ma siano inerenti al dato stesso, ossia alla sua costruzione statistica.
Di cosa parliamo, insomma, quando ci riempiamo la bocca e la testa di deficit, indenitamento netto, o, peggio ancora, indebitamento strutturale?
Tecnicamente parliamo di convenzioni statistiche. Non dati oggettivi, quindi, come uno potrebbe pensare, ma costruzioni numeriche discutibili.
In alcuni casi molto discutibili.
Relativamente ai casi nostri, la vicenda del DEF ha un portato di politica, interna e internazionale, che è saggio non sottovalutare. Il governo infatti, nella persona del ministro dell’Economia, ha impugnato la penna e scritto una bella letterina a mamma Commissione Ue per chiedere di poter derogare di un anno il pareggio strutturale di bilancio, che era previsto per il 2015 e invece si propone per il 2016.
Nel 2015, infatti, il deficit strutturale sarà allo 0,1%, e non a zero come aveva assicurato il governo Letta a settembre scorso a fronte di una variazione strutturale in aggiustamento pari allo 0,5% del Pil. Tale deroga dovrà essere approvata dal nostro Parlamento e poi dalle autorità europee.
Tutto questo per un decimo di punto? E che sarà mai?
E invece pesa, perché l’Italia ha un Obiettivo di Medio Termine (OMT) concordato con la Commissione europea che prevedeva, fra le altre cose l’azzeramento del deficit strutturale entro il 2015.
A questo punto le varie tifoserie si saranno scatenate. Solo pochi ficcanaso si sono posti la domanda: ma il deficit strutturale cos’é?
Gli appassionati del genere sanno che il deficit strutturale corrisponde al deficit netto corretto per gli effetti del ciclo economico e delle misure straordinarie. Per dirlo con le parole della Corte dei conti, tratte dall’audizione sul DEF, “l’intento è quello di isolare le variazioni del saldo di bilancio che sono indotte automaticamente dalle oscillazioni del ciclo economico e che, quindi, non possono essere attribuite all’azione discrezionale dei governi”.
In sostanza, il deficit strutturale è un indice della scelleratezza fiscale governativa. E ciò spiega bene perché a Bruxelles ci tengano in tal modo. Tanto più è alto, tanto più il governo non fa il suo dovere: questo è il senso.
Definito l’oggetto, rimane ancora senza risposta la vera domanda: come si calcola una roba del genere?
Deve esser chiaro che rispondere a questa domanda significa credere che sia possibile una risposta sensata. Che nel gergo economico significa una risposta oggettiva e misurabile oggettivamente.
Purtroppo così non è: il calcolo del deficit strutturale è l’ennesimo esercizio di retorica tramite il quale una decisione politica viene camuffata da dato economico che, di conseguenza, genera un’azione politica conseguente.
Penserete che sto esagerando. Ma non dovete ascoltare me, che non so niente. Ascoltate la Corte dei Conti: “La logica sottostante l’adozione di obiettivi di indebitamento strutturale, tesa a sanzionare l’eventuale utilizzo di misure pro-cicliche, si scontra però con un problema di fondo: la non osservabilità dell’indebitamento strutturale”.
Detto in altre parole, non essendo osservabile non dovrebbe esistere.
Perciò si inventa.
“All’inconveniente (la non osservabilità, ndr) si sopperisce mediante l’utilizzo di particolari tecniche statistiche finalizzate a distinguere, all’interno della serie storica del saldo di bilancio, la componente ciclica da quella strutturale”, spiega la Corte, sottolineando però che “queste tecniche possono tuttavia condurre a risultati non univoci e anche fortemente divergenti fra loro a causa dell’ampio ventaglio di ipotesi preliminari che può essere assunto”.
Quindi non solo l’indebitamento strutturale, che decide il nostro futuro, non esiste, ma la sua invenzione sottostà a regole inventate sulle quali non c’è nemmeno concordia, e che potrebbero dare risultati molto diversi fra loro.
La Corte si spinge in avanti e illustra proprio il caso italiano. Da noi “le misurazioni proposte dalla Commissione europea, che individuano la persistenza nel 2014 e l’ampliamento nel 2015 del deficit strutturale, solleciterebbero il Governo all’adozione di misure correttive, laddove un calcolo alternativo del saldo strutturale su dati OCSE indicherebbe, per lo stesso periodo, una situazione di avanzo”.
Avete capito bene: per la Commissione abbiamo un disavanzo strutturale, che dipende dalla loro classificazione statistica dei dati. Se invece usassimo la classificazione Ocse saremmo in avanzo strutturale.
Tale differenza non pensa neanche poco. Nel grafico contenuto nel suo parere, la Corte mostra che nella misurazione svolta dalla Commissione Ue l’Italia ha un deficit strutturale dello 0,6% sul Pil, circa 9 miliardi, che rimane costante nel 2014, per arrivare allo 0,9%, oltre dieci miliardi, nel 2015. Se invece si utilizzasse la rappresentazione statistica dell’Ocse, l’italia sarebbe stata in avanzo strutturale dello 0,3% del Pil nel 2013, circa 4,5 miliardi, altrettanto nel 2014, e dello 0,1% nel 2015.
Considerate che sulla base dei disavanzi strutturali si misura la qualità dell’azione di un governo in sede europea, ma anche la sua credibilità sul mercato del debito.
E non finisce qua: “Anche rimanendo all’interno di un stessa fonte statistica, la misurazione del saldo strutturale è soggetta a continue modifiche, con differenze che
diventano molto consistenti proprio in occasione dei momenti di inversione del ciclo economico”.
Insomma: il nostro futuro dipende da un dato che non esiste, inventato alla bisogna, sul quale non c’è neanche identità di vedute nella cosiddetta letteratura scientifica e che peraltro si comporta in modo incontrollabile nei momenti in cui dovrebbe essere più stabile.
Ma il peggio sta alla fine: “E’ stato infine rilevato come, all’interno della metodologia della Commissione UE, agli attuali valori di indebitamento strutturale corrispondano livelli di
disoccupazione di equilibrio nell’ordine dell’11 per cento, evidentemente inconciliabili con qualsiasi obiettivo di piena occupazione. Sarebbe dunque lo stesso modello statistico
utilizzato per guidare le politiche di bilancio europee a imporre un severo trade-off fra crescita e stabilità delle finanze pubbliche”.
Quale migliore esemplificazione dell’esercizio retorico praticato col linguaggio dell’economia?
La decisione, questa sì politica, impone il “severo trade off fra crescita e stabilità delle finanze pubbliche”. Ciò ha originato un modello statistico che teorizza deficit strutturali, con corrispondente tassi di disoccupazione d’equilibrio, che altri modelli vedono come surplus, sulla base dei quali si impongono politiche restrittive: “aggiustamenti continui”, come dice la Corte.
E gli stati (noi) devono pure pietire una deroga.
Se questo è il gioco, chi voglia salvare la pelle ha solo una chance: deve usare la retorica meglio degli altri.
Deve spararle più grosse.
(2/segue)