Etichettato: puzzle della produttività inglese
Se la disoccupazione diventa “volontaria”
Mi trovo a sfogliare noiose statistiche inglesi, quando l’occhio mi cade su un grafico che racconta del miracolo economico vissuto in quel mercato del lavoro.
Ve lo racconto perché mi ha fatto riflettere su una curiosa evoluzione che pare si stia sviluppando sottotraccia nel nostro dibattere economico, e che, a quanto pare, delinea la più elementare (ed esemplare) soluzione al grave problema della disoccupazione europea, e italiana in particolare.
Mi spiego. Il grafico delinea l’andamento dei mercato del lavoro inglese dal 2008, suddiviso nelle sue varie componenti, ossia lavoratori a tempo pieno, parti time e self-employed, ossia persone che si sono messe in proprio.
Fatto 100 l’indice dell’impiego nel 2008, osservo che ai giorni nostri la curva è arrivata un po’ sotto 105, quindi semplificando potremmo dire che l’occupazione nel settennio considerato è crescita intorno al 5%, che di questi tempi è un risultato straordinario, solo che si pensi ai nostri tassi di disoccupazione.
Se guardiamo la curva dei lavori full time, osserviamo però che che fino alle metà del 2014 è scesa sotto 100, e soltanto dalla seconda metà in poi è risalita, posizionandosi pochi punti sopra.
La curva dei lavori part time ci racconta ancora un’altra storia. Dopo essere rimasta intorno a 100 per un anno, ha iniziato a salire, anche se con un andamento poco brillante, per arrivare nel 2015 poco sopra la media generale, poco più del 5%.
La crescita più esaltante la osservo guardando la curva dei self-employed, che rimane sotto 100 fino alla metà del 2009 e poi inizia a crescere senza sosta, arrivando a sfiorare 120 nella seconda metà del 2014 e scendendo poco sotto ai primi di quest’anno.
Ne deduco che gran parte della crescita dell’occupazione nel mercato inglese dipende da loro: quelli che si sono messi in proprio. E non è strano che sia così: una volta che un lavoratore si mette in proprio e si cancella dalla lista dei disoccupati, automaticamente la sua posizione non viene più conteggiata nelle statistiche della disoccupazione.
Ma se è così’, mi dico fra il serio e il faceto, è assai facile debellare la disoccupazione: basta convincere i lavoratori a mettersi in proprio e a cancellarsi dalle liste di disoccupazione.
Ed eccolo qui il pensiero che si fa strada: la disoccupazione, gratta gratta, è un fenomeno volontario. Quindi se il lavoratore rimane disoccupato è perché lui lo vuole e non si dà da fare aprendo una qualsiasi attività.
Questo argomento difficilmente verrà sostenuto da qualcuno con chiarezza, viste le implicazioni sociali che porta con sé. Però è bene imparare a riconoscerlo fra le righe.
Questa curiosa evoluzione statistica, tuttavia, porta con sé una conseguenza che gli economisti chiamano “puzzle della produttività”.
Un altro grafico, infatti, ci mostra l’andamento del Pil inglese, cresciuto del 4% dal 2008, e lo confronta con la produttività pro capite che, fatto 100 l’indice del 2008, viaggia da allora sotto quel livello.
Mi sorge allora un altro pensiero: uno può pure autoimpiegarsi e così far scendere la disoccupazione. Ma ciò non vuol dire che riesca a produrre e vendere qualcosa che sia statisticamente significativo.
La statistica è una cosa. La realtà un’altra.
Faremmo bene a tenerlo a mente.
Memorie d’Albione: Il puzzle della produttività
Comincio a credere sul serio che qualcosa di profondo si sia rotto, nel meraviglioso mondo del processo economico globale, mentre sfoglio l’ultimo survey dell’Ocse sul Regno Unito pubblicato qualche giorno fa.
Se anche la patria del capitalismo si trova a essere finita nelle parti basse della classifica del Doing business, e deve pure fare i conti con una produttività declinante che necessita delle solite riforme strutturali, allora mi viene da pensare che il nodo, che tanti ipotizzano sia alla base di una stagnazione secolare, sia assai più complicato da dipanare di quanto una qualsiasi report sullo stato dell’economia tenda a semplificare.
Ancor di più mi stupisco quando leggo l’Ocse esortare il Regno Unito ad aprire le sue frontiere agli immigrati. Ma non immigrati qualsiasi, sia chiaro, ma di qualità. Sembra proprio che il futuro dei lavoratori europei passi per una perfetta padronanza di almeno due lingue, meglio tre, a cominciare dall’inglese, e da alte specializzazioni capaci, queste sì, di aumentare la produttività, che poi è il feticcio più di moda del nostro tempo.
Nel caso inglese, poi, la questione è veramente secolare.
Il declino della produttività inglese è cominciato assai prima che l’erompere della crisi finanziaria lo abbia conclamato.
Un grafico sommarizza l’andamento degli investimenti inglesi, che poi dovrebbero essere un volano della produttività, a partire dal 1971. Qui osservo come la curva degli investimenti sul Pil sia rimasta pressoché stagnante intorno al 20% del Pil, fino al termine degli anni ’80, quando il livello arrivò a superare di poco il 25%.
Da allora il declino è stato sostanziale. Già nella seconda metà degli anni ’90 il rapporto investimenti/pil era sceso sotto il 20%. La curva ha proseguito il suo declino fino alla seconda metà degli anni 2000, quando gli investimenti si sono contratti bruscamente a causa della crisi senza risalire significativamente. Ora siamo intorno al 15%.
Se leggiamo questo grafico in parallelo con l’andamento della produttività del lavoro scopriamo anche altre cose.
Dal 1998 in poi la crescita della produttività è stata declinante, da meno del 3% annuo a poco più dell’1%, guidata al ribasso dall’andamento incerto dei TFP, ossia i fattori totali della produzione.
La produttività si impenna fra il 2002 e il 2003, guidata sempre dai TFP, per poi tornare bruscamente al suo trend, fino a quando non diventa negativa fra il 2008 e il 2009 con l’esplodere della crisi.
La ripresa della produttività arriva già nel 2010. si riporta al livello del 2007, salvo tornare a diminuire fino a tonrare negativa nel 2012 e solo leggermente positiva l’anno successivo.
Che tale andamento si sia accoppiato a una significativa crescita dell’occupazione è quello che gli esperti chiamano il puzzle della produttività inglese, e che viene usualmente spiegato con la circostanza che l’aumento dell’occupazione si sia registrato in attività a basso valore aggiunto, o tramite meccanismi di impiego flessibili che rendono poco dal punto di vista della produttività.
In sostanza: si lavora di più ma si produce meno di prima.
Infatti l’Ocse nota che “le riforme strutturali hanno rinforzato l’offerta di lavoro”, circostanza che un profano come me interpreta come una chiara perdita per il fattore lavoro. “Le riforme del welfare, delle pensioni e dell’immigrazione hanno abbassato la quota salari – sottolinea l’Ocse – e il declino della sindacalizzazione ha ridotto il potere contrattuale del lavoro”. Che è come dire che poiché i lavoratori sono più flessibili, e quindi più economici, è stato più semplice aumentare l’occupazione.
C’è sempre il lato oscuro della forza. E nel caso inglese ciò ha coinciso con la stagnazione della produttività. “La recente crescita del lavoro – sottolinea – è stata parzialmente concentrata fra gli individui che hanno una produttività minore della media o che hanno accettato lavori che richiedono meno skill o che si son auto-impiegati”.
Insomma: gli inglesi lavorano (per) meno ma lavorano (quasi) tutti. Tanto è vero che la produttività è rimasta sottotono anche se l’occupazione ha pressoché recuperato il livello pre-crisi e il totale delle ore lavorate pure, pur con rilevanti differenze fra i vari settori.
Che questo fosse l’esito delle economie occidentali post-crisi qualcuno lo aveva già sospettato.
Ma quel che qui conta osservare è quale sia la risposta che l’economia inglese dovrebbe mettere in campo per invertire questa tendenza “secolare”.
La risposta è semplice (a dirsi): il primo punto è sviluppare l’economia basata sulla conoscenza. Insomma: puntare su un lavoro di qualità, quindi per sua natura estremamente produttivo.
“Sono necessarie riforme per sviluppare l’offerta e liberare la produttività”, osserva l’Ocse. Che nel caso dell’UK significa migliorare il sistema educativo, ma anche la qualità dell’accesso finanziario alle start up. “Politiche a favore di un’economia della conoscenza potrebbero incoraggiare gli immigrati altamente qualificati a lavorare e vivere in UK. E ciò potrebbe compensare la mancanza di competenze aumentare la produttività”.
Un discorso che ho sentito ripetere più volte, non solo in UK. L’import di cervelli come soluzione per la crisi dell’Occidente, senza neanche pensare a una qualche forma di contropartita per gli esportatori, ossia quei paesi dove quei cervelli sono nati, cresciuti e hanno studiato, che hanno solo da perderci.
Mi chiedo che futuro abbiano i lavori non skillati, se mi passate il termine, che almeno una volta potevano emigrare.
Ma ancor di più mi colpisce scoprire come nella classifica Doing business mentre in generale il Regno Unito conquista un ottimo ottavo posto sui 189 disponibili, si trova 45esimo in quella che misura la facilità di iniziare un’impresa, 68esimo il quello che misura la facilità di registrare una proprietà e 70esimo in quella che misura la facilità di avere l’elettricità.
Insomma, gli inglesi hanno tanto lavoro da fare per diventare produttivi.
Ma al momento sembrano distratti.
(2/segue)
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L’odissea dei lavoratori anglo-americani
Poiché, piaccia o no, il mondo angloamericano detta la linea del discorso economico globale, vale la pena sforzarsi di capire cosa succede laggiù nel mondo del lavoro, atteso che prima o poi succederà anche qui dopo che i corifei nostrani di tale mainstream ci avranno talmente stordito di chiacchiere che saremo pure contenti di vederlo accadere.
Pochi giorni fa il dipartimento del Commercio americano ha comunicato dati sulla disoccupazione migliori del previsto (il 6,1% contro il 6,3 previsto) che si collocano ben al di sotto della mitica soglia del 6,5 che la Fed, nel lontano dicembre 2012, fissò allorquando si trattò di comunicare al mondo il segnale che avrebbe scatenato il tapering.
La stessa cosa l’avrebbe fatta la Banca d’Inghilterra, ma quasi un anno dopo. Nell’agosto 2013 aveva detto che una volta ridotta sotto il 7% la disoccupazione, avrebbe riconsiderato la sua politica monetaria.
Quello che pochi ricordano, ma che la Bundesbank molto opportunamente sottolinea in un approfondimento sul tema pubblicato nel bollettino di maggio, è che sia le Fed che la BoE prevedevano che tali soglie non sarebbero state raggiunte prima del 2015, la Fed, e del 2016, la BoE.
Senonché, la realtà, come quasi sempre accade, ha smentito tali previsioni. Dell’America ho già detto, mentre la Gran Bretagna è scesa sotto la soglia nel primo quarto del 2014, con grande sconcerto dei banchieri centrali, che sono stati costretti a modificare la loro forward guidance per evitare che i mercati si spaventassero troppo.
Nel frattempo, trascurando quanto sia inquietante la scarsa capacità previsionale delle banche centrali, il mondo applaudiva. Il successo americano e quello inglese sul fronte della disoccupazione ha generato il solito coro di voci all’unisono che ci hanno convinto che le politiche espansive angloamericane hanno fatto diminuire la disoccupazione – il Grande Mostro – ergo: hanno funzionato.
Il caso inglese, in particolare, è diventato icastico di come una severa politica fiscale, che passa per licenziamenti di massa nel pubblico impiego, sia un ottimo viatico per la crescita occupazionale. Di sicuro l’avrete sentito ripetere in qualche talk show.
Senonché, la realtà, oltre a smentire le previsioni, sovente è anche assai diversa da come ce la raccontano, confermando l’amaro paradosso del nostro tempo economicizzato, dove un’affermazione vera (il tasso di disoccupazione che cala) non sempre corrisponde alla realtà che uno si immagina ciò sottintenda (sono aumentati quelli che lavorano). Succede quando si crede che le statistiche descrivano la realtà, quando invece descrivono soltanto i dati che le loro definizioni sottintendono.
Perché ciò non vi appaia filosofico, leggiamoci tutto l’articolo della Buba, che riprende in parte un altro studio rilasciato qualche tempo fa dalla Bce, anch’esso dedicato al mercato del lavoro Usa.
Dopo aver osservato quanto sia difficile fare previsioni sull’andamento del tasso di disoccupazione, specie basandole sulla presunta crescita del Pi, la Buba nota che comunque tale indicatore – il tasso di disoccupazione – non fornisce indicazioni sufficienti sullo stato di salute del mercato del lavoro perché può accadere che pure se il livello di occupazione rimane lo stesso il tasso di disoccupazione scenda perché senza lavoro smettono di cercarne uno.
Per comprendere questa affermazione bisogna ricordare che il tasso di disoccupazione viene definito come un rapporto dopo al numeratore ci sta il numero dei disoccupati e al denominatore la somma di occupati e disoccupati, ossia la forza lavoro. Quindi se i disoccupati diminuiscono, diminuisce il tasso.
Il che è perfettamente logico. Ma ricordatevi che i disoccupati non diminuiscono solo perché trovano lavoro, ma anche perché smettono di cercarlo. Se l’anagrafica statistica non censisce più il disoccupato all’interno della forza lavoro (disoccupati+occupati) perché magari il lavoratore non è più iscritto all’ufficio di collocamento, ciò farà scendere il tasso di disoccupazione esattamente come sarebbe successo se il nostro avesse trovato un lavoro.
Per questo viene calcolato il tasso di partecipazione, che è il rapporto fra la popolazione attiva, di solito i 15-64enni, e la forza lavoro (disoccupati più occupati). Vedete come la rappresentazione statistica differisce dalla realtà di tutti i giorni?
Eppure, con fine espediente retorico, si usa il dato statitistico come se fosse il linguaggio di tutti i giorni e così facendo si confondono i ragionamenti. E se uno dice che è vero che il tasso di disoccupazione è diminuito negli Usa, ma che questo non vuol dire necessariamente che ci sono più persone al lavoro, deve scrivere un post noioso come questo per farsi capire.
I dati d’altronde servono a fare politica, solo che nascondo la loro vocazione dietro la vernice ideologica dell’obiettività scientifica.
Se andiamo a vedere i dati (completi però) relativi al mercato del lavoro americano, che la Buba gentilmente ci mette a disposizione, scopriamo una cosa che sapevamo già: la disoccupazione è calata, per giunta più in fretta di quanto la Fed avesse immaginato, ma il tasso di partecipazione al mercato del lavoro altrettanto.
Su base 100 (anno 2000), l’indice dell’occupazione americana, nei primi del 2014, è ancora sotto al livello del 2007, intorno al 106, nonostante la Fed e la retorica da talk show (televisivo o parlamentare che sia). Vale la pena sottolineare che il tasso di partecipazione al lavoro degli americani è crollato dal 67% del 2000 a meno del 63% del 2014.
Quindi delle due l’una: o la crescita tanto decantata del Pil di questi ultimi anni ha prodotto una gran quantità di milionari che non ha bisogno di lavorare per vivere, o ha prodotto una gran quanttà di lavoratori che non sono più neanche disoccupati: sono scomparsi e basta. Proprio come il vecchio Odisseo, sono partiti per la loro personale Troia e non si sa se e quando torneranno a Itaca. Il tutto, ovviamente, al lordo della varibile demografica.
Se andiamo a vedere il caso inglese, altro pezzo forte dei talk show nostrani, scopriamo che a differenza di quanto accaduto negli Usa il tasso di partecipazione è aumentato, arrivando a sfiorare il 64%. Quindi effettivamente c’è più forza lavoro. E poiché è diminuito il tasso di disoccupazione, è logico dedurne che siano aumentati effettivamente gli occupati.
E infatti è così, ma con un paio di cavet da non sottovalutare.
Il primo, che la Buba molto malignamente ricorda, è che tale aumento “è molto probabilmente dovuto alla persistente debolezza nella crescita della produttività”. Quest’ultima, secondo le previsioni della BoE avrebbe dovuto cominciare a riprendersi, ma rimane ancora al di sotto del livello pre crisi. Tanto è vero che la crescita del prodotto aggregato, che pure è stata rigogliosa in UK negli ultimi trimestri, ha prodotto un equivalente aumento dell’occupazione, provocando un andamento stagnante del prodotto pro-capite, e quindi, appunto, della produttività.
Per dirla con le parole della Buba “la persistente crescita dell’occupazione in UK è il lato macroeconomico nascosto della debole performance della produttività”. Tanto è vero che l’occupazione ha segnato il suo picco a fine 2013 eppure il prodotto è rimasto all’1,5% sotto il livello pre-crisi.
Anche qui, sembra di sfidare il senso comune, ma se vediamo il secondo caveat tutto si chiarisce.
“Bisogna ricordare – sottolinea sempre più malignamente la Buba – che gran parte della crescita dell’occupazione in UK è dovuta all’aumento del numero dei self-employed, che recentemente quotano circa il 15% del totale della forza lavoro, il 2,5% in più della media degli anni 2000-07”.
L’auto-impiegato, magari un ex dipendente pubblico finalmente costretto a confrontarsi col duro mondo del lavoro produttivo, fa crescere le statistiche dell’occupazione, ma magari produce poco e male.
E non finisce qua: ci sono pure i part time, che ormai sono arrivati al 27% (in crescita dell’1,5%), dai quali non ci si può certo attendere una produzione assimilabile a un full time, ma che comunque fanno statistica occupazionale.
A proposito di full time: il numero di coloro che cercano, senza trovarlo, un lavoro a tempo pieno è quasi raddoppiata, negli anni del “miracolo” inglese.
Il lavoratore inglese, insomma, anche lui novello Ulisse, ha iniziato la sua personale odissea verso la sua Itaca: un posto di lavoro a tempo pieno e, non trovandone, si auto-impiega o si rassegna al part time.
Però l’occupazione cresce. Ai talk show i politici fanno faville. Gi economisti teorizzano, i giornalisti scopiazzano, e tutti sono contenti.
Tranne quelli che lavorano.