Le metamorfosi dell’economia: Le seduzioni del mercato
Il dogma dell’efficienza dei mercati, e quindi della necessità delle loro onnipresenza, è sicuramente uno fra i più riusciti della religione secolarizzata che contraddistingue la modernità. Pensare al mercato come un’entità perfetta auto regolante, peraltro, ha avuto il vantaggio di risparmiare un sacco di scocciature analitiche ai pensatori d’economia, che, evitandole, si sono divertiti, e lo fanno tuttora, coi loro modellini matematici svolgendo un’apoteosi di “come se” per spiegare con teorie impossibili il funzionamento possibile di cose che non funzionano. Con ciò dimostrando di ignorare, per dolo o colpa grave, la sostanziale differenza fra il calcolo economico e quello matematico che obbediscono a logiche e linguaggi differenti, un po’ come il ritratto pittorico e quello fotografico. L’economia parla matematica perché lo ha dimenticato.
Nel tempo ovviamente l’ideologia del mercato perfetto ha conosciuto alti e bassi, specie da quando, negli anni ’30, la teologia del laissez faire fu seriamente danneggiata dall’ironia corrosiva di Keynes e dalla sua osservazione che i mercati potevano pure raggiungere l’equilibrio, ma nella sotto occupazione, che certo non era un mostro di efficienza. Oggi le opinioni sono le più disparate, ma sostanzialmente sempre le stesse. Da una parte i mercatisti, che odiano lo stato perché interviene nello splendido gioco del mercato, e dall’altra gli interventisti, che odiano il mercato perché lo considerano veicolo di ingiustizie distributive e varie bassezze.
Poiché si tratta dell’ennesima guerra di religione, è poco utile partecipare al dibattito, mentre può esserlo notare come la dicotomia fra stato e mercati sia profondamente ingannevole. Mercatisti e statalisti, infatti, condividono la stessa convinzione: l’economia in fondo abita nel mercato, discutendosi semmai di strategie di contenimento. Ciò dimostra che la seduzione dei mercati è una delle meglio riuscite, in quanto a persistenza, degli ultimi secoli.
Ne discende che nessuno, in questo inizio di XXI secolo, direbbe mai che la produzione può essere più efficiente se realizzata fuori dalla logica del mercato. L’ingrediente della storia, d’altronde, si è incaricato di rendere indigeribile qualunque ricetta economica diversa da questa. Sicché la mitologia del mercato si è incistata dentro di noi come una malattia che ci rende a malapena capaci di immaginare altro.
Che sia un malanno dello spirito, questa seduzione mercatista, è evidente a chiunque si soffermi a pensarci sopra, cominciando col porsi una semplice domanda: ma il mercato cos’è?
Poiché ho grande rispetto per le enciclopedie, che considero i magazzini della nostra memoria, mi servo di una definizione che mette gentilmente a disposizione la Treccani on line. Alla parola mercato scrive: “In senso concreto il mercato è il luogo dove avvengono le contrattazioni per la vendita e l’acquisto di determinati prodotti e dove normalmente si incontrano, tutti i giorni, o in giornate stabilite, compratori, venditori e intermediari per effettuare transazioni commerciali relative a merci varie o anche a una sola merce. Per estensione, mercato è anche l’insieme degli operatori legati tra loro in determinati rapporti d’affari o, sotto altro aspetto, l’insieme delle operazioni relative a un determinato bene o gruppo di beni”. Quindi i mercati sono luoghi, più o meno virtuali, dove venditori e compratori si incontrano e si scambiano qualcosa utilizzando di solito la moneta come intermediario. Se un chilo di pane costa un euro, un euro rappresenta un chilo di pane e se qualcuno ha voglia di pane, può scambiare qualcosa di cui dispone, a cui il mercato riconosce il valore di un euro, e comprarsi il pane di cui ha bisogno.
Questa semplificazione ci dice una cosa: mi rivolgo ai mercati quando ho bisogno di qualcosa e posso dare qualcos’altro in cambio, usualmente moneta. Se è così identificare, come molti fanno, l’economia col mercato vuol dire trasformare l’economia in business, come scrive acutamente Silvano Petrosino nel suo Elogio dell’uomo economico. Il che è una grossolana e purtroppo ormai per noi intuitiva – semplificazione. E’ evidente che, a meno di considerarmi costantemente alla ricerca di qualcosa, – che poi è la tanto deprecata deriva consumistica cui tende il sistema – non è possibile esaurire l’attività economica nello scambio. Pensateci un attimo: quanto tempo nel corso della vostra giornata passate al mercato, un qualunque mercato? E quando non siete al mercato vuol dire che la vostra mente economica è spenta?
E’ evidente che rispondere a questa domanda implica avere le idee chiare su cosa sia l’economia, ossia una di quelle cose che, erroneamente diamo per scontate. Per adesso contentiamoci di ricordare che usualmente coltiviamo dei bisogni e che la nostra mente economica elabora – calcola – costantemente delle soluzioni. Poi, a un certo punto, ci rivolgiamo ai mercati (ma non solo) per soddisfarli. Ed è in questo rivolgerci che entriamo nell’economia dei mercati, che ha le sue regole – sulle quali peraltro non c’è neanche grandissima intesa – e la sua mitologia.
La mitologia fondante l’economia dei mercati è l’epopea dei prezzi. I prezzi sono i segnali che emergono dal magma delle contrattazioni e hanno il ruolo di remunerare i vari partecipanti al gioco. Perciò capire la formazione dei prezzi è stato sempre il Santo Graal dell’economia di mercato. Per riuscirci gli antichi, così come i moderni, si sono serviti di una delle astrazioni meglio riuscite alla nostra mente economica: il gioco della domanda e dell’offerta.
Si dubita di tutto, nella teoria economica, tranne che della legge della domanda e dell’offerta. Il dogma dei mercati, a ben vedere, si basa su questa relazione. La domanda e l’offerta stanno all’economia come i principi di Euclide alla geometria. Con la differenza che mentre esiste una geometria non euclidea non riusciamo neanche a pensare un’economia senza una domanda e un’offerta, ossia le categorie che incarnano lo scambio. Come se fosse quest’ultimo il fine dell’economia, quando è evidente che così non è: lo scambio è uno strumento dell’economia. Il fine dell’economia è l’economia stessa.
Chi ha letto la Politica di Aristotele, che fu probabilmente il primo a discorrere di economia, ricorda che letteralmente economia significa “governo della casa” e soprattutto la distinzione fra economia e crematistica, ossia l’arte di acquistare e di scambiare anche tramite denaro col fine di arricchirsi. In pratica ciò che oggi chiamiamo economia. Comprendere questa differenza dovrebbe aiutarci a capire che non c’è scambio senza che prima ci sia stata economia, mentre può esserci economia senza scambio. Ed ecco la prima seduzione dei mercati. Ci fanno credere di essere l’economia. Tale seduzione, ormai pandemica, ha determinato il predominio del principio della domanda e dell’offerta nel discorso economico, ossia la pulsione elementare di scambiare beni, con squisite dissertazioni circa l’ipotesi che l’offerta crei la domanda o il contrario senza che ci sfiori neanche il dubbio che entrambe le proposizioni siano vere. Un difetto del nostro intelletto, che esclude siano entrambi vere due proposizioni opposte, ci ha condotto a una concezione difettosa della realtà.
Ma la cosa più soprendente è che, pure se pensiamo il contrario, questa fantomatica legge non la vediamo mai all’opera. Non almeno come ce l’hanno raccontata. Non esiste alcun automatismo nella formazione dei prezzi che miracolosamente mette d’accordo domanda e offerta, né domanda e offerta, sempre automaticamente, si incontrano a un certo livello di prezzo. I prezzi vengono fissati e si muovono sopra e sotto in maniera erratica, esprimendo tutt’al più delle tendenze. Domanda e offerta sono distinguibili in teoria, come la luce dal buio. Ma nell’agire economico tali opposti si confondono. Analizzare separatamente la domanda e l’offerta è come provare ad ascoltare il rumore di una mano sola quando due mani applaudono, per ricordare un vecchio detto.
Questa meraviglioso equivoco, che ha l’enorme vantaggio di somigliare alla realtà, purtroppo ne nasconde un’altro che investe la conformazione che i mercati hanno preso nel tempo.
Ed è in questa conformazione che il mercato svela un’altra delle sue seduzioni. Forse la più ingannevole.
(13 /segue)
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È singolare che che in parte dell’Europa qualcuno abbia il potere di escludere dalla legge del mercato, incontro fra domanda ed offerta, proprio il bene che quantifica il valore degli altri beni: la moneta. Che sia la dimostrazione che non si tratta di legge di mercato ma del più forte?
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salve,
non sono certo di aver compreso la sua osservazione. ma che sia la legge del più forte e non quella del mercato a reggere la rappresentazione economica mi pare fuor di dubbio.
grazie per il commento
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La produttività dei vari sistema-paese si riflette sul valore delle varie monete. Se produco bene ed esporto tanto la mia moneta si apprezzerà ma, per conseguenza, i miei beni diventeranno meno competitivi e viceversa: il sistema si autoregola. Essendo la moneta unica una media del valore delle ex monete nazionali, fissa una volta per tutte, il suo valore è basso per alcuni e alto per altri; agevolando le esportazioni dei più forti a danno degli altri accentua il divario senza possibilità di autoregolazione.
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salve,
l’autoregolazione dei mercati appartiene alla loro mitologia, come osservavo nel pezzo che ha avuto la gentilezza di commentare. la serie delle metamorfosi vuole esplorare un modo diverso di esaminare l’economia che si lasci alle spalle teorie come quella che lei opportunamente illustra. spero che vorrà concedersi una lettura d’evasione dai consueti schemi interpretativi della realtà ;).
in ogni caso, grazie per il suo commento
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