Le metamorfosi dell’economia: Un nuovo benessere

“La prosperità di tutti è la condizione della prosperità di ciascuno”, scriveva a metà del XIX Federico Bastiat nelle sue Armonie economiche, uno dei tanti libri dimenticati che mi fa dubitare della saggezza dei nostri contemporanei, che individuano in quelli che Bastiat chiamava “sistemi artificiali” la soluzione ai problemi della nostra contemporaneità. E rimpiango quel tempo, non tanto perché si stesse meglio di oggi – è vero il contrario – ma perché esistevano questi filosofi sociali, che oggi chiamiamo economisti, che non scrivevano equazioni ma ricordavano l’elementare verità che l’economia e quindi, in ultima analisi, anche il benessere sociale dipendono dal sistema morale che condividiamo. Credevano ancora che fosse lo spirito a determinare la materia, a differenza nostra che risolviamo ogni cosa con un modellino econometrico.

Oggi a noi, difatti, sono rimasti solo questi “sistemi artificiali”, ossia ciò che chiamiamo politiche economiche, che possono essere fiscali, monetarie, industriali, eccetera. Ma il succo rimane: è prevalsa l’idea che entità a noi aliene – i governi, i mercati, le banche centrali – decidano il nostro futuro a un livello sempre più profondo, con la conseguenza che siamo cresciuti credendo che poco possiamo fare per cambiare ciò che non ci piace o, addirittura, fare quello che ci piace. Come se davvero fossimo nati per patire l’economia e contentarci di dilettarci con le sue produzioni materiali.

Non è così: ognuno di noi ha il diritto e il dovere di star bene. O quantomeno di provarci, offrendo se stesso agli altri per quello che è, non per quello che dovrebbe essere secondo quanto hanno deciso altri. Questo spiega perché mi sia intrattenuto così a lungo con le metamorfosi dell’economia. E perché abbia deciso di ripercorrere dalla sua origine il filo della riflessione economica a partire dalla ragione che l’ha motivata: la ricerca e la diffusione del benessere.

Perché è la ricerca del benessere che ci spinge all’economia. “Se potessimo disporre, a tempo e a luogo, della quantità di beni necessaria a soddisfare direttamente i nostri bisogni elementari non appena si presentano, come in una specie di paradiso terrestre non ci sarebbe bisogno di economia,”, scriveva nel 1871 Carl Menger nei suoi celebri Principi.

Tutto questo non è cambiato. Stare bene, ieri come oggi, significa, oltre a godere di buona salute, avere di che vivere superando l’urgenza dei bisogni elementari, visto che siamo creature complesse. La sfida del nostro tempo dovrebbe essere riuscirci svolgendo un’attività che ci sia congeniale. Riscoprire le virtù dell’ozio creativo e così facendo produrre reddito anche con la creazione di un nuovo potere di scambio. E questo non lo dico io, che sono solo una piccola voce nel deserto, ma lo mostra anche l’Ocse, che di recente ha rilasciato uno dei suoi tanti studi su ciò che rende la nostra unica vita meritevole di essere vissuta. Alla fine non si scopre nulla di nuovo: per star bene serve ciò che è ragionevole aspettarsi, quindi salute, reddito e relazioni soddisfacenti. E questi tre principi cardinali, che hanno guidato le riflessioni di tanti economisti del passato, hanno ispirato anche questa lunga narrazione che oggi si conclude.

Tutto ciò per dire che il nostro nuovo benessere, che così tanto somiglia al vecchio, dobbiamo iniziare a immaginarlo prima che si possa riuscire ad ottenerlo, e quindi prima ancora bisogna desiderarlo. Ma in maniera attiva. Quindi assumendosene la responsabilità in tutte le età della nostra vita adulta. Occorre smettere di credere che dipenda dalla generosità di un governo o dai misteriosi capricci del mercato. Dipende da ognuno di noi. Ed è possibile raggiungerlo solo in collaborazione con gli altri.

L’egotismo malato del XX secolo è l’anti-benessere per eccellenza che ci ha condotto al delirio dell’Egonomia, e alle sue rappresentazioni meccaniche e inconcludenti che oggi vengono contemplate con stupore dagli stessi che le hanno determinate. L’economia non vive nei modelli matematici – e già Sismondi lo diceva quasi duecento anni fa – e non vive nel governo o nei mercati: vive nelle persone. Quindi solo dalle persone può sgorgare la melodia di quell’armonia economica che Bastiat, con poco successo, provò a intonare due secoli fa.

Perché si riesca occorre superare gli steccati sterili della specializzazione, specie quella economica, e terremotare benignamente l’organizzazione sociale. Dare agli stati ciò che è degli stati e al mercato ciò che è del mercato, ritagliandosi lo spazio per una nuova organizzazione capace di supplire alle deficienze dell’uno e dell’altro. Conquistarsi lo spazio del dissenso costruttivo: isole di libertà capaci di sopravvivere fra i continenti delle istituzioni tradizionali.

Tanti segnali sono incoraggianti, e ne abbiamo parlato. Altri potrebbero indurci a rinunciare e a rassegnarsi. Ma prima di rassegnarci dobbiamo ricordare quanto questa pratica sia assolutamente malsana: il contrario del nuovo benessere che abbiamo tentato di immaginare. La rassegnazione provoca risentimento, e il risentimento indebolisce la nostra capacità di relazionarci creativamente con gli altri. La qualcosa, oltre a evidenti deficit emotivi, finisce col provocare anche deficit nei bilanci pubblici e privati. Sarà un gran giorno quando ricorderemo che gli scompensi delle contabilità, pubbliche e private, sono il mascheramento degli scompensi morali della nostra società. E anche questo i primi economisti lo dicevano forte e chiaro. Ma noi, sedotti dal Golem, lo abbiamo dimenticato. Ci hanno insegnato a ragionare per aggregati – come se fossero cose reali mentre non lo sono affatto – e quindi abbiamo spersonalizzato ciò che è invece personalissimo: ossia il modo in cui fissiamo i nostri bisogni e quello in cui proviamo a soddisfarli. Perché se è vero quello che diceva Bastiat, è vero pure il contrario: la prosperità di ognuno è la condizione della prosperità di tutti. Comprendere che in una comunità l’uno e gli altri condividono la stessa sorte è la vera evoluzione che dobbiamo sperare di raggiungere per traghettarci verso il nuovo benessere che dovremmo augurarci.

Questa raccolta di pensieri non pretende di essere l’ennesima teoria o inventare miracolose soluzioni semplici a problemi che sono complessi. Si contenta di delineare una prassi basata su un principio elementare: abbiate cura di voi stessi e ricordate che per avere cura di se stessi serve l’aiuto degli altri, e quindi agli altri serve il vostro per avere cura di sé. Questo è il cuore dell’economia, che sullo scambio, motivato dalla soddisfazione dei bisogni dello stomaco, ha costruito la sua complessa rete di mestieri che la testa ha trasformato in costrutto teorico per prevedere a anticipare i bisogni e addirittura massimizzarne la soddisfazione. La naturale paura del futuro, che ci spaventa come tutto ciò che è ignoto, ci ha imprigionato in una ragnatela di pensieri morti che piano piano hanno essiccato il cuore.

Oggi i nostri stomaci sono sazi abbastanza e la nostra testa sfinita e impotente a furia di ragionare. Ciò che manca all’economia, che infatti langue, oggi, è il cuore, ossia la capacità di immaginarsi in relazione con gli altri e lavorare per gli altri. Si accumula denaro che produce altro denaro e null’altro, e poi si alimenta l’ingordigia.

Tornare a praticare il cuore in economia, dopo che per secoli ci siamo sfiniti con le astrazioni dell’intelletto mentre ci riempivamo la pancia è una pratica di pura igiene. Quindi molto consigliata a chi vuole star bene. Peraltro è facile. Basta guardarsi intorno. E ricordarsi di vedere.

(29/segue)

Capitolo precedente   Conclusione

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