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Esercizi di retorica sull’Istat: l’aumento del reddito degli italiani

Sinceramente mi chiedo, e vorrei tanto saperlo, quanti di coloro che si sono affrettati a sputar sentenze sugli ultimi dati dei redditi italiani rilasciati da Istat conoscano la semplice definizione di reddito disponibile. Perché di questo parla l’Istat.

Son persuaso, perchè rotto alla consuetudine della superficialità nazionale, che molti leggano l’aumento del reddito disponibile come un sinomino dell’aver più soldi in tasca. E certo è facile pensarlo.

Sicché parte la sarabanda. Grandi protagonisti, ovviamente, gli 80 euro del governo, che qualsiasi dilettante come me associa, per deduzione, al risultato certificato da Istat in un’equazione logica tipo: il governo ha dato gli 80 euro, e quindi è aumentato il reddito disponibile.

Sicuramente lo sapete già perché vi avranno bombardato con questa notizia, ma ve lo ricordo: nel terzo trimestre 2014 il reddito disponibile è aumentato, in valori correnti (non quindi costanti) dell’1,8% rispetto al trimestre scorso, e dell’1,4% rispetto al terzo trimestre 2013.

Poiché siamo affamati di buone notizie, immersi come siamo in un tempo buio e terrificante, ecco che ci basta sapere questo. Solo pochissimi sfuggiranno alla retorica incoraggiata dalla statistica, che poi a questo serve la statistica, per chiedersi magari: ma ammesso pure che io abbia più soldi in tasca, cosa ci ho fatto?

La risposta, anche questa accreditata dai numeri dell’Istat è: niente.

La spesa delle famiglie, infatti, è rimasta inchiodata, rispetto al trimestre precedente, malgrado il reddito disponibile sia aumentato nello stesso periodo dell’1,8%, col risultato che è aumentato il risparmio dell’1,6%, sempre rispetto al trimestre scorso.

E poiché nella contabilità nazionale nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma, ecco che troviamo il contraltare di questo aumento di risparmio privato nella diminuzione dello 0,2% dell’avanzo primario delle amministrazioni pubbliche, che sempre venerdì scorso l’Istat ha accertato nel terzo trimestre del 2014, rispetto al terzo trimestre 2013.

Per farvela breve: il governo ha aumentato la sua spesa pubblica per dare più soldi ad alcune famiglie italiane e queste li hanno messi da parte. Così magari potranno pagare con più tranquillità il conto, che prima o poi arriverà, che il governo presenterà. Almeno così sembrano pensarla le famiglie, visto che non hanno speso nulla di più del solito.

Ma qui vorrei parlarvi d’altro, anche perché rifuggo qualsiasi tentazione retorica, che sarebbe facile sperimentare, visto che siamo circondati da quella altrui, e discorrere invece proprio della definizione di reddito disponibile che è l’unica che dovremmo conoscere per apprezzare nel mondo giusto il dato Istat, lasciando magari da parte le nostre convinzioni da bar e avendo l’umiltà di leggere cosa intenda l’istituto di statistica con questa definizione.

Poiché mi reputo ignorante, corro a leggere cosa dice il glossario alla fine della nota Istat e leggo la seguente definizione alla voce reddito lordo disponibile:  “Rappresenta l’ammontare di risorse correnti degli operatori destinato agli impieghi finali (consumo e risparmio)”.

La prima cosa che mi incuriosisce è che la nota parla di reddito disponibile. La definizione invece di reddito lordo disponibile. Mi chiedo se significhi qualcosa.

Corro sul sito dell’Istat e, in uno dei tanti rapporti sul reddito delle famiglie consumatrici, del febbraio 2011, trovo quest’altra definizione di Reddito lordo disponibile: “L’aggregato che esprime i risultati economici conseguiti dalle Famiglie residenti. Si calcola sommando ai redditi primari le operazioni di redistribuzione secondaria del reddito (imposte, contributi e prestazioni sociali, altri trasferimenti netti)”.

Per chi non lo sapesse, i redditi primari si ottengono sommando il risultato lordo di gestione, al reddito misto, ai redditi da lavoro dipendente e ai redditi da capitale. Ovviamente ognuna di queste voci corrisponde a una definizione più o meno astrusa che vi risparmio perché vi annoierei troppo, ma che trovate in un qualunque manuale (ricordate che ormai è in vigore il SEC 2010) di contabilità nazionale.

Ottenuti tali redditi primari, bisogna detrarre le imposte correnti e i contributi sociali, aggiungere le prestazioni sociali e eventuali altri trasferimenti netti, ed ecco che otteniamo il nostro mitico reddito disponibile lordo che, semplicisticamente, la prima definizione tratta come l’insieme delle risorse disponibili per consumi e risparmi. La qualcosa è sicuramente vera, ma come vedete dietro c’è tutto un mondo che bisogna ricordare per poterla comprendere.

Un aumento del reddito, proprio per come è stato definito, può dipendere infatti da svariate cose: può aumentare uno dei redditi che compongono il reddito primario, oppure possono diminuire imposte e contributi, o magari aumentare i trasferimenti. Oppure, come è stato il caso del terzo trimestre 2014, può diminuire l’inflazione è così aumentando il valore relativo del reddito.

Se teniamo conto dell’andamento dei prezzi, infatti, il potere d’acquisto, sempre nel trimestre considerato, è aumentato dell’1,9%, ossia più del reddito disponibile.

Essendo così definito, perciò, un aumento del reddito non corrisponde necessariamente a maggiori entrate, ma può essere provocato anche da minori uscite. E spero sia chiara, a questo punto, la differenza.

Uno poi può anche dire: cosa vuoi che m’importi, quel che conta è che ho più risorse a mia disposizione per i consumi o i risparmi, come dice la prima definizione.

E qui torniamo al punto di partenza. Cosa mi serve un aumento di reddito se poi non lo utilizzo? Da un punto di vista macroeconomico a niente.

Se non aumentano i consumi, che pesano circa il 60% del nostro Pil, non aumenta il prodotto, se anche gli investimenti delle famiglie rallentano, dello 0,2 secondo la nota Istat nel terzo trimestre rispetto al precedente e dello 0,4% rispetto al 2013 e se gli investimenti fissi delle imprese calano (-0,6 terzo trimestre su secondo e -3,7 sul 2013), la quota di profitto delle imprese cala (-0,2 sul secondo trimestre e -2,1 sul 2013) allora l’aumento di reddito disponibile non ha migliorato la nostra economia. L’ha resa solo più guardinga.

E a ragione.

Ne vedremo delle belle nel 2015.

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Genealogia del Pil – L’araldo di Cromwell

Se il destino di una qualunque cosa è scritto nel suo genoma, come vorrebbe certa scienza riduzionista, allora potrebbe dirsi senza tema di smentite che il destino di tirannia alla quale ci ha condannato il Pil era implicito nel suo stesso definirsi come grandezza statistica. Ciò che il Pil implica, il pensiero ad esso sotteso, è di per sé dispotico.

Talché non a caso questa grandezza è divenuta il denominatore comune (si misura tutto in rapporto al Pil) di un qualunque ragionamento economico contemporaneo. Anche se forse è troppo generoso qualificarlo così, trattandosi non di economia ma di econometria. E il fatto che molti confondano queste due discipline è la misura più evidente del degrado del nostro discorso economico, ridotto a coacervo di equazioni astruse in virtù delle quali i governi esercitano i loro dispotismi mascherati. Rappresentazioni pressoché inintellegibili della società servono a giustificare chiarissime decisioni politiche.

D’altronde perché stupirsi: il Pil, in quanto indicatore, incarna perfettamente lo spirito mercantilistico del nostro tempo proprio per il suo includere fra le sue costituenti gli assi portanti del mercantilismo: l’intervento pubblico e le esportazioni. Attenzione: con ciò non intendo che sia insensato. Voglio solo dire che bisogna saperlo e averne consapevolezza, sennò non si capisce tutto il resto.

Non si capisce, ad esempio, perché negli anni ’30, quando il Pil fu inventato, persino l’Unione sovietica si convertì a tale statistica totalitaria. L’unica differenza fra il Pil americano (e quindi europeo) e quello sovietico era che quest’ultimo si chiamava NMP (net materiale product) e che non comprendeva i servizi nel computo del prodotto ma, molto sovieticamente, solo il prodotto industriale. Falce e martello, perciò, con preferenza per il martello.

Ma non ci affrettiamo, perché tanta strada è stata fatta per arrivare a questa novella divinità – il Pil – che tutti celebrano, ora con timore ora con reverenza, spesso ignorandone senso e genealogia, per pura adesione spirituale e luogocomunista. E anche qui, non a caso. E’ inerente alla divinità suscitare atti di fede.

Abbiamo già visto come la contabilità nazionale, della quale il Pil è un prodotto di punta, trovi il suo fondamento in una serie di convenzioni statistiche frutto di accordi internazionali. La radice del nostro presente risale addirittura al 14 dicembre 1928, quando la Società delle Nazioni approvò la convenzione internazionale sulle statistiche economiche.

I vari paesi aderirono nel corso degli anni ’30. Poi, dopo la guerra, arrivò l’Onu che emendò quella convenzione arrivando alla base condivisa dalla quale germinerà il nostro europeo Sec. E questo, anche se in breve, dà conto della radice omologante della contabilità e della ragione principale per la quale è stata concepita: il controllo e la comparabilità. Ossia l’anticamera dell’omologazione.

Anche qui: non dico che sia insensato. Lo scopo di questo breve viaggio è aumentare la consapevolezza dei processi che conducono alla rappresentazione condivisa che chiamiamo Mondo. Facendosene un’idea si può decidere se criticarli o meno. Non si può cambiare ciò che nemmeno si conosce.

Ma prima di raccontare come si sia arrivati alla definizione del Pil e alla sua conformazione, è utile fare un passo ancora più indietro, alle origini addirittura di quella miracolosa disciplina che si chiamava Aritmetica politica, l’antesignana delle nostre econometrie e statistiche economiche che danno sostanza alla contabilità nazionale.

Come ogni cosa che riguardi la sostanza dell’economia moderna, al fondamento dell’aritmetica politica ci sono fatti di guerra. E l’epicentro di tali innovazioni, non a caso, è l’Inghilterra del XVII secolo.

I manuali attribuiscono a sir William Petty l’aver iniziato i primi tentatativi di calcolo del reddito nazionale. Ma sarebbe poca cosa questo sforzo, se non si capisse perché mai un gentiluomo inglese di quattrocento anni fa abbia voluto cimentarsi con una tale astruseria. Petty condivide il merito di tale innovazione con Giovanni Grand, suo collega nella Royal Society che sempre Petty fondò per dare sostanza scientifica alle sue elucubrazioni.

Ma rimane la domanda: perché lo fece?

Siamo negli anni di Cromwell, il condottiero “democratico” che guidò la rivolta dei “parlamentaristi” contro i “realisti” di re Carlo I, fino a farne decretare l’esecuzione. Cromwell, nella cui epoca l’Inghilterra varò il celeberrimo Navigation Act, fra le altre cose, decise una spedizione militare contro gli irlandesi, che avevano approfittato dei torbidi londinesi per sottrarre, nel 1641, ampi territori alla Corona. E Cromwell poteva pure essere avverso alla Corona, ma era pur sempre un inglese.

La spedizione fu fruttuosa, nel senso che fece strame degli irlandesi, che ancora ricordano Cromwell come un incubo.

Quando si finì di sparger sangue si pose il problema di cosa fare delle tante terre coltivabili sequestrate agli indigeni. La risposta fu ovvia: furono assegnate ai finanziatori della spedizione, ai soldati che avevano combattuto e ad alcuni coloni. All’uopo fu scritto l’Act for the settlement of Ireland.

Questa spartizione di spoglie rese necessario l’intervento di un valido contabile per valutare correttamente il bottino. Ed ecco che arriviamo a Sir Petty, che nel 1652 fu spedito in Irlanda con l’incarico di stabilire il valore dei terreni confiscati, atto propedeutico all’assegnazione ai nuovi proprietari, ma soprattutto al calcolo delle imposte che costoro avrebbero dovuto pagare al Regno.

Fu in quest’occasione che Petty maturò il suo interesse per la socio-economia. L’esperienza irlandese lo condurrà, nel 1662, alla pubblicazione del suo primo libro, il Treatise of taxes and contributions, cui seguiranno, nel 1665 il Verbum Sapienti, il Political Arithmetick e Political Survey (1672) e più tardi il Quantulumcunque concerning money. Fu Petty, per dire della sua importanza nella nostra piccola ricognizione dell’econometria, ad avere l’idea che si potesse calcolare il valore di una terra attualizzando il fusso degli affitti futuri.

E’ con Petty, insomma, che nasce l’economista-econometrista, che diventa una sorta di araldo del principe, grazie al quale l’autorità spreme ricchezza dai cittadini.

L’economia moderna, perciò diventa lo strumento ideale per far sprigionare la potenza dei re e la contabilità nazionale, di conseguenza, un fatto eminentemente politico. Vi parrà strano guardando i fatti con gli occhi di oggi, ma i molti aritmetici politici che succedettero a Petty, quelli che oggi chiamiamo statistici, subirono persecuzioni e le loro opere roghi, qualora i loro calcoli finissero invisi al sovrano.

La gloriosa evoluzione della contabilità nazionale segnò l’inizio dell’epopea degli stati moderni, fino a quando, nel Novecento, si arrivò alla formulazione degli standard internazionali di cui discorriamo oggi.

Ed è nella temperie del primo dopoguerra, gli anni Venti e soprattutto gli anni Trenta americani, che mette radici il Pil.

Ma questa è un’altra storia.

(1/segue)

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Quel che si dovrebbe sapere della contabilità nazionale

Nel grande processo di omologazione che ormai come una peste si diffonde per il globo, sfugge ai molti, distratti dal roboante turbinare degli eventi numerari che ormai incarnano il discorso economico, ciò che ad essi sottostà. Il loro costituente ontologico, si potrebbe dire.

Pletore infinite di uditori distratti apprendono, in virtù di un’osmosi perniciosa con l’ambiente che li circonda, decine di indicatori di cui ignorano sostanzialmente il significato, contentandosi di registrarne i saliscendi, come se ciò bastasse a dar senso a una qualunque forma d’umore o di ragionamento. Col risultato che in tempi di indici decrescenti, si diffonde, implacabile, la depressione.

Ma quello che dovremmo chiederci tutti è molto semplice: siamo davvero attrezzati per decodificare la minacciosa invasione di numeri che proviene dalle statistiche economiche e finanziarie, o ce ne facciamo semplicemente travolgere?

Questa domanda la faccio innanzitutto a me stesso, forte della consapevolezza di ignorare tante cose e di doverle, di conseguenza, apprendere.

Prendiamo la contabilità nazionale raccolta dall’Istat. Lì dentro c’è scritto tutto quello che succede nell’economia italiana. Chiunque si interessi di economia l’avrà di sicuro almeno sfogliata, finendo col perdersi nel labirinto delle definizioni, spesso ignorate, e contentandosi perciò di raggranellare qua e là qualche numero per tessere il solito ragionamento a tesi, forte del principio secondo il quale una statistica, se la torturi abbastanza, finirà col dirti qualunque cosa. Nella contabilità nazionale ci sono una decina di definizioni diverse per i redditi, ad esempio, e solo un’attenta lettura delle definizioni permetterebbe di scegliere quella adatta a rappresentare qualcosa.

E qui veniamo al punto: le definizioni.

Mentre tutti sanno che la contabilità nazionale è un sistema di conti che misura diversi aggregati monetari, pochi si soffermano a considerare che tali aggregati sono definiti da precise convenzioni. Considerare le quantità senza comprendere tali definizioni equivale a parlare una lingua straniera di cui si ignora il significato delle parole, fidandosi delle assonanze con la propria lingua. Per dire: l’idea di reddito o di produzione che abbiamo nella nostra testa può essere assolutamente diversa da quella contemplata dalla contabilità nazionale.

Dopodiché, prima di avventurarsi in qualunque disamina, bisognerebbe farsi un’altra domanda (almeno io me la sono fatta e qui ve ne do conto): ma queste regole, chi le ha decise?

In un’epoca maledettamente economicizzata come la nostra, dove tutto ruota attorno alle percentuali, questa domanda ha un evidente nesso col senso politico di tutto. Basti ricordare, come esempio, la celeberrima regola del deficit/pil al 3% che inquadra e decide la nostra vita. Chi ha definito il deficit e il Pil ha, di fatto, determinato la regola nel suo significato politico, e quindi reale, assai più che il limite del 3% in sé.

Mi sono risposto scovando una nota che l’Istat ha diffuso lo scorso 28 gennaio. L’Istat ci informa che a partire da settembre prossimo verrà aggiornata la contabilità nazionale secondo gli standard Sec 2010 che aggiornano i vecchi standard Sec 95, in omaggio al regolamento Ue 549/2013, frutto della silente e laboriosa opera dell’Eurostat e delle varie burocrazie statistiche nazionali.

Il nuovo Sec “fissa in maniera sistematica e dettagliata il modo in cui si misurano le grandezze che descrivono il funzionamento di una economia, in accordo con le linee guida internazionali stabilite nel Sistema dei conti nazionali 2008″. Con l’adozione della nuova classificazione ” in tutti i paesi dell’Ue si procede a una revisione straordinaria dei conti nazionali. In tale occasione, in Italia come in molti altri paesi, vengono anche introdotte modifiche dovute all’aggiornamento e al miglioramento delle fonti informative e delle metodologie di stima”.

Vale la pena ricordare che il Sec, che sta per sistema europeo dei conti, la cui prima versione risale al 1970, riprende in forma comunitaria il sistema dei conti nazionali fissato dalle Nazioni Unite, fino a quel momento utilizzato dagli stati per dare ordine alla propria contabilità. Nel tempo nell’Unione europea ci sono stati vari aggiornamenti, sempre per dar conto dei progressi nella rilevazioni degli aggregati monetari, fino all’attuale revisione che entrerà in esercizio in autunno. Ma quel che vale rilevare è che la forma della contabilità nazionale è stata di fatto adattata a un sistema contabile deciso a livello di organismo sovranazionale addirittura mondiale.

Il Sec, di conseguenza, è stato periodicamente rivisto “in maniera tale da assicurare la comparabilità dei dati dell’Unione con quelli elaborati dai suoi principali partner internazionali”, come leggo nella premessa del Parlamento europeo propedeutica all’approvazione del nuovo regolamento pubblicata il 13 marzo scorso.

Ed eccola qui l’esigenza: avere aggregati monetari comparabili, senza i quali mancherebbe la base di un qualunque discorso comune. In questo modo la statistica, fonte di ogni omologazione, diventa il lievito dell’economia e di ogni politica economica, incoraggiandone le ovvie derive tecnocratiche in virtù delle quali regole di bilancio, elaborate sulla base di definizioni statistiche decise in silenzio da organismi sovranazionali, determinano il futuro dei popoli.

Questo è quello che si dovrebbe sapere, tanto per cominciare, della contabilità nazionale.

Il resto lo vedremo poco alla volta.

 

Vuoi conoscere le bugie dei grandi numeri o ti interessa la genealogia del Pil?