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Cronicario: Udite udite, l’inflazione ti impoverisce


Proverbio del 9 maggio Una buona azione è meglio di tre giorni di digiuno

Numero del giorno: 1.100.000 Famiglie italiane dove tutti cercano lavoro

E’ primavera e insieme alle foglie spuntano pure le audizioni sul Def, che pure se l’ha scritto un governo fantasma, viene comunque ampiamente commentano da un numero cospicuo di pezzi grossi che ci regalano la loro visione illuminata sui conti del nostro paesello afflitto (ma che davero?) ognuno dal suo peculiarissimo punto di vista. Oggi per dire si sono espressi nell’ordine: l’Istat, Bankitalia, l’Ufficio parlamentare di bilancio, il presidente dell’Unione delle Province d’Italia

che forse son state abolite ma anche no e comunque l’Unione rimane, hai visto mai, e infine l’Anci. Vista l’importanza degli assisi davanti alle commissioni di Camera e Senato, che intanto si scatenavano con le scommesse sul governo che forse ci sarà fra il gatto e la volpe alla faccia del solito Pinocchio, ho pensato che fosse il minimo regalarvi una perla di ognuno di questi interventi. Solo un assaggio però che ho da fare.

Cominciamo dagli ultimi che notoriamente sono i primi anche nell’aldiqua. L’Anci perciò. La richiesta più saliente è stata la richiesta di prorogare al 31 luglio i termini per la presentazione della documentazione della contabilità economica patrimoniale da parte dei comuni perché molti rischiano di non farcela e potrebbero finire sciolti e commissariati. Capirete che nessuno regge nuove elezioni.

Risalendo la china, troviamo l’Upi che molto signorilmente ha chiesto alle Commissioni di trovare un 280 milioni – spiccioli signora mia – per consentire a molte province, che sono sciolte ma anche no, di chiudere i bilanci, la qualcosa impedisce l’erogazione dei servizi che dovrebbero erogare ai cittadini, ma pure no.

Dopo questa prestazione edificante dei nostri enti locali, autentici maestri di vita pubblica, risaliamo fino all’Upb che col linguaggio cristallinamente incomprensibile dei burocrati dice quello che nessuno vuole sentire, ma che per fortuna nessuno capisce: “Rispetto ad un aggiustamento richiesto di 0,3 punti, il Def mostra un miglioramento del saldo strutturale di solo 0,1 punti di Pil. Nonostante la flessibilità concessa, si evidenzierebbe quindi un rischio di deviazione di -0,2 punti di Pil che dovrebbe comportare la necessità di una manovra aggiuntiva di 0,2 punti sul 2018”. Per giunta “secondo le stime più recenti della Commissione Ue non vi sarebbe nessun aggiustamento strutturale nel 2018, evidenziando quindi il rischio di una deviazione pari a -0,3 punti, maggiore di quanto precedentemente stimato”. Che vor di’?

Gli fa eco Bankitalia che ripete come un mantra: non toccate le pensioni, la cui riforma “è un punto di forza” e se proprio non si vuole far scattare l’aumento Iva toccherà “ricercare fonti alternative di aumento di entrata o riduzione di spesa”.

Dulcis in fundo l’Istat, che declina una delle sue migliori rappresentazioni che farà la gioia dei nostri piangitori ufficiali (se non siete iscritti al club correte a farlo che i tempi son propizi): Che dice l’augusto presidente Istat? Che nel 2017 c’erano cinque milioni di persone in povertà assoluta, l’8,3% della popolazione residente, pari a 1,8 milioni di famiglie, il 6,9% del totale, lo 0,6% in più rispetto al 2016. Ma la perla è nascosta fra le righe che non leggono i piagnoni a cui bastano i titoli: la metà dell’incremento di questo 0,6% di famiglie impoverite l’ha determinato l’inflazione, per quanto bassa.

Ecco. Adesso quando vi dicono che bisogna avere un’inflazione pari o vicina al 2% fateci un pensierino.

A domani.

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Il girotondo del commercio estero italiano


A caccia di buone notizia capaci di dissipare la fosca coltre di presentimenti di quest’inizio d’anno, m’imbatto nella stima flash sul commercio estero di novembre che Istat ha diffuso pochi giorni fa.

Sorvolo sui dati congiunturali, che dicono tanto ma non abbastanza, e mi concentro su un dato tendenziale aggregato, ossia quello relativo ai primi 11 mesi dell’anno, durante i quali il saldo commerciale ha raggiunto un attivo di 37,1 miliardi, quasi dodici in più rispetto ai primi undici mesi del 2013 (25,8 miliardi), che vuol dire quasi il 50% in più.

Siamo forti, mi dico. E per un attimo smetto di preoccuparmi.

Dura poco però. Osservo il grafico con le curve di import ed export nel periodo considerato e mi accorgo che, con l’eccezione di settembre, quando le importazioni sono calate di qualche punto percentuale, il trend è in ascesa, mentre relativamente all’export, con l’eccezione di agosto, il trend è in discesa.

Mi ricordo poi che nell’autunno 2014 è successo di tutto: l’euro si è indebolito del 6%, secondo le stime del Fmi, e il petrolio è crollato del 55%, sempre secondo le stime del Fmi. Perciò i dati del nostro commercio estero vanno presi con le pinze. Quantomeno pesati.

Purtroppo l’Istat si limita a raccogliere dati, misurati in valore o volumi. Perciò decido di accontentarmi e me li vado a leggere.

Scopro che i valori medi unitari, ossia il rapporto tra valore delle merci scambiate e la loro quantità, sono in crescita dalla primavera, sia per l’export che per l’import, salvo un’eccezione per le importazioni di agosto. Al contrario i dati sui volumi, ossia relativi alle quantità, divergono sostanzialmente a partire da ottobre 2014: il volume delle importazioni aumenta, quello delle esportazioni diminuisce. A tal proposito l’Istat sottolinea che “la diminuzione dei volumi esportati interessa tutti i principali raggruppamenti di beni, a eccezione dei beni strumentali (+2,2%) e dei beni di consumo durevoli (+1,8%)”.

Su guardiamo al dato tendenziale gennaio-novembre 2014 sullo stesso periodo del 2013, osserviamo che il volume delle esportazioni è aumentato di un risicato 0,1%, mentre quello delle importazioni del 2,4%, mentre il valore medio dell’export è cresciuto dell’1,5% e quello dell’import è calato del 2,6%.

Mi viene da pensare che non è che vendiamo più cose, semplicemente le vendiamo a miglior prezzo. Così come non è che compriamo meno cose dall’estero, anzi, ne compriamo di più: le paghiamo di meno.

Quindi il nostro super saldo commerciale ha molto a che fare con il prezzo delle commodity e gli andamenti monetari, che sono fattori esterni, ossia fuori dal nostro controllo, più che fattori interni. All’interno anzi abbiamo richiesto più beni dall’estero. Sarà merito degli 80 euro, forse.

Noto ammirato che il grosso delle nostre importazioni in volume, sempre nel periodo considerato, si colloca fra i beni di consumi durevoli (+5,8%) cui corrisponde un incremento in valore dello 0,6%. E chissà perché mi ricordo che il 2014 è stato un anno record per le vendite di Bmw, Mercedes, Audi eccetera.

Non è che sono prevenuto. Osservo solo che nel mese di novembre, il maggiore contributo all’import italiano, 0,39 punti percentuali, è arrivato dagli autoveicoli dalla Germania.

Per un attimo ho la sensazione di fare un girotondo. Alla fine comunque si cade giù per terra.

Assai utile, per immaginare per quanto possibile il futuro, si rivela tuttavia una grafico che sommarizza i saldi, attivi e passivi, con i principali partner del nostro commercio.

Scopro così che i nostri migliori clienti sono stati gli americani, che hanno importato merci per oltre 16 miliardi dall’Italia nei primi undici mesi del 2014. Segue il Regno Unito, che ha speso da noi circa nove miliardi, un po’ meno della Francia. Poi i paesi EDA (Singapore, Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong, Malesia e Thailandia), intorno agli otto miliardi e dulcis in fundo la Svizzera con poco meno.

Quanto alle nostre spese all’estero, la Cina batte tutti, con importazioni italiane per circa 15 miliardi, più o meno al livello dell’export in Usa. Poi ci sono i Paesi Bassi, con una decina, la Russia, con poco più di sei, la Germania con poco meno, e l’India con circa due miliardi.

Da questa esposizione sommaria possiamo dedurre alcune considerazioni. Intanto che il nostro export è molto più sensibile al cambio del nostro import.

Voglio dire che la rivalutazione del dollaro e del franco svizzero sarà di sicuro uno stimolo per l’export in quei paesi che, guardacaso, sono fra i nostri migliori clienti.

Il calo dei prezzi energetici, inoltre, farà dimagrire il valore unitario medio dell’import dalla Russia, che mostra già grandi segnali negativi. Mentre l’import che facciamo da Germania e Paesi Bassi, da un punto di vista della bilancia commerciale sarà neutro rispetto alla moneta. Salvo ovviamente l’andamento dei cambi reali e dei prezzi relativi.

Tutto ciò per dire che dovremmo tifare per la buona salute economica dell’America e della Svizzera se vogliamo continuare a macinare saldi attivi sulle merci.

Questo non vuol dire che basterà.

Esercizi di retorica sull’Istat: l’aumento del reddito degli italiani


Sinceramente mi chiedo, e vorrei tanto saperlo, quanti di coloro che si sono affrettati a sputar sentenze sugli ultimi dati dei redditi italiani rilasciati da Istat conoscano la semplice definizione di reddito disponibile. Perché di questo parla l’Istat.

Son persuaso, perchè rotto alla consuetudine della superficialità nazionale, che molti leggano l’aumento del reddito disponibile come un sinomino dell’aver più soldi in tasca. E certo è facile pensarlo.

Sicché parte la sarabanda. Grandi protagonisti, ovviamente, gli 80 euro del governo, che qualsiasi dilettante come me associa, per deduzione, al risultato certificato da Istat in un’equazione logica tipo: il governo ha dato gli 80 euro, e quindi è aumentato il reddito disponibile.

Sicuramente lo sapete già perché vi avranno bombardato con questa notizia, ma ve lo ricordo: nel terzo trimestre 2014 il reddito disponibile è aumentato, in valori correnti (non quindi costanti) dell’1,8% rispetto al trimestre scorso, e dell’1,4% rispetto al terzo trimestre 2013.

Poiché siamo affamati di buone notizie, immersi come siamo in un tempo buio e terrificante, ecco che ci basta sapere questo. Solo pochissimi sfuggiranno alla retorica incoraggiata dalla statistica, che poi a questo serve la statistica, per chiedersi magari: ma ammesso pure che io abbia più soldi in tasca, cosa ci ho fatto?

La risposta, anche questa accreditata dai numeri dell’Istat è: niente.

La spesa delle famiglie, infatti, è rimasta inchiodata, rispetto al trimestre precedente, malgrado il reddito disponibile sia aumentato nello stesso periodo dell’1,8%, col risultato che è aumentato il risparmio dell’1,6%, sempre rispetto al trimestre scorso.

E poiché nella contabilità nazionale nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma, ecco che troviamo il contraltare di questo aumento di risparmio privato nella diminuzione dello 0,2% dell’avanzo primario delle amministrazioni pubbliche, che sempre venerdì scorso l’Istat ha accertato nel terzo trimestre del 2014, rispetto al terzo trimestre 2013.

Per farvela breve: il governo ha aumentato la sua spesa pubblica per dare più soldi ad alcune famiglie italiane e queste li hanno messi da parte. Così magari potranno pagare con più tranquillità il conto, che prima o poi arriverà, che il governo presenterà. Almeno così sembrano pensarla le famiglie, visto che non hanno speso nulla di più del solito.

Ma qui vorrei parlarvi d’altro, anche perché rifuggo qualsiasi tentazione retorica, che sarebbe facile sperimentare, visto che siamo circondati da quella altrui, e discorrere invece proprio della definizione di reddito disponibile che è l’unica che dovremmo conoscere per apprezzare nel mondo giusto il dato Istat, lasciando magari da parte le nostre convinzioni da bar e avendo l’umiltà di leggere cosa intenda l’istituto di statistica con questa definizione.

Poiché mi reputo ignorante, corro a leggere cosa dice il glossario alla fine della nota Istat e leggo la seguente definizione alla voce reddito lordo disponibile:  “Rappresenta l’ammontare di risorse correnti degli operatori destinato agli impieghi finali (consumo e risparmio)”.

La prima cosa che mi incuriosisce è che la nota parla di reddito disponibile. La definizione invece di reddito lordo disponibile. Mi chiedo se significhi qualcosa.

Corro sul sito dell’Istat e, in uno dei tanti rapporti sul reddito delle famiglie consumatrici, del febbraio 2011, trovo quest’altra definizione di Reddito lordo disponibile: “L’aggregato che esprime i risultati economici conseguiti dalle Famiglie residenti. Si calcola sommando ai redditi primari le operazioni di redistribuzione secondaria del reddito (imposte, contributi e prestazioni sociali, altri trasferimenti netti)”.

Per chi non lo sapesse, i redditi primari si ottengono sommando il risultato lordo di gestione, al reddito misto, ai redditi da lavoro dipendente e ai redditi da capitale. Ovviamente ognuna di queste voci corrisponde a una definizione più o meno astrusa che vi risparmio perché vi annoierei troppo, ma che trovate in un qualunque manuale (ricordate che ormai è in vigore il SEC 2010) di contabilità nazionale.

Ottenuti tali redditi primari, bisogna detrarre le imposte correnti e i contributi sociali, aggiungere le prestazioni sociali e eventuali altri trasferimenti netti, ed ecco che otteniamo il nostro mitico reddito disponibile lordo che, semplicisticamente, la prima definizione tratta come l’insieme delle risorse disponibili per consumi e risparmi. La qualcosa è sicuramente vera, ma come vedete dietro c’è tutto un mondo che bisogna ricordare per poterla comprendere.

Un aumento del reddito, proprio per come è stato definito, può dipendere infatti da svariate cose: può aumentare uno dei redditi che compongono il reddito primario, oppure possono diminuire imposte e contributi, o magari aumentare i trasferimenti. Oppure, come è stato il caso del terzo trimestre 2014, può diminuire l’inflazione è così aumentando il valore relativo del reddito.

Se teniamo conto dell’andamento dei prezzi, infatti, il potere d’acquisto, sempre nel trimestre considerato, è aumentato dell’1,9%, ossia più del reddito disponibile.

Essendo così definito, perciò, un aumento del reddito non corrisponde necessariamente a maggiori entrate, ma può essere provocato anche da minori uscite. E spero sia chiara, a questo punto, la differenza.

Uno poi può anche dire: cosa vuoi che m’importi, quel che conta è che ho più risorse a mia disposizione per i consumi o i risparmi, come dice la prima definizione.

E qui torniamo al punto di partenza. Cosa mi serve un aumento di reddito se poi non lo utilizzo? Da un punto di vista macroeconomico a niente.

Se non aumentano i consumi, che pesano circa il 60% del nostro Pil, non aumenta il prodotto, se anche gli investimenti delle famiglie rallentano, dello 0,2 secondo la nota Istat nel terzo trimestre rispetto al precedente e dello 0,4% rispetto al 2013 e se gli investimenti fissi delle imprese calano (-0,6 terzo trimestre su secondo e -3,7 sul 2013), la quota di profitto delle imprese cala (-0,2 sul secondo trimestre e -2,1 sul 2013) allora l’aumento di reddito disponibile non ha migliorato la nostra economia. L’ha resa solo più guardinga.

E a ragione.

Ne vedremo delle belle nel 2015.

L’Italia (im)possibile: aumentare le pensioni diminuendo il debito pubblico


Ad impossibilia nemo tenetur, dice il vecchio brocardo latino. Quindi “nessuno è tenuto a fare cose impossibili”.

Dovrebbe essere tenuto, aggiungo io.

L’antica saggezza latina infatti non vale per l’Italia contemporanea. Dobbiamo trovare soluzioni razionali a problemi assurdi. Tipo: aumentare i consumi, ma anche il risparmio. Diminuire i debiti ma aumentare il credito. Aumentare la spesa sociale ma tagliare il welfare.

E’ assurdo, ma è così. Lo sa chiunque si avventuri nelle politiche economiche le quali, non sapendo che pesci pescare, cercano di dilazionare il redde rationem, sperando che la Bce, la Fed o chi per lei, ci mettano una toppa e tutto torni magicamente a posto.

Io ci spero, ma non ci credo.

Sicché mi son convinto che bisogna aggiornare il brocardo. Siamo tenuti a fare l’impossibile, se vogliamo avere la possibilità di un futuro che non sia quello che immaginano banchieri ed economisti.

Futuro tristissimo, peraltro: un mondo dove regnano l’insaziabile incapienza dei debitori e l’avida aritmetica dei creditori.

Questa riflessione mi ha spinto ad affrontare una prima radicale contraddizione che rappresenta un’altrettanto radicale necessità:

Dobbiamo aumentare le pensioni diminuendo al contempo il debito pubblico.

Bum.

Il Sacro Graal. Oppure l’uovo di Colombo.

Poiché, come ho più volte detto e ripetuto non sono economista né esperto di alcunché, mi contento di tracciare una linea di ragionamento con alcuni dati di contorno. Dopodiché chiedo a voi, che siete molto più bravi di me a fare i conti e a frugare nei cavilli tecnici, di darmi una mano. Se il gioco vi appassionerà potremo insieme farne qualcosa di più di un modesto post.

Perché questo gioco di società? Perché deve essere chiaro a tutti che ne usciremo, dall’impossibilità in cui ci siamo ficcati, solo se ognuno darà un contributo. E le idee e la propria expertise sono già un ottimo inizio. Quindi, per favore, battete un colpo.

Dunque, che sia necessario aumentare il valore delle pensioni in Italia è chiaro a chiunque conosca pure per sommicapi la questione.

In Italia coltiviamo il curioso paradosso per il quale abbiamo una spesa per trattamenti pensionistica gigantesca e una gran parte di rendite miserrime. Parliamo di oltre 270 miliardi nel 2012, in costante crescita sul Pil, al 17,28%, che alimentano circa 16,6 milioni di pensionati che in media percepiscono 16.314 euro l’anno di rendite.

L’Istat ci dice  che il 42,6% dei questi pensionati percepisce un reddito da pensione inferiore a mille euro al mese, il 38,7% tra i mille e i duemila, il 13,2% tra i duemila e i tremila, il 4,2% fra i tremila e i 5mila e l’1,3% oltre i 5mila al mese. Per chi non avesse voglia di fare i conti, l’1,3% di 16,6 milioni equivale a 215.800 persone. Quelli che mezza Italia vuole super tassare (peraltro senza riuscirci).

A fronte di questi incassi abbiamo la circostanza che la pensione sia equiparata al reddito da lavoro dipendente. Di conseguenza che sia soggetta allo stesso tipo di tassazione con tanto di ritenuta alla fonte che l’Inps effettua a titolo di imposta sul reddito delle persone fisiche. Dalla ritenuta sono escluse le prestazioni assistenziali erogate dall’Inps come le pensioni sociali, gli assegni sociali, le prestazioni agli invalidi.

Le aliquote Irpef che i pensionati pagano replicano quelle dell’Irpef sul lavoro, quindi oscillano dal 23% per le pensioni fino a 15mila euro, al 43% per le pensioni superiori a 75mila.

Sappiamo altresì che sul totale di 270 miliardi di pensioni pagato nel 2012, quelle di assistenza pesano il 7,9%, quelle di invalidità il 4% e quelle indennitarie l’1,7. Quindi queste non sono soggette a ritenuta fiscale. Parliamo di circa 36 miliardi che dobbiamo togliere dal nostro monte pensioni perché esentasse.

In sostanza, pure malcontato com’è (sono grato se qualcuno farà calcoli più precisi) abbiamo un monte di spesa pensionistica pari a circa 233 miliardi che produce un gettito fiscale.

Non conosco i dati di questo gettito fiscale nel 2013, però è noto quello del 2012, così come viene riportato dal Bilancio del sistema previdenziale presentato nel giugno scorso dal sito Itinerari previdenziali.

Nel 2012 la spesa pensionistica complessiva, al netto della quota GIAS (ossia dell’assistenza) pari a 31,6 miliardi, era stata di 211,103 miliardi di euro, cresciuta del 3,3% sul 2011 e del 6,2% sul 2010, solo in parte coperte dalla massa dei contributi, pari a 190 miliardi. Su questi 211 miliardi e rotti lo Stato ha incassato di tasse 45,9 miliardi. Credo quindi che non saremmo troppo lontani dal vero se affermassimo che nel 2013 il prelievo fiscale sulle pensioni ha portato circa 50 miliardi.

A fronte di questo incasso fiscale, lo Stato trasferisce all’Inps una quota rilevante di risorse. Di fronte a tutto ciò le previsioni dei vari Def, che vedono in costante crescita la spesa per prestazioni sociali non possono che inquietare.

Questa situazione la potremmo raccontare così: lo Stato spende tanto per le sue prestazioni sociali, pensioni in testa, e al tempo stesso la grande maggioranza di queste rendite sono basse. L’ennesima contraddizione nella quale si agita questo paese.

Detto ciò proviamo il nostro gioco di società. Il miglior modo per far aumentare le pensioni è defiscalizzarle, in tutto o in parte.

Se però lo Stato volesse defiscalizzare queste pensioni, dovrebbe trovare i 50 miliardi di incassi fiscali che gli verrebbero a mancare. E l’unico modo che io vedo plausibile è favorire uno scambio virtuoso fra il patrimonio dei pensionati e il loro reddito.

Provo a delineare la fisionomia di questo scambio.

Bisogna recuperare queste risorse agendo su una delle voci più corpose del nostro bilancio pubblico: la spesa per interessi sul debito, che ormai veleggia intorno agli 80 miliardi di euro l’anno, che equivale a un rendimento implicito di circa il 4% sullo stock di debito che abbiamo accumulato, ossia circa 2.000 miliardi di cui più o meno un terzo all’estero.

Su quest’ultima quota, perciò, paghiamo oltre 25 miliardi l’anno di interessi che, espatriando, non producono alcun effetto positivo sulla nostra macroeconomia, senza contare che una tale esposizione estera ci rende molto sensibili alle oscillazioni dei mercati internazionali, e quindi agli spread. Reinternalizzare questo debito, insomma, ci renderebbe di sicuro più stabili, specie se contrattato a tassi molto bassi.

Servono quindi circa 700 miliardi. Ce li abbiamo?

Gli ultimi dati di Bankitalia ci dicono che la ricchezza finanziaria netta degli italiani a fine 2012 quotava circa 2.775 miliardi. Quindi i soldi ce li abbiamo. E sappiamo anche, sempre perché ce lo dice Bankitalia, che per ragioni storiche una parte consistente di queste risorse è concentrata nella fascia più attempata della popolazione. Quindi sembra del tutto logico che sia questa fascia di popolazione, che poi è la stessa che ha bisogno di vedere migliorata la propria posizione di rendita pensionistica, a partecipare a questo aggiustamento.

Sarebbe sbagliato, però, pensare a un “esproprio”. Nessuna patrimoniale, quindi. La soluzione dovrebbe essere di tipo cooperativo. Ossia bisogna collegare il vantaggio (lo sgravio fiscale) a uno svantaggio, ossia un prestito patrimoniale. Prestito: attenzione, non tassa.

Lo svantaggio sarebbe nelle condizioni del prestito. Ossia nel tasso d’interesse. Quest’ultimo dovrebbe essere collegato al tasso Bce, quindi a zero, e per una durata di almeno venti anni.

In sostanza lo Stato dovrebbe emettere dei “bond Italia”, a tasso zero riservati inizialmente alla popolazione dei pensionati, collegandoli a un beneficio fiscale progressivo, con ampi incentivi a sottoscriverli, ma con libera facoltà di aderire.

In cambio della sottoscrizione, gli anziani avrebbero diritto per tutta la durata dell’obbligazione allo sgravio fiscale corrispondente, che deve essere ponderato al fine di renderlo marginalmente più efficace sulle pensioni più basse. Chi ha di meno, insomma, ma contribuisce, deve avere un vantaggio maggiore di chi ha di più.

In tal modo, dovendo esaurire uno sgravio fiscale di 50 miliardi, pari cioé al totale delle tasse che lo Stato incassa dalle pensioni, io potrei risparmiare la stessa cifra collocando a tasso zero presso gli anziani italiani fino a 1.250 miliardi di euro di bond pubblici. Tale soluzione avrebbe anche il vantaggio di poter reinternalizzare il debito pubblico all’estero, che così tanti patimenti ci ha dato.

I bond verrebbero ripagati al termine del periodo al loro valore nominale, “tassati” quindi solo dell’inflazione del periodo che, essendo molto lungo, è presumibile verrà patita dagli eredi, ma non dal sottoscrittore. La qualcosa potrebbe essere intesa come una sorta di tassa di successione, anche se i titoli di stato ne sono esenti, a quanto mi risulta. Il che, ne converrete, è alquanto curioso. Se eredito venti milioni di euro in Btp, qualcosina dovrei pure darla allo Stato. O no?

Per completare l’opera bisognerebbe creare un mercato di queste obbligazioni, e qui entrano in  gioco le banche, che le renda quindi vendibili, in modo da poter liquidare le somme all’anziano qualora gli occorrano. Vendendoli però si vende il diritto allo sgravio fiscale ad esso connesso. Ciò implica che altre categorie potrebbero godere dell’agevolazione fiscale caricandosene però il costo. In tal modo anche altre persone fisiche o società potrebbero utilizzare i “bond Italia” per migliorare la propria posizione fiscale.

Lo scopo del gioco, come spero sia chiaro, è aumentare le entrate mensili dei pensionati, ma in generale il reddito di chi compra i bond, senza gravare sul bilancio dello Stato, ma anzi andando ad intaccare lo stock di debito che, nel lungo periodo verrà eroso “naturalmente” per la quota sottoscritta dall’inflazione. Quindi anche se nominalmente il debito rimarrà lo stesso, sarà molto diverso da adesso. E soprattutto rimarrà in casa.

Senza contare che restituirebbe ben altra flessibilità al bilancio dello Stato rispetto a quella miserella che i nostri politici tentano di contrattare con Bruxelles. Poiché l’Italia deve rifinanziare circa 250-300 miliardi di euro di debito l’anno, l’operazione potrebbe essere costruite e realizzata nell’arco di un triennio, in modo da digerirla senza troppo scosse.

Mi rendo conto che le mie sono riflessioni approssimative, o, peggio, sballate. E conto sulla vostra benevolenza per precisare, sottolineare e correggere.

Ma quello che ho provato a fare qui è delineare una linea di intervento. Una proposta fuori dalla righe per uscire finalmente dalla logica asfittica dell’avanzo primario, che conduce da nessuna parte e solo a prezzo di grandi fatiche.

L’idea di usare i nostri soldi, che abbiamo accumulato negli anni anche grazie al debito pubblico, per tirarci fuori dai guai, poi, mi sembra l’unica praticabile. Solo che dobbiamo sceglierlo, non ci può venire imposto da uno Stato che, a torto o ragione, ha pochissima credibilità. Dovremmo farlo per noi. Non per lo Stato. Per questo serve un interesse che vada oltre a quello dello Stato che, credo stia a cuori a pochissimi oggi, e anhe vada aldilà del mero interesse monetario.

Ricordarci che siamo una comunità, questo il punto. E sostituire la logica dell’agente economico razionale , che cerca di massimizzare il proprio profitto (finanziario), con quella, meno frequentata ma di sicuro più autentica, di persone che vivono sotto lo stesso cielo.

Fuori dall’econom(an)ia c’è un mondo di cui nessuno ci parla mai.

Voi che dite?

Le bugie dei Grandi Numeri: più Pil(u) per tutti


Dovremmo infine porci, arrivati a questo punto del nostro discorso, una semplice domanda: di cosa parliamo quando parliamo di economia?

Non so a voi, ma la prima cosa che viene in mente a me sono le statistiche, les Grands Nombres, come ebbe a chiamarle Alain Desrosières in un celebre libro di una ventina di anni fa. E poi i grafici, le tabelle e gli indicatori, che su questi grandi numeri sono costruiti, e infine le teorie e i teoremi, che da essi vengono dedotti, in omaggio al più vieto metodo scientifico, al fine neanche celato di avere – retoricamente – ragione con la scusa di cercare una qualche verità almeno pratica, se non teorica.

Ecco, quando sento parlare di economia, oppure leggo di economia, l’unica cosa che mi viene in mente è che anche il più raffinato ragionamenti si basa sui numeri.

Le statistiche.

Perciò, mi rispondo, quando parliamo di economia non facciamo altro che combinare logicamente dati statistici, magari filtrandoli con un’idea/teoria, al fine – retorico – di persuadere qualcuno di qualcosa.

Detto in soldoni: quando parliamo di economia, facciamo politica.

Mi chiedo quanti ne siano consapevoli e quanti invece, sedotti o intimoriti dall’armamentario economicistico, commettano l’errore di considerarlo credibile. Ossia degno di credito.

L’essere credibile, non a caso, è alla base dell’economia, così come della finanza, che è una sua applicazione. Non dico tanto che tale credibilità impensierisca gli addetti ai lavori, che con l’economia ci campano e buon per loro. Dico che riguarda voi, noi, tutti quelli che l’economia la subiscono come una maledizione biblica.

Mi spiego meglio: il ragionamento economico, come ogni altro ragionamento, partendo da certe premesse può condurre a conclusioni assolutamene vere – nel senso che la logica dà a questo termine – ma assolutamente non reali. Basta ricordare il brillante equilibrio generale walrasiano per comprenderlo.

Con l’aggravante che il ragionamento economico ha un altro handicap: i dati di cui si serve per tessere le sue imboniture sono sostanzialmente una rappresentazione, densa di errori e di approssimazioni.

I grandi numeri sovente nascondono grandi bugie.

Ciò malgrado, il combinato disposto fra dati incerti e ragionamenti irrealistici determina il discorso economico contemporaneo, che tanto è credibile quanto più è astruso, perché a nessuno verrà mai in mente di confutare le premesse di una pagina di matematica o di un algoritmo statistico. Perciò è retoricamente efficace.

Tutto ciò vi parrà molto astratto, ma in realtà è assai concreto.

Qualche giorno fa l’Istat ha ricordato, con grande scandalo dei soliti disattenti, che a settembre verrà aggiornato il SEC, ossia il sistema dei conti nazionali, alla versione 2010, visto che vige ancora la versione 1995.

La notizia è diventata tale perché la stampa, semplificando come è suo mestiere, ha notato che nel computo del prodotto (PIL) andranno considerate anche alcune voci sommerse dell’economia illegale, come la prostituzione o il contrabbando di droga.

Apriti cielo. I benpensanti, molti dei quali non sanno neanche cosa sia il Pil però lo adorano, si sono scandalizzati. Sicché è intervenuta una robusta precisazione da parte di Bruxelles, dalla quale dipende Eurostat, che poi è l’ente statistico dell’Ue, seguita poi da una sottolineatura del nostro Istat. Vale la pena riportare questo balletto di dichiarazioni perché chiarisce molte cose.

Per Bruxelles ha parlato tale Emer Traynor, portavoce del commissario Ue al Fisco, dal quale dipende – fate attenzione – Eurostat.

Che c’entra il fisco con la statistica?

C’entra eccome. E’ fin dai tempi di Cromwell che lo stato usa le statistiche, anzi le ha inventate, per spremere tasse dai redditi e dai patrimoni. Il fatto che non sia cambiato nulla in tutti questi anni conferma l’assunto: ossia che l’economia è un fatto politico, sin dal suo sorgere, e la statitistica è il suo strumento operativo del quale la politica fissa la fisionomia per renderla omogenea ai suoi desiderata.

Non è un caso che nel nostro tempo malato di econom(an)ia vadano così forti gli econometristi, ossia coloro che riducono tutto a numero.

Scusate, divago.

Che ha detto il nostro portavoce? In sostanza che le attività illegali facevano parte del Pil da decenni e che quello che cambierà, con l’entrata in vigore del SEC 2010 è che i criteri di calcolo verranno armonizzati.

Armonizzati: che bella parola. Fa pensare alla musica. E invece qui si tratta di rendere comparabili i dati dei paesi aderenti ad Eurostat. Arida statistica omologante. D’altronde come si potrebbe avere un mercato unico, moneta compresa, se i dati non fossero omogenei?

Ancora una volta, quando parliamo di economia, parliamo di numeri. E quindi di statistica.

Comunque, la precisazione del nostro portavoce ha evidenziato che già dal SEC 95 era previsto l’inserimento delle attività illegali, malgrado, come ha precisato Istat “sia molto difficile misurarle per l’ovvia ragione che esse si sottraggono a qualsiasi forma di rilevazione”.

E tuttavia, conclude il portavoce Ue, “era necessario superare le riserve relative all’applicazione omogenee fra i paesi Ue degli standard già esistenti”, fra le quali primeggia appunto quella relativa all’inserimento delle attività illegali.

L’unificazione europea si fa beffe delle riserve mentali, anche (anzi soprattutto) a livello statistico.

Poche ore dopo il nostro portavoce, l’Istat è uscita con una dichiarazione del direttore della contabilità nazionale, Gian Paolo Oneto. Costui ha spiegato che “finora le attività illegali non sono mai state conteggiate nel Pil, in Italia e nella maggioranza dei paesi europei, anche se a livello internazionale già c’erano delle raccomandazioni che però non definivano tali attività in maniera precisa e quindi non erano applicate, tranne in casi sporadici”.

“Non definivano tali attività in maniera precisa”, ricordatevi queste parole.

La conclusione di questo teatrino politico/statistico è che con i nuovi criteri il dato del Pil italiano sarà rivisto al rialzo. E’ facile capire perché: aumentando le voci di computo, anche se sulla base di stime di dati che “si sottraggono a qualsiasi forma di rilevazione”, il prodotto aumenta. Ma non solo per questo.

Cambiando le definizioni, infatti, cambiano anche le regole di calcolo. E questo è il punto focale.

Il SEC 2010, infatti, prevede che le spese per ricerca e sviluppo siano conteggiate come investimenti e non più come costi. E anche questo cambia in positivo il valore del Pil. Così come cambia la contabilizzazione dei beni inviati all’estero o ricevuti dall’estero per essere sottoposti a lavorazione senza che vi sia un cambio di proprietà (per il cosiddetto processing). L’adozione delle nuove definizioni, inoltre, modificherà in modo significativo la stima dei flussi con l’estero di beni e servizi.

Risultato: Più Pil per tutti.

Più Pilu, direbbe Cetto Laqualunque.

E  tutto il nostro discorso economico nazionale a riformattarsi di conseguenza.

Quale sarà il frutto di questo gran lavoro degli econometristi e degli esperti di statistica economica, lo vedremo a ottobre prossimo, quando il SEC 2010 mostrerà, numericamente, le sue carte. Ma sappiamo già che al termine, secondo le prime indicazioni, il Pil potrebbe essere rivisto al rialzo fra l’1 e il 2%.

Gran lavoro per gli statistici, quindi, ma anche per i letterati, visto che le definizioni della contabilità nazionale, che vengono fissate sempre a livello europeo, sono la base epistemologica del conteggio, anche quando “non si può rilevare”.

Come abbiamo visto, cambiare una definizione impatta sul valore e sulla destinazione della voce di computo, e quindi sul calcolo finale del prodotto. E chi le scrive le definizioni? La legge, ossia la politica (ufficialmente) e i tecnici (ufficiosamente).

Le definizioni, di conseguenza, sono il fondamento della statistica, come lo erano, nel tempo remoto, della filosofia.

A questo punto dovreste aver chiaro di cosa parliamo, quando parliamo di economia.

(1/segue)

 Leggi seconda e ultima puntata

Esercizi di retorica sul DEF: l’invenzione del deficit strutturale


Compulsare i vari documenti che le istituzioni stanno producendo per partecipare al grande rito collettivo del DEF è altamente istruttivo. L’evento economico assume un significato sociale che finalmente trascende la sua miseria contabile per assurgere alla dimensione di ciò che è autenticamente il Documento di economia e finanza: un pregevole esercizio retorico che si nutre di congetture economiche al solo fine di sostanziare un’azione politica di governo.

Che ciò sia il DEF, pochi dovrebbero dubitarne.

Stupefacente invece è la constatazione, che ho tratto leggendo le opinioni sul Def dell’Istat, della Banca d’Italia e della Corte dei Conti, di quanto profondo sia tale congetturare.

E, peggio ancora, che tali congetture non si limitino alle stime sul dati del futuro, come pure sarebbe lecito pensare, ma siano inerenti al dato stesso, ossia alla sua costruzione statistica.

Di cosa parliamo, insomma, quando ci riempiamo la bocca e la testa di deficit, indenitamento netto, o, peggio ancora, indebitamento strutturale?

Tecnicamente parliamo di convenzioni statistiche. Non dati oggettivi, quindi, come uno potrebbe pensare, ma costruzioni numeriche discutibili.

In alcuni casi molto discutibili.

Relativamente ai casi nostri, la vicenda del DEF ha un portato di politica, interna e internazionale, che è saggio non sottovalutare. Il governo infatti, nella persona del ministro dell’Economia, ha impugnato la penna e scritto una bella letterina a mamma Commissione Ue per chiedere di poter derogare di un anno il pareggio strutturale di bilancio, che era previsto per il 2015 e invece si propone per il 2016.

Nel 2015, infatti, il deficit strutturale sarà allo 0,1%, e non a zero come aveva assicurato il governo Letta a settembre scorso a fronte di una variazione strutturale in aggiustamento pari allo 0,5% del Pil. Tale deroga dovrà essere approvata dal nostro Parlamento e poi dalle autorità europee.

Tutto questo per un decimo di punto? E che sarà mai?

E invece pesa, perché l’Italia ha un Obiettivo di Medio Termine (OMT) concordato con la Commissione europea che prevedeva, fra le altre cose l’azzeramento del deficit strutturale entro il 2015.

A questo punto le varie tifoserie si saranno scatenate. Solo pochi ficcanaso si sono posti la domanda: ma il deficit strutturale cos’é?

Gli appassionati del genere sanno che il deficit strutturale corrisponde al deficit netto corretto per gli effetti del ciclo economico e delle misure straordinarie. Per dirlo con le parole della Corte dei conti, tratte dall’audizione sul DEF, “l’intento è quello di isolare le variazioni del saldo di bilancio che sono indotte automaticamente dalle oscillazioni del ciclo economico e che, quindi, non possono essere attribuite all’azione discrezionale dei governi”.

In sostanza, il deficit strutturale è un indice della scelleratezza fiscale governativa. E ciò spiega bene perché a Bruxelles ci tengano in tal modo. Tanto più è alto, tanto più il governo non fa il suo dovere: questo è il senso.

Definito l’oggetto, rimane ancora senza risposta la vera domanda: come si calcola una roba del genere?

Deve esser chiaro che rispondere a questa domanda significa credere che sia possibile una risposta sensata. Che nel gergo economico significa una risposta oggettiva e misurabile oggettivamente.

Purtroppo così non è: il calcolo del deficit strutturale è l’ennesimo esercizio di retorica tramite il quale una decisione politica viene camuffata da dato economico che, di conseguenza, genera un’azione politica conseguente.

Penserete che sto esagerando. Ma non dovete ascoltare me, che non so niente. Ascoltate la Corte dei Conti: “La logica sottostante l’adozione di obiettivi di indebitamento strutturale, tesa a sanzionare l’eventuale utilizzo di misure pro-cicliche, si scontra però con un problema di fondo: la non osservabilità dell’indebitamento strutturale”.

Detto in altre parole, non essendo osservabile non dovrebbe esistere.

Perciò si inventa.

“All’inconveniente (la non osservabilità, ndr) si sopperisce mediante l’utilizzo di particolari tecniche statistiche finalizzate a distinguere, all’interno della serie storica del saldo di bilancio, la componente ciclica da quella strutturale”, spiega la Corte, sottolineando però che “queste tecniche possono tuttavia condurre a risultati non univoci e anche fortemente divergenti fra loro a causa dell’ampio ventaglio di ipotesi preliminari che può essere assunto”.

Quindi non solo l’indebitamento strutturale, che decide il nostro futuro, non esiste, ma la sua invenzione sottostà a regole inventate sulle quali non c’è nemmeno concordia, e che potrebbero dare risultati molto diversi fra loro.

La Corte si spinge in avanti e illustra proprio il caso italiano. Da noi “le misurazioni proposte dalla Commissione europea, che individuano la persistenza nel 2014 e l’ampliamento nel 2015 del deficit strutturale, solleciterebbero il Governo all’adozione di misure correttive, laddove un calcolo alternativo del saldo strutturale su dati OCSE indicherebbe, per lo stesso periodo, una situazione di avanzo”.

Avete capito bene: per la Commissione abbiamo un disavanzo strutturale, che dipende dalla loro classificazione statistica dei dati. Se invece usassimo la classificazione Ocse saremmo in avanzo strutturale.

Tale differenza non pensa neanche poco. Nel grafico contenuto nel suo parere, la Corte mostra che nella misurazione svolta dalla Commissione Ue l’Italia ha un deficit strutturale dello 0,6% sul Pil, circa 9 miliardi, che rimane costante nel 2014, per arrivare allo 0,9%, oltre dieci miliardi, nel 2015. Se invece si utilizzasse la rappresentazione statistica dell’Ocse, l’italia sarebbe stata in avanzo strutturale dello 0,3% del Pil nel 2013, circa 4,5 miliardi, altrettanto nel 2014, e dello 0,1% nel 2015.

Considerate che sulla base dei disavanzi strutturali si misura la qualità dell’azione di un governo in sede europea, ma anche la sua credibilità sul mercato del debito.

E non finisce qua: “Anche rimanendo all’interno di un stessa fonte statistica, la misurazione del saldo strutturale è soggetta a continue modifiche, con differenze che
diventano molto consistenti proprio in occasione dei momenti di inversione del ciclo economico”.

Insomma: il nostro futuro dipende da un dato che non esiste, inventato alla bisogna, sul quale non c’è neanche identità di vedute nella cosiddetta letteratura scientifica e che peraltro si comporta in modo incontrollabile nei momenti in cui dovrebbe essere più stabile.

Ma il peggio sta alla fine: “E’ stato infine rilevato come, all’interno della metodologia della Commissione UE, agli attuali valori di indebitamento strutturale corrispondano livelli di
disoccupazione di equilibrio nell’ordine dell’11 per cento, evidentemente inconciliabili con qualsiasi obiettivo di piena occupazione. Sarebbe dunque lo stesso modello statistico
utilizzato per guidare le politiche di bilancio europee a imporre un severo trade-off fra crescita e stabilità delle finanze pubbliche”.

Quale migliore esemplificazione dell’esercizio retorico praticato col linguaggio dell’economia?

La decisione, questa sì politica, impone il “severo trade off fra crescita e stabilità delle finanze pubbliche”. Ciò ha originato un modello statistico che teorizza deficit strutturali, con corrispondente tassi di disoccupazione d’equilibrio, che altri modelli vedono come surplus, sulla base dei quali si impongono politiche restrittive: “aggiustamenti continui”, come dice la Corte.

E gli stati (noi) devono pure pietire una deroga.

Se questo è il gioco, chi voglia salvare la pelle ha solo una chance: deve usare la retorica meglio degli altri.

Deve spararle più grosse.

(2/segue)

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Disoccupazione italiana al 13%? Dipende…


Poiché è il Grande Tema, quello dell’occupazione, o meglio della disoccupazione, vale la pena leggersi in un lungo e largo l’ultima indagine campionaria dell’Istat ad essa dedicata, incrociandola magari con i dati eurostat.

Ma otterrete ben poco di diverso dallo sconforto. Con il suo 13% tondo di disoccupati l’Italia supera la media europea e la surclassa in relazione al numero di disoccupati fra i più giovani.

Fin qui il mainstream, al quale neppure questo blog può sfuggire.

Epperò possiamo provare a ragionare e precisare meglio. Ne trarremmo una lezione molto istruttiva circa l’utilità politica della statistica.

Cominciamo da alcune definizioni, che sembrano scontate ma non lo sono affatto: tipo: cos’è il tasso di disoccupazione?

Ne parlano tutti, ma potete scommettere che se provate a chiedere cosa sia molti cambiano discorso. Dicono solo che è al 13%, oppure che sono numeri drammatici. Cose peraltro vere, ma poco indicative.

Cominciamo allora da alcune definizioni. La forza lavoro, spiega l’Istat (che poi è l’emittente) è il totale delle persone occupate e di quelle disoccupate. A questa popolazione statistica si aggiunge quella degli inattivi, ossia di persone che non lavorano né chiedono di lavorare.

Anche sulla definizione di occupati e disoccupati è meglio precisare, visto che il senso comune del termine non coincide necessariamente col senso inteso dall’Istat che, lo ripeto, è l’emittente del dato.

Gli occupati sono le persone dai 15 anni in su che nella settimana di riferimento della rilevazione hanno svolto almeno un’ora di lavoro che preveda un corrispettivo in natura o in denaro, o abbiano prestato la loro opera nella ditta di un familiare nella quale collaborano. A costoro si aggiungono anche gli assenti per ferie e malattie.

I disoccupati comprendono le persone fra i 15 e i 74 anni che hanno effettuato un’azione attiva di ricerca di lavoro nelle quattro settimane precedenti a quella di riferimento e sono disposti a lavorare entro le due settimane successive, oppure che inizieranno a lavorare entro tre mesi dalla settimana di riferimento.

Notate il disallineamento fra l’età di occupazione e quella di disoccupazione.

Dall’esame di queste popolazioni si estraggono il tasso di occupazione, definito nella release Istat come il rapporto del totale degli occupati sul totale della popolazione solo 15-64enne, e il tasso di disoccupazione.

Quest’ultimo si ottiene calcolando il rapporto fra il totale dei disoccupati e il totale della forza lavoro che, lo ricordo, è la somma di occupati e disoccupati.

Tutto chiaro? Bene, guardiamo ai dati di febbraio diffusi dalla stima flash Istat.

Il numero totale degli occupati è di 22 milioni 216mila persone, 39mila in meno rispetto a gennaio e 365mila in meno rispetto a febbraio 2013. Il tasso di occupazione risulta pari al 55,2%, stabile rispetto a gennaio 2014, ma in calo dello 0,8% rispetto a febbraio 2013, e viene calcolato però solo sulla fascia 15-64 anni, mentre il totale si riferisce ai lavoratori dai 15 anni in su.

Per dare un’idea delle grandezze in gioco, possiamo utilizzare il dato relativo all’ultimi trimestre 2013, quando il totale degli occupati era 22.408 migliaia, di cui 21.984 nella classe 15-64 anni e 423 mila in quella degli ultra65enni. Quindi gli ultra 65enni pesavano circa l’1,8% del totale degli occupati.

Se manteniamo questa percentuale come riferimento, possiamo stimare che delle 22.216 migliaia di lavoratori attivi a febbraio 2014 circa 420mila fossero ultra65enni. Sottraendoli dal totale degli occupati (22.216 migliaia), possiamo stimare che gli occupati nella classe 15-64 anni siano circa 21.796 mila.

Prendetelo come un dato di tendenza, in attesa che Istat aggiorni i database. Ci serve solo a sviluppare un ragionamento.

Il numero dei disoccupati (15-74enni) è di 3 milioni 307mila, 8mila in più (+0,2%) rispetto a gennaio e 272mila in più (+9%) rispetto a febbraio 2013.

Per calcolare il tasso di disoccupazione dobbiamo sommare il totale degli occupati (15 anni e più) e dei disoccupati (15-74 anni) per ottenere la forza lavoro, ottenendo così 25 milioni 523mila persone. Quindi dividere il totale dei disoccupati (3.307 migliaia) per la forza lavoro (25.523 migliaia). Arriviamo, al lordo degli arrotondamenti, al 13% che così tanto ha inquietato l’opinione pubblica e che la stampa ha urlato in prima pagina, tanto per far capire al popolo bue che non è più tempo di indugi.

Ma per completare la nostra istruzione dobbiamo ancora fare un passaggio: esaminare la popolazione inattiva. Il glossario Istat ci spiega che sono coloro che non appartengono alla forza lavoro, e che quindi non sono iscritti né nella classe degli occupati né in quella dei disoccupati. Di costoro viene censito il dato relativo alla popolazione di età compresa fra i 15 e i 64 anni, quindi analogo a quello della popolazione attiva.

Ebbene, l’Istat ci dice che a febbraio 2014 il tasso di inattività dei 15-64enni è stato del 36,4%, pari a 14 milioni 365mila persone. Se sommiamo questo dato al tasso di attività, che è il 55,2% sempre per i 15-64enni, otteniamo che il 91,6% delle persone di età fra i 15 e i 64 anni sono occupate o inattive. Per differenza, possiamo dedurne che i senza lavoro (ossia coloro che non sono né occupati né inattivi) sono l’8,4% del totale della popolazione fra i 15 e i 64 anni.

Ma come: i disoccupati non erano il 13%? Certo. Ma perché vengono calcolati con i criteri che abbiamo visto (totale disoccupati fra i 15 e i 74 anni su somma di totali occupati e disoccupati).

A parti inverse, il discorso si può ripetere per l’altro estremo dei disoccupati che così tanto clamore suscita sui giornali: la disoccupazione giovanile.

Stavolta la popolazione di riferimento è quella dei 15-24 anni, dove ci sono quindi molti studenti o universitari. I numeri ci dicono che gli occupati (a febbraio) erano 923mila, i disoccupati 678mila e gli inattivi 4 milioni 393mila. Complessivamente, quindi, la popolazione di riferimento conta 5 milioni 994 mila 15-24enni. Un numero così alto di inattivi non deve stupire, visto che si tratta di popolazione in età scolare.

Quindi il tasso di occupazione (totale occupati/totale popolazione) risulta pari al 15,4%, 0,2% in meno rispetto a gennaio e -1,7% rispetto a febbraio 2013.

Il tasso di disoccupazione giovanile (numero disoccupati/totale occupati+disoccupati) risulta pari al 42,3%, in calo dello 0,1% rispetto a gennaio 2014 ma in aumento del 3,6% rispetto a febbraio 2013.

Quanto agli inattivi, il tasso di inattività risulta pari al 73,3%, lo 0,4% in più rispetto a gennaio 2014 e l’1,2% in più rispetto a febbraio 2013.

Questi giovani sfaticati: non solo non lavorano ma sono pure (statisticamente) inattivi.

Qualcosa di più lo scopriramo guardano i valori assoluti.

Gli occupati giovanili sono diminuti di 107 mila unità rispetto a febbraio 2013, i disoccupati sono aumentati di 27mila, e gli inattivi di 46mila. Mancano all’appello 34 mila giovani che non risultano censiti né fra i disoccupati né fra gli inattivi.

Dove sono finiti? Teoricamente non lavorano, né cercano lavoro, possiamo ipotizzare che siano tornati a studiare o che non facciano neanche quello. O forse sono scappati all’estero. O magari sono morti. O, più semplicemente, hanno compiuto gli anni e sono finiti nella classe successiva dei non più giovani. Ma comunque parliamo di 34 mila giovani su una popolazione censita di 5 milioni 994mila persone.

Questo per dire che la statistica, a differenza di quanto si pensi, dà solo i numeri, ma non spiega un bel niente. E utilizzarla come sostegno di un qualunque ragionamento è una raffinata forma di retorica.

Ultima riflessione. I 923 mila occupati fra i 15-24 enni ci consentono di conoscere il numero totale degli occupati nella popolazione 25-64enne, ossia quella core del mercato del lavoro. Se li sottraiamo al totale dei lavoratori occupati (22.216 migliaia) otteniamo 21.293 migliaia di lavoratori occupati nella fascia 25-64 anni.

Con ciò ovviamente non voglio dire che il lavoro non sia un problema nel nostro Paese. Al contrario. Ma solo compiere una piccola opera di riposizionamento del problema e dell’uso strumentale che si fa dei numeri.

Come diceva un tale, se torturi abbastanza la statistica confesserà qualunque cosa.

E tutti le crederanno.

La distruzione durevole dei consumi italiani (ed europei)


Bisogna pur dirlo che il 2013 è stato un anno orribile per le importazioni italiane. Se davvero si voleva distruggere la domanda interna, come è stato detto e scritto, la missione può dirsi compiuta. Non si dica perciò che i nostri governanti sono inetti. O almeno, non completamente.

Il crollo dei consumi, della quale il -5,5% registrato dal saldo delle importazioni nel 2013 è una delle tante cartine tornasole, è per giunta il sintomo di un malessere profondo e minacciosamente permanente, guidato com’è dalle materie prime, dai beni durevoli, che nel periodo gennaio-dicembre 2013 sono crollati del 7,9% rispetto allo stesso arco di tempo del 2012, e dai beni strumentali, in calo del 2,8%. Tutta roba che ha a che fare molto con la produzione e con la voglia di fare investimenti.

La voce energia, poi, è crollata del 15,6%. La qualcosa è di sicuro una buona notizia per la nostra bolletta, che comunque rimane di tutto riguardo, ma rivela una volta di più il nostro debito di attività.

Gli unici beni importati in crescita sono quelli non durevoli. Il che mi fa pensare a un consumo schiacciato sul presente, senza prospettiva che non sia il suo immediato e finito soddisfacimento. Compriamo magari una bottiglia di vino francese, invece di un macchinario tedesco, e ci beviamo su aspettando tempi migliori. O, per dirla con i numeri dell’Istat, aumenta la domanda di importazioni di articoli in pelle (+16,% a dicembre 2013) ma crolla quella di macchinari elettrici (-13,2). E considerate che il dato congiunturale di dicembre ha registrato un corposo aumento di importazioni (+3,6%).

Per giunta leggo che nel corso del 2013 le nostre esportazioni sono rimaste stabili (-0,1%), per non dire negative. Laddove questo saldo è ciò che residua dalla differenza fra le aumentate esportazioni nella zona extra Ue (+1,3%) e il calo sofferto nei paesi Ue (-1,2%).

Dal che viene facile dedurre che è l’insieme dei consumi europei ad essere durevolmente bloccato, non soltanto quello italiano. E non solo per colpa dei Piigs. Sono anche i paesi ricchi che strozzano i loro consumi interni, malgrado gli abbondanti surplus commerciali.

Per avere una visione d’insieme, inoltre, è utile osservare i flussi con l’estero a far data dal dicembre 2011. La curva delle esportazioni risulta sostanzialmente piatta, intorno ai 32 miliardi nel corso del triennio. Quella delle importazione cala invece costantemente: dai 32 miliardi del 2011 ai 30 circa di dicembre 2013.

Tale circostanza legittima un’altra deduzione. Se la nostra crescita del prodotto interno dovrà basarsi molto sull’export, come prevede la nota vulgata mercantilista del nostro tempo, ed essendo le esportazioni, anche a causa del cambio fisso all’interno e della sua onerosità all’esterno, alquanto rigide, a meno di improbabili rilancio delle domande interne di qualcun altro, l’unico modo per avere un export crescente passerà per un’ulteriore contrazione delle importazioni. Leggi: ulteriore distruzione dei consumi.

Lo dicono i numeri. Nel corso dell’anno, scrive l’Istat l’avanzo commerciale “raggiunge i 30,4 miliardi di euro al netto dei prodotti energetici” senza i quali sarebbe stato di 85 miliardi. Quindi delle due l’una: o contraiamo la bolletta energetica, e sarebbe bello sapere come, o il resto delle importazioni. Il rilancio delle esportazioni extra eurozona con un euro che costa sempre più caro all’estero è alquanto problematica. Mentre all’interno dell’eurozona, come abbiamo visto, prevale la contrazione degli scambi.

Se la bolletta energetica confermerà la sua rigidità, perciò, per salvare il nostro avanzo commerciale (e il nostro Pil) non potremo che continuare, durevolmente, a distruggere i nostri consumi interni.

Salvo tornare all’autarchia.

Siamo ricchi, ma poveri


E’ molto istruttivo leggere insieme l’ultimo rapporto di Bankitalia sulla ricchezza delle famiglie italiane e il rapporto su reddito e condizioni di vita dell’Istat, che per una di quelle curiose coincidenze sono usciti quasi in contemporanea, offrendoci una fotografia alquanto sfocata e contraddittoria delle condizioni reali del paese.

Da Bankitalia apprendo che, malgrado la profonda correzione dei corsi immobiliari, che ha falcidiato la ricchezza degli italiani, le famiglie del Belpaese, a fine 2012, hanno una ricchezza netta pari a circa 8.524 miliardi di euro, pari a circa 143 mila euro pro capite, di cui il 61,6% derivanti da attività reali (per più dell’80% abitazioni) e per il restante 38,9% da attività finanziarie. Mentre i debiti complessivi ammontano a circa 900 miliardi, più o meno il 10% delle attività complessive.

Allo stesso tempo leggo nel rapporto Istat che, sempre nel 2012, il 29,9% delle persone è a rischio povertà o escusione sociale, l’1,7% in più rispetto al 2011, in gran parte dovuto al notevole incremento della quote di persone severamente deprivate, in crscita dal11,2 al 14,5%. Che vuol dire non essere in grado di fare una settimana di ferie fuori da casa, non poter riscaldare adeguatamente la propria abitazione o non poter sostenere una spesa improvvisa di 800 euro, se necessario, o, peggio ancora, non potersi alimentare adeguatamente consumando proteine ogni due giorni. Ne deriva che il rischio di povertà o esclusione sociale è del 5,1% più elevato della media europea. Peggio di noi stanno solo in Grecia e in alcuni paesi dell’est europeo.

Poi riprendo lo studio di Bankitalia e leggo che malgrado il dimagrimento dovuto alla crisi, la ripresa dei corsi finanziari ha quasi compensato il calo del mattone (-6% in termini reali), portando a un calo della ricchezza netta di appena lo 0,6% rispetto al 2011. E leggo pure che malgrado i cali, registrati dal 2007 in poi, quando la nostra ricchezza netta superava abbondantemente i 9.000 miliardi, siamo ancora nella top ten dei paesi europei, visto che quota circa 7,9 il reddito lordo disponibile, più o meno al livello di Francia, Regno Unito e Giappone, molto meglio della Germania. Per giunta rimangono bassi i debiti delle famiglie rispetto al reddito disponibile, all’82%, “nonostante i significativi incrementi degli ultimi anni”.

Mi sorge il sospetto che in Italia ci sia una profonda sperequazione redistributiva. Allora ritorno sul rapporto Istat e leggo che “il 20% più ricco delle famiglie percepisce il 37,5% del reddito totale, mentre il 20% più povero l’8%”, quasi un quinto. E se guardo l’indice di Gini che misura l’equità distributiva (0 massima equità, 1 massima diseguaglianza), scopro che su scala nazionale, nel 2012, tale indicatore vale 0,32. Quindi nel suo complesso non sembra ci sia tutta questa sperequazione. Il dato però cela importanti differenza. Al Sud l’indice quota 0,33, al nord 0,29. La famosa questione meridionale, penso.

Il combinato disposto di queste informazioni mi fa sorgere il sospetto che qualcosa non quadri. Abbiamo un paese nel suo insieme abbastanza equo, dove perà un sacco di gente non può fare una settimana di ferie. Abbiamo un paese con una ricchezza netta pari a quasi otto volte il reddito, dove però ci sono molti che fanno fatica a comprarsi una bistecca due volte a settimana. Un numero crescente, addirittura.

Ma che ci fanno gli italiani coi soldi?

Torno a Bankitalia e scopro che le famiglie italiane tengono all’estero circa 320 miliardi di attività finanziarie sui circa 3.670 miliardi totali, in aumento di circa il 5% rispetto al 2011. E parliamo solo delle somme censite dalle statistiche.

Scopro pure come sono cambiati i gusti degli italiani in fatto di finanza. Un cambiamento storico. A metà degli anni ’90 gli italiani investivano il 29% della loro ricchezza finanziaria in depositi e un altro 19% in titoli di stato, con punte del 21%. Quindi la metà dei soldi liquidi degli italiani andavano alle banche e allo stato. Pochi rendimenti, ma sicuri.

La rivoluzione finanziaria ha cambiato queste consuetudini: oggi i depositi bancari quotano il 19% del totale e i titoli pubblici appena il 5%. Il totale fa meno della metà di vent’anni fa. Tutto a vantaggio di azioni, fondi obbligazioni e riserve tecniche assicurative. L’aumentato appetito per il rischio ha anche fatto crescere i rendimenti, come si evince dai grafici storici, ma al contempo anche le perdite nei periodi di crisi.

Costante invece la quota destinata al risparmio postale, circa il 31%, che poi è la cassaforte della Cassa Depositi e prestiti. Parliamo di oltre 1.000 miliardi, mica bruscolini.

Ma in queste cifre si annidano altre informazioni interessanti. I depositi bancari capitalizzano circa 660 miliardi di euro, il 93,6% posseduti dalle famiglie, con un ammontare medio pro capite di 14 mila euro. Abbastanza per farsi una bistecca in più, mi pare. Anche perché i conti fino a 50 mila euro ammontavano al 42% del totale, ma, dato assai più rilevante, il 40% di questi depositi è nella forbice fra i 50 mila e i 250 mila, mentre c’è un altro 18% che supera la soglia dei 250 mila euro. Poiché i conti censiti sono 47 milioni, significa che in Italia ci sono 8 milioni e 460mila conti correnti con cifre superiori ai 250.000 euro e altri 18 milioni e 800mila conti correnti con importi compresi fra i 50 mila e i 250 mila euro. Quindi il 58% dei conti correnti italiani ha cifre superiori ai 50 mila euro. E non parliamo di pochi fortunati ricchi: parliamo di oltre 27 milioni di conti correnti intestati a un numero più o meno equivalente di persone.

Se poi andiamo a vedere i titoli custoditi dalle banche, valore circa 550 miliardi, scopriamo che il 96% è detenuto da famiglie e che la quota di depositi titoli superiori a 500 mila euro era solo un punto percentuale inferiore (il 35%) rispetto alla forbice 50mila-250mila euro. Vi risparmio il dato sulla ricchezza patrimoniale e sui conti correnti postali. Basti sapere che parliamo di un’altra montagna di miliardi.

Insomma, non sembriamo un popolo alla fame, ma al contrario abbiamo collettivamente risorse sufficienti a stabilizzare la nostra economia e compensare agevolmente le situazioni di disagio sociale, visto che di fronte a tanta ricchezza pressoché inutilizzata, in Italia e all’estero, l’Istat certifica che aumenta l’esclusione. Abbiamo una disoccupazione al 12 per cento e una montagna di risorse inutilizzate. Questo è un vero spreco, altro che le province.

Solo che non facciamo nulla. Ci lamentiamo e stringiamo la cintura.

Forse il problema dell’Italia non è l’aumento della povertà, che è solo una conseguenza.

Il problema è che anche i ricchi si sentono poveri.

I travet pubblici italiani pagano il conto del 2013


Pochi giorni dopo la pubblicazione dei conti nazionali per il 2012, l’Istat ha rilasciato  il conto economico trimestrale delle amministrazioni pubbliche, che ci consente di fare un piccolo passo avanti nella nostra analisi della contabilità pubblica.

Poiché ormai sapete tutto sul senso e il significato dell’avanzo primario non ci tornerò sopra. Vi basti sapere che nel secondo trimestre 2013 tale saldo è risultato positivo per una quota pari al 4,7% del Pil, lo 0,9% in più dello stesso trimestre del 2012.

Una buona notizia che ne nasconde un’altra: ossia l’andamento del saldo corrente, anch’esso positivo e in crescita rispetto al secondo trimestre 2012 (dallo 0,2% allo 0,4% del Pil).

Fermiamoci un attimo: cos’è il saldo corrente?

Molti di voi lo sapranno già, però è utile rimarcare la differenza fra il saldo primario (differenza fra entrate e uscite correnti senza considerare gli interessi sul debito) e il saldo corrente (differenza fra entrate e uscite correnti compresi gli interessi sul debito).

In sostanza il saldo corrente è quello che rimane delle entrate correnti al netto delle spese correnti complessive.

La ciccia, insomma.

Bene, nel secondo trimestre 2013 il nostro saldo corrente è migliorato ed è positivo. Significa che, malgrado la mole di interessi passivi che hanno divorato il nostro avanzo primario, siamo riusciti pure a salvare qualcosa dalla nostra spesa corrente. In particolare quello 0,4% del Pil che equivale precisamente a 1,644 miliardi.

La buona notizia, tuttavia, non dovrebbe esimerci da una semplice domanda: da dove sono arrivati questi soldi?

Come ogni saldo, anche quello corrente è la risultante di entrate e spese. Quindi dobbiamo vedere innanzitutto come siano cambiate le entrate e le spese correnti rispetto al 2012.

Dal lato delle entrate si vede che sono aumentate dell’1,2% fra i due trimestri considerati (2012/2013), passando da 180,091 miliardi a 182,297. Il grosso dell’aumento è da imputarsi all’aumento delle imposte dirette (+4,1%, da 57,748 mld a 60,132) che compensa il calo di quelle indirette, diminuite del 2,1% (da 57,964 a 56,723). Quindi abbiamo +2,384 miliardi di incassi da imposte dirette e -1,241 miliardi di imposte indirette. Che significa +1,143 mililardi di entrate da tasse come saldo positivo.

Il calo delle imposte indirette (Iva in testa) è uno degli effetti del calo dei consumi, evidentemente, in qualche modo connesso con l’aumento del carico fiscale, che infatti nel trimestre considerato ha generato entrate record, pari al 48,3% del Pil, corrispondente a una pressione fiscale del 43,8%, 1,3% in più rispetto al trimestre corrispondente del 2012.

All’aumento delle entrate correnti dell’1,2%, tuttavia, ha corrisposto un aumento delle uscite correnti dello 0,7%, pari a 2,206 miliardi.

In particolare, sono passate dai 179,466 miliardi del secondo trimestre 2012 a 180,653 nel 2013. Quindi una parte del nostro aumento di entrate è andato a compensare un aumento di spesa.

La constatazione è tanto più rilevante in quanto, scorrendo i dati analitici, scopro che una delle voci più rilevanti della nostra spesa corrente, ossia quella per gli interessi sul debito, è diminuita nei due trimestri, addirittura del 7%. In particolare è passata dai 23,827 miliardi del secondo trimestre 2012 a 22,148 miliardi, ben 1,679 miliardi in meno.

Ciò malgrado la spesa corrente complessiva è aumentata.

Come mai?

La parte del leone l’hanno fatta le prestazioni sociali in denaro (il welfare), cresciute del 2,9%.

In particolare sono aumentate di 2,082 miliardi (da 72,750 mld a 74,832). Un altro +4,1% l’hanno segnato i consumi intermedi, aumentati di 895 milioni di euro (da 21,593 a 22,488). Il totale di queste due voci sfiora i tre miliardi (2,977 mld) di spesa corrente in più. Se poi ci aggiungiamo le “altre uscite correnti”, cresciute del 3,5% (781 milioni) li superiamo abbondantemente.

Ricapitoliamo: abbiamo avuto meno spese per interessi per oltre 1,6 miliardi (grazie alla generosità della Bce che ha fatto diminuire gli spread) e abbiamo speso oltre tre miliardi in più. Come abbiamo fatto ad avere un saldo corrente positivo?

Semplice: abbiamo avuto più entrate fiscali e, soprattutto, abbiamo risparmiato sul costo del lavoro dei dipendenti pubblici.

La voce Redditi da lavoro dipendente segna infatti un calo di 892 milioni di euro, passando dai 39,239 miliardi del secondo trimestre 2012 ai 38,347 del 2013, il 2,3% in meno.

Quindi circa la metà del nostro saldo corrente positivo l’hanno pagato i dipendenti pubblici. La loro è l’unica voce della spesa corrente che non solo non aumenta ma diminuisce.

Un grazie sarebbe solo una questione di buona educazione.