Etichettato: tasso di disoccupazione
L’odissea dei lavoratori anglo-americani
Poiché, piaccia o no, il mondo angloamericano detta la linea del discorso economico globale, vale la pena sforzarsi di capire cosa succede laggiù nel mondo del lavoro, atteso che prima o poi succederà anche qui dopo che i corifei nostrani di tale mainstream ci avranno talmente stordito di chiacchiere che saremo pure contenti di vederlo accadere.
Pochi giorni fa il dipartimento del Commercio americano ha comunicato dati sulla disoccupazione migliori del previsto (il 6,1% contro il 6,3 previsto) che si collocano ben al di sotto della mitica soglia del 6,5 che la Fed, nel lontano dicembre 2012, fissò allorquando si trattò di comunicare al mondo il segnale che avrebbe scatenato il tapering.
La stessa cosa l’avrebbe fatta la Banca d’Inghilterra, ma quasi un anno dopo. Nell’agosto 2013 aveva detto che una volta ridotta sotto il 7% la disoccupazione, avrebbe riconsiderato la sua politica monetaria.
Quello che pochi ricordano, ma che la Bundesbank molto opportunamente sottolinea in un approfondimento sul tema pubblicato nel bollettino di maggio, è che sia le Fed che la BoE prevedevano che tali soglie non sarebbero state raggiunte prima del 2015, la Fed, e del 2016, la BoE.
Senonché, la realtà, come quasi sempre accade, ha smentito tali previsioni. Dell’America ho già detto, mentre la Gran Bretagna è scesa sotto la soglia nel primo quarto del 2014, con grande sconcerto dei banchieri centrali, che sono stati costretti a modificare la loro forward guidance per evitare che i mercati si spaventassero troppo.
Nel frattempo, trascurando quanto sia inquietante la scarsa capacità previsionale delle banche centrali, il mondo applaudiva. Il successo americano e quello inglese sul fronte della disoccupazione ha generato il solito coro di voci all’unisono che ci hanno convinto che le politiche espansive angloamericane hanno fatto diminuire la disoccupazione – il Grande Mostro – ergo: hanno funzionato.
Il caso inglese, in particolare, è diventato icastico di come una severa politica fiscale, che passa per licenziamenti di massa nel pubblico impiego, sia un ottimo viatico per la crescita occupazionale. Di sicuro l’avrete sentito ripetere in qualche talk show.
Senonché, la realtà, oltre a smentire le previsioni, sovente è anche assai diversa da come ce la raccontano, confermando l’amaro paradosso del nostro tempo economicizzato, dove un’affermazione vera (il tasso di disoccupazione che cala) non sempre corrisponde alla realtà che uno si immagina ciò sottintenda (sono aumentati quelli che lavorano). Succede quando si crede che le statistiche descrivano la realtà, quando invece descrivono soltanto i dati che le loro definizioni sottintendono.
Perché ciò non vi appaia filosofico, leggiamoci tutto l’articolo della Buba, che riprende in parte un altro studio rilasciato qualche tempo fa dalla Bce, anch’esso dedicato al mercato del lavoro Usa.
Dopo aver osservato quanto sia difficile fare previsioni sull’andamento del tasso di disoccupazione, specie basandole sulla presunta crescita del Pi, la Buba nota che comunque tale indicatore – il tasso di disoccupazione – non fornisce indicazioni sufficienti sullo stato di salute del mercato del lavoro perché può accadere che pure se il livello di occupazione rimane lo stesso il tasso di disoccupazione scenda perché senza lavoro smettono di cercarne uno.
Per comprendere questa affermazione bisogna ricordare che il tasso di disoccupazione viene definito come un rapporto dopo al numeratore ci sta il numero dei disoccupati e al denominatore la somma di occupati e disoccupati, ossia la forza lavoro. Quindi se i disoccupati diminuiscono, diminuisce il tasso.
Il che è perfettamente logico. Ma ricordatevi che i disoccupati non diminuiscono solo perché trovano lavoro, ma anche perché smettono di cercarlo. Se l’anagrafica statistica non censisce più il disoccupato all’interno della forza lavoro (disoccupati+occupati) perché magari il lavoratore non è più iscritto all’ufficio di collocamento, ciò farà scendere il tasso di disoccupazione esattamente come sarebbe successo se il nostro avesse trovato un lavoro.
Per questo viene calcolato il tasso di partecipazione, che è il rapporto fra la popolazione attiva, di solito i 15-64enni, e la forza lavoro (disoccupati più occupati). Vedete come la rappresentazione statistica differisce dalla realtà di tutti i giorni?
Eppure, con fine espediente retorico, si usa il dato statitistico come se fosse il linguaggio di tutti i giorni e così facendo si confondono i ragionamenti. E se uno dice che è vero che il tasso di disoccupazione è diminuito negli Usa, ma che questo non vuol dire necessariamente che ci sono più persone al lavoro, deve scrivere un post noioso come questo per farsi capire.
I dati d’altronde servono a fare politica, solo che nascondo la loro vocazione dietro la vernice ideologica dell’obiettività scientifica.
Se andiamo a vedere i dati (completi però) relativi al mercato del lavoro americano, che la Buba gentilmente ci mette a disposizione, scopriamo una cosa che sapevamo già: la disoccupazione è calata, per giunta più in fretta di quanto la Fed avesse immaginato, ma il tasso di partecipazione al mercato del lavoro altrettanto.
Su base 100 (anno 2000), l’indice dell’occupazione americana, nei primi del 2014, è ancora sotto al livello del 2007, intorno al 106, nonostante la Fed e la retorica da talk show (televisivo o parlamentare che sia). Vale la pena sottolineare che il tasso di partecipazione al lavoro degli americani è crollato dal 67% del 2000 a meno del 63% del 2014.
Quindi delle due l’una: o la crescita tanto decantata del Pil di questi ultimi anni ha prodotto una gran quantità di milionari che non ha bisogno di lavorare per vivere, o ha prodotto una gran quanttà di lavoratori che non sono più neanche disoccupati: sono scomparsi e basta. Proprio come il vecchio Odisseo, sono partiti per la loro personale Troia e non si sa se e quando torneranno a Itaca. Il tutto, ovviamente, al lordo della varibile demografica.
Se andiamo a vedere il caso inglese, altro pezzo forte dei talk show nostrani, scopriamo che a differenza di quanto accaduto negli Usa il tasso di partecipazione è aumentato, arrivando a sfiorare il 64%. Quindi effettivamente c’è più forza lavoro. E poiché è diminuito il tasso di disoccupazione, è logico dedurne che siano aumentati effettivamente gli occupati.
E infatti è così, ma con un paio di cavet da non sottovalutare.
Il primo, che la Buba molto malignamente ricorda, è che tale aumento “è molto probabilmente dovuto alla persistente debolezza nella crescita della produttività”. Quest’ultima, secondo le previsioni della BoE avrebbe dovuto cominciare a riprendersi, ma rimane ancora al di sotto del livello pre crisi. Tanto è vero che la crescita del prodotto aggregato, che pure è stata rigogliosa in UK negli ultimi trimestri, ha prodotto un equivalente aumento dell’occupazione, provocando un andamento stagnante del prodotto pro-capite, e quindi, appunto, della produttività.
Per dirla con le parole della Buba “la persistente crescita dell’occupazione in UK è il lato macroeconomico nascosto della debole performance della produttività”. Tanto è vero che l’occupazione ha segnato il suo picco a fine 2013 eppure il prodotto è rimasto all’1,5% sotto il livello pre-crisi.
Anche qui, sembra di sfidare il senso comune, ma se vediamo il secondo caveat tutto si chiarisce.
“Bisogna ricordare – sottolinea sempre più malignamente la Buba – che gran parte della crescita dell’occupazione in UK è dovuta all’aumento del numero dei self-employed, che recentemente quotano circa il 15% del totale della forza lavoro, il 2,5% in più della media degli anni 2000-07”.
L’auto-impiegato, magari un ex dipendente pubblico finalmente costretto a confrontarsi col duro mondo del lavoro produttivo, fa crescere le statistiche dell’occupazione, ma magari produce poco e male.
E non finisce qua: ci sono pure i part time, che ormai sono arrivati al 27% (in crescita dell’1,5%), dai quali non ci si può certo attendere una produzione assimilabile a un full time, ma che comunque fanno statistica occupazionale.
A proposito di full time: il numero di coloro che cercano, senza trovarlo, un lavoro a tempo pieno è quasi raddoppiata, negli anni del “miracolo” inglese.
Il lavoratore inglese, insomma, anche lui novello Ulisse, ha iniziato la sua personale odissea verso la sua Itaca: un posto di lavoro a tempo pieno e, non trovandone, si auto-impiega o si rassegna al part time.
Però l’occupazione cresce. Ai talk show i politici fanno faville. Gi economisti teorizzano, i giornalisti scopiazzano, e tutti sono contenti.
Tranne quelli che lavorano.
Lavoro: anche gli americani diventano choosy (grazie anche alla Fed)
Da quando la Fed ha eretto a feticcio della sua politica monetaria il tasso di disoccupazione, tutto il mondo guarda con occhio spasmodico le statistiche mensili Usa, col dito sul mouse pronto a comprare America e vendere resto del mondo non appena suonerà la campanella della fine ricreazione.
La Fed ormai lo sa. E siccome ha sperimentato nel maggio scorso quanto sia pericoloso giocare col fuoco della aspettative, il 19 marzo 2014 il FOMC della banca americana ha stabilito che per cominciare l’exit strategy il tasso di disoccupazione, si, vabbé, ma anche dell’altro, sciorinando altre variabili di tipo qualitativo, che hanno indotto gli operatori finanziari a ipotizzare che la Fed farà il primo ritocco di tassi non prima dell’inizio del 2015, come qualcuno aveva già previsto.
Ciò non toglie che il tasso di disoccupazione americano, arrivato a un rassicurante 6,7% (l’obiettivo Fed era il 6,5%) continui ad esercitare il suo fascino fra gli analisti economici. Non ultimi quelli della Banca centrale europea, che, molto perfidamente, hanno svolto un approfondimento sull’andamento non tanto del tasso di disoccupazione, che è noto, ma su quello di partecipazione.
Ricordo che il tasso di disoccupazione si ottiene dividendo il totale dei disoccupati che cercano lavoro per il totale risultante dalla somma fra lavoratori occupati e disoccupati in cerca di lavoro. Come si vede, la definizione statistica ha poco a che vedere con quella che potremmo trarre dal senso comune, secondo la quale i disoccupati sono quelli che non hanno lavoro e basta.
Ciò in quanto la statistica distingue, per fini statistici, fra coloro che sono senza lavoro perché non lo trovano e quelli che sono senza lavoro perché non lo cercano.
Per distinguere queste due popolazioni è stato creato un altro indicatore, che si chiama tasso di partecipazione, che in pratica si ottiene dividendo il totale degli occupati e dei disoccupati in cerca di lavoro (ossia quella che la statistica chiama forza lavoro) per il totale della popolazione attiva, di solito i 15-64enni.
Un tasso di partecipazione basso vuol dire che la forza lavoro di un paese è bassa. Ma questo non vuol dire che i cosiddetti inattivi siano tutti ricchi rentiers. Può voler anche dire, e questa di solito è la circostanza più comune, che molti hanno rinunciato a cercare lavoro e non si sa bene come vivano. Magari grazie all’assistenza pubblica, va da sé.
Premessa noiosa, ma necessaria per capire l’analisi della Bce.
Quest’ultima nota, sempre più perfidamente, che “gran parte del calo del tasso di disoccupazione, sceso dal 7,9% al 6,7% fra dicembre 2012 e febbraio 2014, va tuttavia ricondotta al minore tasso di partecipazione, che, nel 2013, è diminuito dello 0,8%. Rimangono al tempo stesso su livelli elevati le misure più ampie della disoccupazione comprendenti i “lavoratori scoraggiati” e quelli a tempo parziale che preferirebbero posizioni a tempo pieno, oltre che i disoccupati di lungo periodo. Anche gli andamenti del rapporto fra occupati e popolazione e dei tassi di turnover occupazionali descrivono un quadro meno positivo del mercato del lavoro”.
Chi mastica le cronache economiche avrà già capito dove vuole arrivare la Bce. Ma può essere utile fare un esempio a giovamento di quelli meno abituati a ragionare su queste cose.
Mettiamo che la nostra popolazione attiva sia composta da 10 persone. Di queste, sei partecipano al mercato del lavoro (quindi sono forza lavoro). Di questi sei, cinque sono occupati e uno è disoccupato. Il nostro tasso di disoccupazione lo otteniamo dividendo 1 (numero disoccupati) per la forza lavoro (1+5). Quindi otteniamo che il tasso di disoccupazione è pari a 1/6, ossia al 16,66%.
La banca centrale di quel paese allora inizia a pompare denaro nell’economia al fine, di sicuro nobile, di riportare il tasso di disoccupazione a un livello più basso. Evita accuratamente di parlare di fini più reconditi. Tipo favorire il deleveraging della banche, o far ripartire i mercati finanziari inceppati per mancanza di acquirenti di debiti, o magari rivitalizzare il mercato immobiliare.
Comunque. La conseguenza di tanta premura è che i partecipanti al mercato del lavoro diminuiscono da sei che erano a cinque. Magari perché il nostro unico disoccupato, ormai scoraggiato, ha smesso di cercare lavoro. Sicché si compie il miracolo. Se calcoliamo il nostro tasso di disoccupazione, scopriamo che adesso vale 0/5. Ossai zero.
Giù applausi alla Banca centrale.
Al netto della semplificazione, questo è quanto è accaduto negli Stati Uniti grazie (anche) alle politiche espansive della Fed. Forse perché al mercato del lavoro americano non ha giovato l’overdose di flessibilità inflittagli negli ultimi trent’anni? Alcuni dicono che è così.
Più interessante notare, come nota ormai palesemente maligna, la Bce che “la caduta del tasso di partecipazione osservata negli ultimi anni appare anomala nel confronto con i cicli economici precedenti”. Cicli, in cui, vale la pena sottolinearlo, non c’era ancora il quantitative easing della Fed.
Anzi: “Il tasso di partecipazione, a differenza di quanto osservato in passato, non è migliorato con la ripresa, iniziata nel 2009, ed è anzi diminuito del 3% fra dicembre 2007 e febbraio 2014, mentre nell’area dell’euro è aumentato dell’1,2% fra la fine del 2007 e il terzo trimestre del 2013, con un impatto sfavorevole immediato sul tasso di disoccupazione. Questa caratteristica potrebbe in parte spiegare la divergenza fra gli andamenti del tasso di disoccupazione nell’area euro e negli Stati Uniti”.
Ovviamente, come sempre accade nelle cose statistiche, la demografia, nel caso americano ha giocato un ruolo importante nel calo della partecipazione al mercato, che la Bce stima in circa un terzo del totale. Un altro fattore viene individuato nella crescita degli iscritti ai programmi di copertura previdenziale. Ciò potrebbe aver incoraggiato qualcuno a trasformarsi in inattivo.
Il terzo elemento individuato è stato che “la scarsità di impieghi ha indotto i giovani a proseguire gli studi per migliorare le loro opportunità”. E in effetti la quota di 16-24enni ancora in fase di istruzione è notevolmente aumentata dal 2007 in poi.
Potremmo proseguire con le analisi, ma sarebbe solo un esercizio intelletuale. Vale la conclusione della Bce: “Non bisogna limitarsi al tasso di disoccupazione per monitorare gli andamenti del mercato del lavoro. Un esame più ampio mostra che le condizioni in tale mercato restano nell’insieme deboli e caratterizzate da un eccesso di offerta”.
Per la cronaca, nel 2000 il tasso di partecipazione era di oltre il 67%. Nel 2008 quotava ancora il 66%. Oggi, dopo anni di diluvio monetario, è intorno al 63%. Fra un po’ arriveranno al nostro 55%.
Finalmente si è scoperto il vero valore aggiunto del quantitative easing.
Che poi è l’effetto che fa sempre il denaro facile.
Fa diventare choosy.
Disoccupazione italiana al 13%? Dipende…
Poiché è il Grande Tema, quello dell’occupazione, o meglio della disoccupazione, vale la pena leggersi in un lungo e largo l’ultima indagine campionaria dell’Istat ad essa dedicata, incrociandola magari con i dati eurostat.
Ma otterrete ben poco di diverso dallo sconforto. Con il suo 13% tondo di disoccupati l’Italia supera la media europea e la surclassa in relazione al numero di disoccupati fra i più giovani.
Fin qui il mainstream, al quale neppure questo blog può sfuggire.
Epperò possiamo provare a ragionare e precisare meglio. Ne trarremmo una lezione molto istruttiva circa l’utilità politica della statistica.
Cominciamo da alcune definizioni, che sembrano scontate ma non lo sono affatto: tipo: cos’è il tasso di disoccupazione?
Ne parlano tutti, ma potete scommettere che se provate a chiedere cosa sia molti cambiano discorso. Dicono solo che è al 13%, oppure che sono numeri drammatici. Cose peraltro vere, ma poco indicative.
Cominciamo allora da alcune definizioni. La forza lavoro, spiega l’Istat (che poi è l’emittente) è il totale delle persone occupate e di quelle disoccupate. A questa popolazione statistica si aggiunge quella degli inattivi, ossia di persone che non lavorano né chiedono di lavorare.
Anche sulla definizione di occupati e disoccupati è meglio precisare, visto che il senso comune del termine non coincide necessariamente col senso inteso dall’Istat che, lo ripeto, è l’emittente del dato.
Gli occupati sono le persone dai 15 anni in su che nella settimana di riferimento della rilevazione hanno svolto almeno un’ora di lavoro che preveda un corrispettivo in natura o in denaro, o abbiano prestato la loro opera nella ditta di un familiare nella quale collaborano. A costoro si aggiungono anche gli assenti per ferie e malattie.
I disoccupati comprendono le persone fra i 15 e i 74 anni che hanno effettuato un’azione attiva di ricerca di lavoro nelle quattro settimane precedenti a quella di riferimento e sono disposti a lavorare entro le due settimane successive, oppure che inizieranno a lavorare entro tre mesi dalla settimana di riferimento.
Notate il disallineamento fra l’età di occupazione e quella di disoccupazione.
Dall’esame di queste popolazioni si estraggono il tasso di occupazione, definito nella release Istat come il rapporto del totale degli occupati sul totale della popolazione solo 15-64enne, e il tasso di disoccupazione.
Quest’ultimo si ottiene calcolando il rapporto fra il totale dei disoccupati e il totale della forza lavoro che, lo ricordo, è la somma di occupati e disoccupati.
Tutto chiaro? Bene, guardiamo ai dati di febbraio diffusi dalla stima flash Istat.
Il numero totale degli occupati è di 22 milioni 216mila persone, 39mila in meno rispetto a gennaio e 365mila in meno rispetto a febbraio 2013. Il tasso di occupazione risulta pari al 55,2%, stabile rispetto a gennaio 2014, ma in calo dello 0,8% rispetto a febbraio 2013, e viene calcolato però solo sulla fascia 15-64 anni, mentre il totale si riferisce ai lavoratori dai 15 anni in su.
Per dare un’idea delle grandezze in gioco, possiamo utilizzare il dato relativo all’ultimi trimestre 2013, quando il totale degli occupati era 22.408 migliaia, di cui 21.984 nella classe 15-64 anni e 423 mila in quella degli ultra65enni. Quindi gli ultra 65enni pesavano circa l’1,8% del totale degli occupati.
Se manteniamo questa percentuale come riferimento, possiamo stimare che delle 22.216 migliaia di lavoratori attivi a febbraio 2014 circa 420mila fossero ultra65enni. Sottraendoli dal totale degli occupati (22.216 migliaia), possiamo stimare che gli occupati nella classe 15-64 anni siano circa 21.796 mila.
Prendetelo come un dato di tendenza, in attesa che Istat aggiorni i database. Ci serve solo a sviluppare un ragionamento.
Il numero dei disoccupati (15-74enni) è di 3 milioni 307mila, 8mila in più (+0,2%) rispetto a gennaio e 272mila in più (+9%) rispetto a febbraio 2013.
Per calcolare il tasso di disoccupazione dobbiamo sommare il totale degli occupati (15 anni e più) e dei disoccupati (15-74 anni) per ottenere la forza lavoro, ottenendo così 25 milioni 523mila persone. Quindi dividere il totale dei disoccupati (3.307 migliaia) per la forza lavoro (25.523 migliaia). Arriviamo, al lordo degli arrotondamenti, al 13% che così tanto ha inquietato l’opinione pubblica e che la stampa ha urlato in prima pagina, tanto per far capire al popolo bue che non è più tempo di indugi.
Ma per completare la nostra istruzione dobbiamo ancora fare un passaggio: esaminare la popolazione inattiva. Il glossario Istat ci spiega che sono coloro che non appartengono alla forza lavoro, e che quindi non sono iscritti né nella classe degli occupati né in quella dei disoccupati. Di costoro viene censito il dato relativo alla popolazione di età compresa fra i 15 e i 64 anni, quindi analogo a quello della popolazione attiva.
Ebbene, l’Istat ci dice che a febbraio 2014 il tasso di inattività dei 15-64enni è stato del 36,4%, pari a 14 milioni 365mila persone. Se sommiamo questo dato al tasso di attività, che è il 55,2% sempre per i 15-64enni, otteniamo che il 91,6% delle persone di età fra i 15 e i 64 anni sono occupate o inattive. Per differenza, possiamo dedurne che i senza lavoro (ossia coloro che non sono né occupati né inattivi) sono l’8,4% del totale della popolazione fra i 15 e i 64 anni.
Ma come: i disoccupati non erano il 13%? Certo. Ma perché vengono calcolati con i criteri che abbiamo visto (totale disoccupati fra i 15 e i 74 anni su somma di totali occupati e disoccupati).
A parti inverse, il discorso si può ripetere per l’altro estremo dei disoccupati che così tanto clamore suscita sui giornali: la disoccupazione giovanile.
Stavolta la popolazione di riferimento è quella dei 15-24 anni, dove ci sono quindi molti studenti o universitari. I numeri ci dicono che gli occupati (a febbraio) erano 923mila, i disoccupati 678mila e gli inattivi 4 milioni 393mila. Complessivamente, quindi, la popolazione di riferimento conta 5 milioni 994 mila 15-24enni. Un numero così alto di inattivi non deve stupire, visto che si tratta di popolazione in età scolare.
Quindi il tasso di occupazione (totale occupati/totale popolazione) risulta pari al 15,4%, 0,2% in meno rispetto a gennaio e -1,7% rispetto a febbraio 2013.
Il tasso di disoccupazione giovanile (numero disoccupati/totale occupati+disoccupati) risulta pari al 42,3%, in calo dello 0,1% rispetto a gennaio 2014 ma in aumento del 3,6% rispetto a febbraio 2013.
Quanto agli inattivi, il tasso di inattività risulta pari al 73,3%, lo 0,4% in più rispetto a gennaio 2014 e l’1,2% in più rispetto a febbraio 2013.
Questi giovani sfaticati: non solo non lavorano ma sono pure (statisticamente) inattivi.
Qualcosa di più lo scopriramo guardano i valori assoluti.
Gli occupati giovanili sono diminuti di 107 mila unità rispetto a febbraio 2013, i disoccupati sono aumentati di 27mila, e gli inattivi di 46mila. Mancano all’appello 34 mila giovani che non risultano censiti né fra i disoccupati né fra gli inattivi.
Dove sono finiti? Teoricamente non lavorano, né cercano lavoro, possiamo ipotizzare che siano tornati a studiare o che non facciano neanche quello. O forse sono scappati all’estero. O magari sono morti. O, più semplicemente, hanno compiuto gli anni e sono finiti nella classe successiva dei non più giovani. Ma comunque parliamo di 34 mila giovani su una popolazione censita di 5 milioni 994mila persone.
Questo per dire che la statistica, a differenza di quanto si pensi, dà solo i numeri, ma non spiega un bel niente. E utilizzarla come sostegno di un qualunque ragionamento è una raffinata forma di retorica.
Ultima riflessione. I 923 mila occupati fra i 15-24 enni ci consentono di conoscere il numero totale degli occupati nella popolazione 25-64enne, ossia quella core del mercato del lavoro. Se li sottraiamo al totale dei lavoratori occupati (22.216 migliaia) otteniamo 21.293 migliaia di lavoratori occupati nella fascia 25-64 anni.
Con ciò ovviamente non voglio dire che il lavoro non sia un problema nel nostro Paese. Al contrario. Ma solo compiere una piccola opera di riposizionamento del problema e dell’uso strumentale che si fa dei numeri.
Come diceva un tale, se torturi abbastanza la statistica confesserà qualunque cosa.
E tutti le crederanno.