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La fragile occupazione del settore turistico italiano


La crisi profonda vissuta a causa della pandemia dal nostro settore turistico ha manifestato con grande chiarezza la fragilità dell’occupazione di questo segmento che ha il doppio svantaggio di essere numericamente significativa e difficilmente ricollocabile, a causa delle proprie caratteristiche. Talché ancora oggi, quando si inizia a intravedere qualche spiraglio di miglioramento, la questione di questi lavoratori, tanto numerosi quanto poco qualificati, rimane centrale nel nostro discorso pubblico.

Non è certo un caso che Bankitalia se ne occupi nella sua relazione annuale, svolgendo alcune simulazioni che aiutano a comprendere quanto la sorte di questi lavoratori sia problematica. Paradossalmente, le radici del problema originano proprio dal notevole successo che questa categoria ha avuto negli anni passati. Negli anni fra il 2014 e il 2019, infatti, gli occupati del settore sono cresciuti del 24%, contribuendo per un sesto alla crescita globale dell’occupazione italiana.

Questo successo ci dice molto del nostro mercato del lavoro, che ancora in larga parte dipende da un’occupazione poco qualificata e ancor meno produttiva, per tacere della stabilità di queste professioni. Nel turismo, infatti, trovano lavoro soprattutto le donne, che pesano circa la metà dei dipendenti, e i giovani, con qualifiche basse e contratti brevi, per lo più di durata stagionale.

Interessante osservare che i lavoratori impiegati nei settori di alloggio e ristorazione hanno la stessa probabilità di conservare l’occupazione dopo tre anni dal primo impiego rispetto ad altri dipendenti occupati in servizi privati non finanziari, ma hanno una probabilità inferiore di spostarsi in altri settori. Ciò a dimostrazione del fatto che si tratta di un’occupazione alquanto “rigida”, oltre che fortemente stagionalizzata. Anche qui, molto dipende dalle sue caratteristiche.

Bankitalia ha provato a stimare questa “mobilità” intersettoriale dell’occupazione nel settore ricettivo. Svolgendo alcune simulazioni ha ricavato un dato secondo il quale un teorico azzeramento della domanda di lavoro nel settore ridurrebbe del 13% la probabilità di un lavoratore di essere occupato nell’arco dei tre anni successivi. “L’economia italiana – scrive la Banca – potrebbe quindi assorbire solo parzialmente gli effetti del calo della domanda del
settore turistico, anche per le scarse qualifiche dei lavoratori ivi impiegati”. Il grosso di queste ricollocazioni “avverrebbe soprattutto verso altri servizi (supporto alle imprese, commercio) e la manifattura, comparti in cui la domanda di lavoro non ha finora mostrato chiari segnali di ripresa”.

Il problema è che i comparti che hanno mostrato una maggiore vitalità nel 2020, come le costruzioni e i trasporti via terra, richiedono competenze che i lavoratori del turismo non posseggono: non a caso in questi settori in crescita risultano meno presenti i giovani e le donne.

In generale, quindi, solo il turismo riesce ad assorbire questa occupazione. Ma sarebbe saggio, in un’ottica di lungo periodo, pensare a come impostare politiche attive e di formazione per mettere in grado di aiutare questi lavoratori a spostarsi verso altri settori. Perché il Covid – speriamo presto – finirà e la domanda di lavoro nel settore turistico tornerà a crescere. Ma non è affatto detto che riuscirà ad assorbire tutte quest’occupazione marginale.

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Se gli italiani divorziano dalla grande città


L’ultima relazione di Bankitalia contiene, come di consueto, un breve approfondimento dedicato all’andamento del mercato immobiliare che nell’anno orribile del Covid è andato peggio di prima ma molto meglio di quanto si potesse immaginare. Le compravendite sono diminuite, in gran parte nella prima metà dell’anno, quando il lockdown in pratica impediva l’attività degli agenti immobiliari, ma nel secondo semestre c’è stata una certa ripresa che ha riportato un po’ di sereno in un settore strategico della nostra economia.

Le prospettive non sono ancora entusiasmanti, come si può osservare dal grafico in alto a destra. Dalle varie indagini campionarie si deduce che gli operatori vedano ancora diversi mesi in chiaroscuro prima che la domanda e l’offerta tornino a incontrarsi riportando i prezzi su un trend di crescita.

Ma aldilà del dato economico, è la tendenza sociale emersa nel secondo semestre scorso a meritare un approfondimento. Sia nel secondo semestre 2020 che dalle rilevazioni dei primi mesi del 2021 emerge con chiarezza la preferenza degli acquirenti per i comuni minori, dove la domanda di abitazione è stata elevata, a differenza di quella nelle grandi città. “Il recupero delle transazioni negli ultimi due trimestri del 2020 ha riguardato soprattutto le abitazioni indipendenti e quelle di maggiore dimensione, in prevalenza collocate nelle aree a bassa densità abitativa”.

Ovviamente è prematuro trasformare una preferenza in una tendenza, tantomeno in una tendenza di lungo periodo. Ma sarebbe un errore sottovalutarla. Come nota opportunamente la Banca, “poiché l’acquisto di un immobile è una delle scelte economiche più importanti (e meno frequenti) delle famiglie, e riflette dunque anche considerazioni di lungo termine, le variazioni già osservate delle preferenze suggeriscono che almeno una parte dei nuclei valuti le nuove modalità lavorative come non transitorie”.

Alla base di questa ricomposizione ci stanno i cambiamenti indotti dalla pandemia, smart working in testa. Che evidentemente molti nuclei familiari giudicano come definitivo, al punto da orientare le proprie scelte di investimento verso i centri che, con minore spesa, possono garantire loro un miglioramento abitativo: una casa più grande, o magari indipendente; un giardino o altre comodità. E tali orientamenti “potrebbero mantenersi anche in futuro, soprattutto se le trasformazioni dell’organizzazione del lavoro divenissero o fossero ritenute in prospettiva permanenti”.

Il problema è che questo possibile esodo si compie ai danni della grande città. Nel 2020, sottolinea la Banca “la distribuzione della domanda nel contesto geografico dei sistemi locali del lavoro ha registrato una netta ricomposizione dalle zone più centrali a favore di quelle periferiche”. Su questa scelta probabilmente incide anche il vincolo di portafogli: non tutti possono permettersi di comprare una casa centrale. Però è un fatto che fino a prima del Covid questo vincolo veniva eluso o con un maggiore indebitamento, o con pretese più basse per l’immobile.

La pandemia, invece, ha cambiato proprio questo orientamento. E’ evidente che se questa tendenza divenisse persistente, per le economie delle grandi città si potrebbe preparare un periodo molto difficile. La metropoli, come scriveva Lewis Mumford negli anni ’30 del XX secolo, vive soprattutto dei profitti della congestione, che, fra le altre cose, implica una costante rivalutazione della rendita immobiliare. I frutti di questa rendita, scriveva l’urbanista-sociologo, vengono in gran parte raccolti dai ceti più ricchi, che anche grazie ai vantaggi offerti dalla metropoli hanno costruito la loro fortuna.

Seguendo la linea di questo ragionamento, l’esodo dalla grande città rischia di far scoppiare una bolla che si gonfia da decenni, per non dire da secoli, ossia da quando si è imposto il modello delle metro-megalopoli, delle quali l’esempio più lampante è quello delle capitali, che attraggono masse crescenti di cittadini con la promessa di opportunità che poi si sostanziano in notevoli oneri, a cominciare da quelli immobiliari, e faticose transumanze quotidiane nel tragitto casa-lavoro che rubano ore di vita e generano costi economici (e quindi ricavi per qualcuno) ed esternalità ambientali.

Il fatto che Mumford ne scrivesse un secolo fa non vuol dire che il problema sia stato risolto: al contrario. Gli interessi costituiti attorno alla capacità delle grandi città di generare ricchezza, in sostanza per quelli che sono già ricchi – un aspetto della diseguaglianza raramente sotto i riflettori -, hanno costantemente impedito che si generassero nuovi modelli di convivenza. L’esperienza Covid, semmai, ha solo permesso di ricordare a molte persone che la qualità della vita significa poter disporre di spazio, aria buona e città più a misura d’uomo nelle quali, come hanno scritto in molti, in un quarto d’ora si riesce ad arrivare dovunque. Le città giardino dei primi del XX secolo, per fare un esempio.

Per la grande città, quindi, e insieme per i ceti che devono a lei la loro fortuna, la tendenza a decentrarsi di molti, che neanche devono sottoporsi alla corvée del pendolarismo, è una autentica minaccia esistenziale. Abbiamo già osservato come lo smart working, oltre a spostare le famiglie fuori dai centri urbani, diminuisca anche la domanda di immobili direzionali e commerciali, oltre alla domanda di servizi che prosperano nell’affollamento cittadino: si pensi ai bar popolati dai pendolari nelle pause pranzo. Il tutto implica una costante erosione delle base fiscale della metropoli che ne rende insostenibile l’amministrazione quindi in sostanza la stessa sopravvivenza. La cronache di qualche anno fa raccontavano con raccapriccio la desertificazione di Detroit e gli effetti deleteri vissuti dalla municipalità. Di recente qualcosa del genere si è visto anche a New York.

Insomma l’esodo dalla grande città, in nome di una maggiore vivibilità, significa innanzitutto l’impoverimento della grande città a vantaggio dei centri più periferici. Significa il miglioramento della vita di alcuni a svantaggio di altri che finora hanno approfittato delle varie rendite, a partire da quella immobiliare, generate dalla metropoli.

Il problema è capire se le esigenze di chi vuole vivere meglio avranno la meglio su chi vuole mantenere lo status quo. Se la classe media e medio-alta che può fare smart working – abbiamo visto che questo “privilegio” è limitato a circa un terzo della forza lavoro – avrà forza sufficiente per trasformare la preferenza in una tendenza collettiva. O se magari i pochi che vivono già una condizione abitativa soddisfacente nella grandi città, perché magari possono permettersi una villa in centro, basteranno a frenare l’esodo che distruggerebbe il valore dei loro asset.

Il fatto che i primi siano tanti e i secondi pochi non garantisce che i tanti avranno la meglio. Anzi, la storia, solitamente scritta dalle élite, suggerisce il contrario.

La carta più che il mattone alimenta la ricchezza degli italiani


L’ultima relazione annuale di Bankitalia ci consente di fare il punto sulla ricchezza delle famiglie italiane a fine 2019, prima vale a dire che i bilanci familiari fossero scossi dalla pandemia. Si tratta di una ricognizione utile perché tratteggia, aldilà delle circostanze, alcuni trend che caratterizzano l’identikit economico della nostra società.

Il primo di questi trend ha a che fare col rapporto fra ricchezza finanziaria e ricchezza reale. Fra carta e mattone, potremmo dire. Dai dati emerge che ormai il driver della ricchezza delle famiglie, cresciuta complessivamente dell’1,9% in termini reali nel 2019, è assai più la carta del mattone, Quest’ultimo, infatti, sconta gli esiti di una crisi che sembra interminabile, e che ha condotto a un calo dello 0,5% del valore reale del patrimonio immobiliare nel 2018. Una tendenza confermata anche nel 2019.

Il calo dei prezzi, che in qualche modo ha incoraggiato l’aumento delle compravendite, favorite anche dal livello molto basso dei tassi di interesse, ha eroso ancora la ricchezza immobiliare delle famiglie, ossia quello che era da sempre considerato il punto di forza degli italiani, malgrado sia notoriamente illiquida.

Oggi non è più così. Il mattone gioca sempre un ruolo importante nei bilanci familiari, ovviamente, ma è la finanza a regalare qualche soddisfazione. Nel 2019, infatti, la ricchezza finanziaria è cresciuta del 5,2% grazie al rialzo dei titoli, portando le attività finanziarie al 42% della ricchezza totale lorda, per un valore medio pari a 3,7 volte il reddito disponibile. Un valore elevato, rispetto al confronto con i nostri partner europei, ma molto inferiore a quanto fosse nel 2007, ossia prima delle grande crisi finanziaria e quella dell’euro.

Il grafico sopra di sinistra ci consente di osservare la ricchezza finanziaria in rapporto al reddito, in sostanziale stagnazione dal 2013 a oggi, mentre quello di destra ci da un’idea di come siano investiti questi attivi. In particolare ci comunica un’informazione molto interessante: per le famiglie italiane, se consideriamo la riclassificazione degli attivi filtrati dal risparmio gestito – quindi l’esposizione indiretta delle famiglie a questi attivi – i bond pubblici rimangono un asset importante. I tanti che chiedono agli italiani di comprare più bond pubblici, dovrebbero tenerne conto, anche se la parte del leone la fanno i conti correnti.

Dal 2007 in poi il peso specifico dei depositi, infatti, è cresciuto del 7%, individuandosi in questa crescita un altro trend che sembra ormai consolidato del nostro rapporto con la ricchezza finanziaria. Gli italiani vogliono rimanere liquidi, pure se ciò ha un evidente costo/opportunità che potrebbe persino aumentare in futuro. Queste preferenza per i depositi può dipendere da vari fattori, non ultimo dal fatto che esiste una liquidità diffusa che però non riesce ad esprimere una massa critica meritevole di investimento finanziario. Milioni di conti correnti con piccole somme, piuttosto che conti correnti milionari.

A fronte di ciò nel 2019 le famiglie hanno venduto obbligazioni bancarie, e questo individua un’altra tendenza che prosegue da anni, che ha interrotto la lunga consuetudine delle famiglie con questi strumenti finanziari: una anomalia nel panorama internazionale. Ma sono stati venduti anche altri asset. E questo ha contribuito ad alimentare un altro trend ormai evidente: quello della crescita del risparmio gestito.

La quota del risparmio gestito, infatti, è passata dal 19,8 delle risorse allocate nel 2007 al 31,6% del 2019. Evidentemente le famiglie hanno capito che conviene affidarsi a professionisti dell’investimento, visto che le vecchie consuetudini – ad esempio l’investimento obbligazionario “semplice” – non sono più remunerative. E probabilmente molti hanno capito che il risparmio gestito consente la diversificazione dei rischi. E infatti nel 2019 l’esposizione diretta e indirette delle famiglie verso i titoli esteri è arrivata al 21,1%. Anche di questa tendenza i tanti che invitano gli italiani a investire “patriotticamente” dovrebbero tenere conto.

Ma poiché la ricchezza netta dipende in maniera sostanziale anche dal livello dei debiti, è osservando quest’ultimo che troviamo un’altra tendenza che ormai si può dire faccia parte della nostra storia: il livello basso del debito privato, che però nel 2019 è cresciuto del 3,5%, portandosi al 61,9% del reddito disponibile, molto al di sotto della media dell’EZ (95%), “soprattutto – spiega Bankitalia – in ragione del volume più basso dei finanziamenti per l’acquisto delle abitazioni”. A marzo 2020, infatti, il totale dei debiti verso banche e società finanziarie era di poco superiore a 621 miliardi di euro.

Tutto si tiene, insomma: compriamo meno case, e quindi calano i prezzi del mattone, siamo meno indebitati di conseguenza e questo tiene basso il livello globale dei debiti. Ma questa “virtù” è conseguenza di un “vizio”: non riusciamo a esprimere dinamismo sul mercato immobiliare che è uno dei motori della crescita economica. E molto probabilmente ciò ha a che fare con il livello dei redditi, ancora moderato.

L’altra voce che fa crescere i debiti, ossia il credito al consumo, è in crescita dell’8,6%, proseguendo un’altra tendenza che va avanti dal 2015. Nel 2019 “l’incidenza di questi debiti sul reddito disponibile è stata superiore in Italia rispetto alla media dell’area (12,9 e 10,5 per cento da 9,2 e 11,4 nel 2007, rispettivamente). Ma vale la pena sottolineare che “la quota di questi finanziamenti riferita alle famiglie con reddito basso è diminuita”. Sono insomma le famiglie più ricche a far ricorso a queste pratiche.

Il grafico sopra ci comunica un’altra informazione interessante: la quota di credito al consumo sul totale della popolazione è in calo significativo in tutti i paesi osservati rispetto al 2008.

Ricapitoliamo. Le famiglie italiane sono meno ricche del 2007, con più carta e meno mattone – in valore – nel portafoglio. Questo le espone ai capricci dei mercati finanziari, ovviamente. Più di un terzo di questi asset sono impiegati in depositi bancari, per prudenza o semplice distribuzione orizzontale della ricchezza. Le famiglie sono sempre poco indebitate, ma più di prima, e soprattutto perché hanno meno mutui sulle spalle, e molti sono stati ricontrattati per pagare meno interessi. Il credito al consumo non ha ancora recuperato il livello del 2008.

Che ci dice tutto questo? Che siamo ancora ricchi, ma dipende un po’ dal mercato, un po’ dal fatto che teniamo le redini tirate. E si vede.

L’anno del record (in euro) dei conti esteri italiani


Poiché avremo prevedibilmente una certa tendenza a deprimerci, mano a mano che le statistiche ufficializzeranno il disastro di questo 2020, vale la pena usare un po’ di tempo semplicemente per ricordare che prima della pandemia, ossia un secolo fa, la nostra economia esibiva il record storico del suo saldo corrente dai tempi della nascita dell’euro.

Tutto questo, vale la pena sottolinearlo, mentre usavamo una valuta che per molti è l’origine di tutti i nostri mali (quali?), ma che evidentemente non ci ha impedito di chiudere la nostra contabilità con l’estero, ché questo misura il saldo corrente, con un attivo di 52,9 miliardi, il 3% del Pil, “il valore più alto dall’avvio dell’Unione monetaria”, come ricorda Bankitalia nella sua ultima relazione.

Il grosso della fatica di questo avanzamento – nel 2010 avevamo un saldo negativo di quasi il 4% del Pil – lo ha fatto il settore esportatore che, malgrado l’euro (o forse proprio grazie all’euro) ha generato un avanzo sulla bilancia dei beni di 56,9 miliardi e un minore disavanzo dei servizi per 1,8 miliardi. Notevole anche il progresso dei redditi primari, ossia i rendimenti dei nostri investimenti esteri, che hanno generato un reddito netto. Una tendenza iniziata nel 2016 che ha rallentato leggermente nel 2019 dopo un triennio di crescita, ma generando comunque 14,9 miliardi di saldo positivo.

E’ utile sapere che il settore turistico ha giocato, sempre nel 2019, un ruolo molto importante, nella nostra bilancia dei pagamenti. La spesa dei turisti esteri in Italia è cresciuta del 6,2%, mentre non riusciamo a colmare il disavanzo dei trasporti, arrivato a 9,8 miliardi.

Ovviamente il persistente andamento positivo del saldo corrente ha migliorato drasticamente la nostra posizione patrimoniale netta sull’estero, che rappresenta il saldo dei nostri attivi patrimoniali esteri e dei debiti patrimoniali che abbiamo con l’estero, che è ancora negativa ma solo per l’1,7% del Pil. Vicina insomma al pareggio. La qualcosa è un segnale di stabilità finanziaria per noi molto importante, vista la sensazione di fragilità che promana dalla nostra situazione fiscale. Per dare un’idea del progresso fatto in questi anni, basta ricordare che dal 2013 abbiamo recuperato 22 punti di pil su questa voce.

Ricordare questi numeri non serve tanto a piangere sul latte versato di un anno ormai passato, ma a capire che, per quanto il contesto sia diventato avverso, e perciò fonte di dati che non sarà piacevole leggere, l’economia italiana ha le gambe robuste abbastanza da riprendere lo slancio dopo il brutto inciampo della pandemia. A patto però di comprendere la lezione che arriva da questi numeri.

La prima cosa che bisogna capire è che gli scambi con l’estero sono per noi importantissimi. Ossia è importante essere non soltanto capaci di permeare l’estero con le nostre produzioni, ma di essere permeabili a nostra volta, esattamente come è successo fino ad ora. Questo vale per le merci, ma anche per i servizi e i capitali.

La seconda cosa sulla quale bisognerebbe almeno meditare riguarda le numerose tentazioni di trovare scorciatoie. Ieri era la moneta sovrana, oggi la cancellazione dei debiti nel sue varie possibili forme. Domani i prestiti più o meno gratis. Finora non sono state le scorciatoie a portare avanti la nostra economia, ma un lavoro intelligente e coraggioso. Abbiamo dimostrato di esserne capaci. Non c’è motivo perché questo cambi. Pandemia o no.

Brexit, conto salato per le famiglie britanniche


Quando, prima o poi, torneremo a parlare di qualcos’altro che non siano virus e pandemie magari ci ricorderemo che fra gli abissi della nostra distrazione si è annidato uno dei processi storici più rilevante del secolo: la Brexit.

Di tanto in tanto arrivano dalle cronache arrivano allarmi più o meno fondati sull’esito dei negoziati che dovrebbero condurre entro la fine dell’anno dal divorzio consensuale oppure, in caso di mancato accordo, a una rottura traumatica delle relazione fra Ue e Uk, che oltre a non avere senso geografico, e tantomeno geoeconomico, non alcun senso storico.

E tuttavia, poiché la ragion politica ha finito col prevalere, tanto vale provare a conteggiare quali saranno le conseguenze per chi abita in Europa, sia in un caso – ossia accordo – che nell’altro, esplorando pure vari scenari intermedi, approfittando di una simulazione preparata da Bankitalia.

La Banca ipotizza alcuni scenari: 1) un accordo di libero scambio che esclude l’imposizione di dazi, ma comunque inasprisce le barriere non tariffarie; 2) il mancato raggiungimento di un accordo e l’imposizione nell’interscambio bilaterale degli stessi dazi applicati dalla UE ai paesi con i quali non sono in vigore specifici accordi commerciali, in base alla “clausola della nazione più favorita” del WTO; 3) una variante del precedente scenario, in cui, in linea con quanto annunciato dal governo nel marzo 2019, il Regno Unito rimuove unilateralmente i suoi dazi sulla maggioranza dei prodotti importati, introducendone solo su specifici beni manifatturieri (tra cui gli autoveicoli) e su alcune produzioni agricole.

Nello scenario 1) il volume complessivo delle esportazioni diminuirebbe del 2% per l’Ue e del 13,3% nell’Uk. Nello scenario 2) del 2,6% e del 19,3%, qualcosa meno nel terzo scenario.

Ma ciò che è più interessante osservare è  l’effetto che la Brexit si stima avrà sulle reddito delle famiglie nei diversi paesi.

“In tutti gli scenari – scrive Bankitalia – la riduzione del reddito disponibile sarebbe eterogenea tra le economie della UE: per i quattro maggiori paesi sarebbe molto contenuta anche in caso di mancato accordo; per l’Italia si collocherebbe intorno allo 0,3 per cento, con variazioni trascurabili fra i tre scenari. Per alcuni paesi – Malta, Lussemburgo e Irlanda – la flessione sarebbe più marcata e maggiore di quella stimata per il Regno Unito, a causa di una limitata diversificazione geografica dei loro legami commerciali e di un intenso interscambio con il Regno Unito in prodotti caratterizzati da
un’elevata elasticità di prezzo, come i servizi”.

Come si può osservare saranno, con l’eccezione di Malta, Lussemburgo e Irlanda,  le famiglie britanniche quelle che pagheranno il conto più salato. La libertà ha un prezzo, d’altronde. I britannici scopriranno il loro.

Miti del nostro tempo: Il moltiplicatore degli investimenti


L’esplorazione delle mitologie economiche che finiscono con l’alimentare quelle politiche che ormai conduciamo da qualche tempo, non poteva trascurarne una fra le più persistenti: quella del moltiplicatore degli investimenti. A cominciare da quelli pubblici, ovviamente, per la semplice ragione che costoro sono la banderina preferita dei politici in campagna elettorale e il modo più presentabile che hanno trovato per impegnare risorse fiscali, e quindi consenso. Chiunque frequenti le cronache politiche di questi anni, sarà cresciuto sentendo risuonare nelle orecchie frasi come questa: “Bisogna aumentare gli investimenti pubblici ad alto moltiplicatore per garantire più crescita e occupazione”.

Più che lecito perciò, domandarsi quanto pesi davvero questo moltiplicatore. Quantificare, però, è esercizio difficile e spesso frustrante. Comprensibile che i politici se ne esimano, come d’altronde hanno fatto anche molti economisti del passato, divenuti famosi declamando le virtù della spesa pubblica senza mai sottolinearne i vizi. Ma per fortuna ci sono anche gli economisti pignoli come quelli di Bankitalia che proprio in chiusura dell’ultima relazione annuale hanno dedicato un breve approfondimento al tema che ci consente finalmente di capire di cosa stiamo parlando. O almeno in parte.

Senza bisogno di farla troppo lunga, diamo un’occhiata alle premesse a quindi vediamo i risultati. La premessa “filosofica” è nota sin dai tempi di Keynes. “Se un aumento degli investimenti pubblici migliora il contesto esterno in cui operano le imprese, si determina un incremento  della produttività del lavoro e della redditività del capitale privato che ne sospinge l’accumulazione, favorendo così l’aumento del Pil nel medio e lungo periodo”. Quindi se – e notate se – l’investimento pubblico migliora il contesto, eccetera eccetera. Bankitalia sottolinea inoltre che pure la politica monetaria ha il suo impatto, a seconda se sia accomodante o restrittiva. E pure questo ormai fa parte del senso comune.

Quanto agli effetti, “la stima dell’impatto macroeconomico della maggiore spesa per investimenti è generalmente riassunta dal valore del moltiplicatore, ossia della variazione percentuale del Pil generata da un incremento persistente (solitamente ipotizzato tra i cinque e i dieci anni) della spesa pubblica pari all’1 per cento del prodotto effettuato in disavanzo”. Quindi si parte da un’ipotesi secondo la quale per un decennio si investe in disavanzo l’1% del pil. La tavola sotto riepiloga i risultati.

Bene: “Il moltiplicatore degli investimenti pubblici è elevato (compreso tra 1 e 1,8 nel medio periodo) nel caso in cui le condizioni monetarie e finanziarie rimangano invariate e le risorse stanziate si traducano in maniera tempestiva ed efficiente in aumenti del capitale pubblico”. Quindi l’effetto miracoloso – 1,8 euro di prodotto per ogni euro investito – in una forbice piuttosto ampia e in un arco di tempo lungo, si verifica se nel frattempo la politica monetaria rimane distesa e il “sistema” digerisce con grande efficienza l’investimento. Circostanze alquanto ipotetiche. Bankitalia ne è talmente consapevole che sottolinea come “tali stime debbano essere interpretate come un limite superiore: in presenza di inefficienze nei processi di spesa le stesse analisi indicano valori inferiori del moltiplicatore, compresi tra 0,7 e 1,3”. Lascio alla vostra immaginazione ipotizzare quanto siano efficienti i processi di spesa in Italia.

Nella valutazione “realistica” che fa Bankitalia “il moltiplicatore di medio termine sarebbe compreso tra 1,1 e 1,5 nell’ipotesi di piena efficienza della spesa”. E anche qui, sulla piena efficienza della spesa meglio stendere un velo pietoso.

Notevole la conclusione: “un valore più elevato (1,8) potrebbe essere raggiunto se l’incremento della spesa fosse coordinato tra i paesi dell’area dell’euro, grazie all’aumento della domanda aggregata e a condizione del permanere dell’attuale orientamento accomodante della politica monetaria, legato alla bassa inflazione”.

Insomma: mutualizzare il debito, e grazie anche al contributo della Bce, favorirebbe la magica moltiplicazione. Il mito si internazionalizza. Ma rimane un mito.

Cartolina: Toccata e fuga di capitali dall’Italia


Le fughe di capitali si somigliano tutte, almeno all’inizio. E infatti l’episodio di maggio 2018, come lo chiama benignamente Bankitalia, ricalca, nel primi due mesi del suo svolgersi, la profondità e la virulenza del più devastante episodio iniziato a luglio 2011, che si concluse dopo oltre un anno e costò al sistema Italia un salasso di capitali notevolissimo. Basti ricordare che tutti i sottoscrittori di debito pubblico italiano, incluse banche e assicurazioni, vendettero titoli, in quell’episodio, arrivando a disfarsi del 32 per cento dello stock iniziale. Le banche italiane videro calare la propria raccolta sull’interbancario internazionale di 130 miliardi, il saldo Target 2, che misura i nostri scambi di valuta con l’estero, peggiorò di 286 miliardi. Diversamente, l’episodio di maggio 2018, dopo un paio di mesi nel corso dei quali i disinvestimenti dai titoli di stato italiani raggiunsero i 90 miliardi, ha trovato una parvenza di equilibrio, pure se al costo di uno spread più elevato, che peraltro non è neanche bastato a riportare in Italia tutti gli investitori esteri. Toccata di nuovo con mano la nostra fragilità finanziaria, i capitali stanno sull’uscio. Pronti alla fuga.

C’è sempre più estero negli investimenti finanziari delle famiglie italiane


Fra le tante informazioni utili che si possono leggere sfogliando l’ultima relazione annuale di Bankitalia, vale la pena segnalare quelle raccolte attorno a una questione che pare stia diventando sempre più strategica nella gestione del dibattito pubblico, ossia la ricchezza delle famiglie italiane. Da quando le cattive condizioni della finanza pubblica sono diventate un tema d’interesse internazionale infatti – ossia da quasi un trentennio – i salvadanai degli italiani sono l’argomento preferito dei politici. Quasi che gli uni compensassero l’altra, e chissà se un giorno non sarà davvero così.

In attesa di scoprirlo, è interessante sapere cosa ne pensino gli interessati, ossia le famiglie, e quindi osservare le loro scelte di investimento, che sono un ottima cartina tornasole per provare a indovinare dove si diriga la fiducia degli italiani.

Cominciamo da un’osservazione generale. “Tra le principali economie dell’area dell’euro, l’Italia è il paese che nel
2018 ha registrato il maggiore calo delle attività finanziarie nel portafoglio delle famiglie”, sottolinea Bankitalia, specificando che “la perdita di valore delle attività finanziarie, pari nell’anno al 4,4 per cento e a oltre 190 miliardi è stata recuperata per meno della metà con l’aumento dei corsi nei primi mesi del 2019”.

La performance peggiore che si è registrata nel nostro paese dipende da vari fattori, ovviamente, interni ed esterni. Ma ciò che è emerso è che nella seconda parte del 2018 le famiglie hanno ridotto gli investimenti in attività finanziarie per circa il 20% del totale, per un importo pari a 37 miliardi. Sono cresciuti i depositi a vista e gli acquisti di polizze assicurative a rendimento minimo garantito. Al contrario sono state vendute azioni e sono diminuite anche le quote di fondi comuni sottoscritti.

E’ interessante osservare che “nonostante la volatilità dei prezzi, sono tornati a crescere gli acquisti di titoli di Stato che garantiscono rendimenti alti ai risparmiatori che li mantengono in portafoglio fino alla scadenza”. La tabella sotto riepiloga lo stato degli attivi nel 2018 nel confronto con l’anno precedente. Come si può osservare la quota di titoli pubblici è passata dal 3 a, 3,3%.

L’aspetto più interessante, tuttavia, è l’accresciuta propensione delle famiglie a sottoscrivere quote di fondi comuni e previdenziali diversi dal Tfr. Nel 2018 queste quote hanno raggiunto il 31% del totale, a fronte del 17 del 2017. “Questi strumenti hanno consentito ai risparmiatori di diversificare maggiormente i rischi del portafoglio, anche attraverso più ampi investimenti sui mercati internazionali”. E questo è un punto saliente. “Sebbene le attività verso residenti rimangano largamente prevalenti, – spiega Bankitalia – le attività verso non residenti registrano un aumento rilevante, dall’11 al 24 per cento del portafoglio finanziario”.

La conclusione a cui arriva Bankitalia, ossia che le famiglie spostano sempre più all’estero i propri risparmi, si ricava riclassificando gli attivi secondo un metodo econometrico (look through) che permette di conoscere le attività sottostanti ai prodotti del risparmio gestito. Si tratta di uno strumento che ha qualche limite, ma che comunque consente di osservare con maggior finezza i flussi lordi degli investimenti, andando a vedere su quali asset i gestori indirizzino i loro acquisti.

Bankitalia ha svolto un confronto fra i dati del 2014 e quelli del 2018 (tabella sotto) che ci consente di avere alcune informazioni.

La prima, più evidente, è che c’è stato un calo rilevante del peso del comparto obbligazionario, 14 punti percentuali, in parte guidato dalle obbligazioni bancarie, pure se le obbligazioni rimangono la componente prevalente (65%) del portafoglio delle famiglie. “Il calo delle obbligazioni – spiega la Banca – è riconducibile ai titoli di Stato italiani e alle obbligazioni bancarie; è invece aumentato il peso delle obbligazioni estere, in particolare di quelle emesse da società non finanziarie”. Quanto a queste ultime è emerso che tramite il risparmio gestito le famiglie hanno investito in obbligazioni emesse da imprese non finanziarie Usa e francesi.

Insomma, pure se la voglia di Btp è tornata timidamente ad affacciarsi nele preferenze della famiglie, quella di investire all’estero è stata assai più robusta. Prima l’Italia è facile a dirsi. Comprare prima l’Italia è un po’ più difficile a farsi.

La crisi ha fatto nascere imprese più robuste in Italia


Se non fosse ormai un luogo comune dire che le crisi nascondono opportunità, sarebbe la degna morale di una storia raccontata nell’ultima relazione annuale di Bankitalia, dove si osserva fra l’altro l’incidenza della spesa per ricerca e sviluppo nel nostro paese nel confronto con la media l’Ocse. Un tema strategico, come d’altronde quello dell’istruzione, del quale non si discorre mai abbastanza. Pochi dovrebbero dubitare che il futuro sarà segnato dallo sviluppo tecnologico, e quindi dalla necessità avere lavoratori istruiti abbastanza da cavalcarlo. E tuttavia mentre si fa un gran discorrere di investimenti in opere pubbliche, inseguendo chimerici moltiplicatori, chissà perché considerati più robusti quando implicano ferro e cemento, poco si ragiona su come si potrebbe favorire ciò sembra destinato a far la differenza in futuro: l’innovazione.

DI buono c’è che alla carenza del discorso pubblico pare supplisca una certa iniziativa privata, che malgrado tutto ancora resiste in Italia. Eroicamente, vien da dire. Se ne trova traccia proprio nel breve approfondimento pubblicato da via Nazionale, che potremmo raccontare partendo dalla fine, che poi è il succo della faccenda. In Italia negli anni peggiori della crisi, fra il 2008 e il 2013, sono nate società che sono risultate più lungimiranti, almeno relativamente alla quota di investimenti che hanno espresso in beni immateriali, e più produttive, capaci perciò di affrontare con maggiore resilienza le avversità creditizie e quindi sostanzialmente più robuste.

Partiamo da una premessa. “Nella media dei paesi Ocse – scrive la Banca – l’incidenza delle spese in ricerca e sviluppo, software e altri prodotti della proprietà intellettuale sul totale degli investimenti è quasi raddoppiata negli ultimi vent’anni, fino a raggiungere il 20 per cento, sostenendo l’innovazione tecnologica e la crescita”.

Come si può osservare dal grafico sopra, in Italia gli andamenti sono stati diversi. C’è stata una sostanziale stagnazione degli investimenti sin dalla metà degli anni ’90. Solo nella seconda metà del primo decennio del 2000 la curva inizia ad inclinarsi positivamente, pure senza raggiungere la media Ocse. Questa circostanza è stata determinata dal fatto che “alla crescita degli investimenti in capitale immateriale (complessivamente pari al 20 per cento tra il 2007 e il 2018) si è associata la caduta di quelli in capitale fisico (circa il 25 per cento)”. Quindi una brutta notizia, ossia il calo degli investimenti in capitale fisico, ha fatto emergere quella buona, ossia l’aumento di investimenti in capitale immateriale.

Questi ultimi sono cresciuti non solo relativamente ma anche in valore assoluto. E tale aumento, spiega Bankitalia facendo riferimento a uno studio svolto sui bilanci delle società italiane, “è interamente attribuibile alle imprese nate in quegli anni (2008-2013), a fronte di un calo tra le aziende già presenti sul mercato”.

In particolare, sottolinea Bankitalia, “tra il 2008 e il 2013 le start up, pur rappresentando meno del 15 per cento del campione analizzato, hanno contribuito per oltre il 50 all’accumulazione di capitale immateriale”.

Queste nuove imprese sono risultate “essere mediamente più produttive, con un minore rapporto tra capitale e prodotto, e più orientate verso gli immobilizzi immateriali sia nel confronto con i valori osservati per le imprese già esistenti sia rispetto a quelli prevalenti tra le start up nate prima della crisi”. In sostanza queste aziende sono più orientate verso il capitale non fisico, con la ulteriore conseguenza che hanno sofferto meno la stretta creditizia negli anni difficili che ha “determinato una più accentuata selezione a favore di nuove imprese dotate di una tecnologia ad alta intensità di beni immateriali”. La minore necessità di capitale è dipesa da una capacità di autofinanziamento più elevata, “frutto da un lato di una minore domanda di capitale complessivo per unità di prodotto” e dall’altro “di una maggiore profittabilità dei loro investimenti”.

Insomma, sono nate aziende adatte a vivere in un ambiente sostanzialmente diverso da quello antecedente alla crisi. E lo mostrano anche i dati sulla natalità delle imprese del periodo che “sono diminuiti meno di quelli delle altre tipologie di aziende”, come si può osservare nel grafico sotto.

La conclusione di Bankitalia è chiara: “Le coorti di aziende nate durante la crisi hanno però continuato a sostenere l’accumulazione di beni immateriali, ponendo le basi per un rilancio dell’innovazione tecnologica e della crescita”. E questo per una paese che, ancora nel 2018, ha visto diminuire la spesa in ricerca e sviluppo (in rapporto al PIL risulta pari all’1,5 per cento, circa la metà di Germania e Francia) è una buona notizia. Una delle poche. La circostanza poi che “le imprese italiane hanno accresciuto la loro spesa in ricerca e sviluppo dell’1,8 per cento, un tasso superiore a quello di università e altre istituzioni pubbliche” ci dice un’altra cosa. Un settore privato dinamico, assai più che uno stato interventista, fa la differenza. E di molto.

 

Non tutti i poveri assoluti hanno diritto al reddito di cittadinanza


L’ultima relazione annuale di Bankitalia contiene un breve approfondimento che ci consente di fare le prime osservazioni sugli esiti concreti, molto istruttivi, del reddito di cittadinanza. La banca ha svolto un parallelo fra l’istituto dei reddito di inclusione (ReI) e il reddito di cittadinanza (RdC) che ci consente di osservare diverse peculiarità del nuovo strumento di contrasto alla povertà, uno dei quali è particolarmente interessante. Per dirla con le parole di Bankitalia “la platea dei potenziali aventi diritto all’RdC coincide solo in parte con quella degli individui classificabili come poveri assoluti”. Come dire: non basta essere poveri per avere il RdC. Il che sicuramente sorprenderà molti, anche al governo.

Come si può osservare sul grafico di destra, fatto 100 il numero dei poveri assoluti, la quota di quelli eleggibili per il RdC, a livello nazionale, arriva a 59. Il 35% non ha i requisiti reddituali o patrimoniali, mentre il restate 6% non ha i requisiti di residenza. Se disaggreghiamo il dato nelle tre macroaree che compongono il paese abbiamo che al Nord il disallineamento fra poveri assoluti e percettori potenziali di RdC è ancora più ampio. Questi ultimi, infatti, sarebbero solo il 45% dei poveri, mentre al centro si arriverebbe al 57% e al Sud al 72%. Ciò malgrado, Bankitalia riconosce che il RdC migliora la situazione della popolazione con fascia di reddito più bassa. In caso di applicazione piena della norma, la povertà assoluta scenderebbe dal 7,3% al 4,4 della popolazione. Ma comunque rimarrebbe.

A determinare la differenza notevole fra Nord e Sud nell’impatto del Rdc concorrono innanzitutto il maggiore costo della vita a Nord rispetto al Sud, e poi la maggiore presenza di cittadini stranieri. Quanto al primo punto, è utile ricordare che la qualifica di povero assoluto “si basa sui livelli di consumo familiare dichiarati in indagini statistiche”. Quindi è evidente che un livello più elevato dei prezzi determina un minore livello di consumi e quindi “statisticamente” un numero più elevato di poveri. Ciò a fronte del fatto che l’accesso al RdC è condizionato da requisiti di reddito, patrimonio e residenza.

La maggiore presenza di stranieri a Nord, inoltre, rende meno pervasiva la penetrazione del RdC in queste regioni perché la norma ha previsto un requisito più stringente rispetto al ReI per avere diritto al sussidio (dieci anni di residenza in Italia anziché due). Quindi un immigrato che vive al nord da meno di dieci anni e che risulta povero non avrà diritto al sussidio. Ciò ha provocato l’esclusione “dalla platea degli aventi diritto di circa 90.000 nuclei che avrebbero avuto invece diritto al ReI (l’8 per cento del totale)”. A ciò si aggiunga che “la più elevata presenza di stranieri nel Centro Nord (dove rappresentano circa la metà degli individui che si collocano nel primo decimo della distribuzione del reddito disponibile equivalente) accentua la concentrazione dei nuclei beneficiari dell’RdC nel Mezzogiorno (53 per cento, contro il 40 del ReI)”.

Se guardiamo ancora al confronto fra ReI e RdC, emergono altre peculiarità. Innanzitutto emerge che “la spesa complessiva nelle stime del Governo, che ipotizzano un’adesione alla misura parziale da parte dei potenziali aventi diritto, è pari a regime a 7,2 miliardi, all’incirca il triplo di quanto previsto per il ReI”. La spesa complessiva sarebbe arrivata a 10,3 miliardi se tutte le circa due milioni di famiglie, pari a 5,3 milioni di persone, avessero fruito del diritto. Per il ReI si stimavano 1,1 milioni di nuclei familiari per 3,1 milioni di individui con una spesa complessiva di 3,3 miliardi. A fronte di queste stime, a fine maggio, secondo gli ultimi dati Inps le domande di sussidio erano arrivate a 1,252 milioni, con un tasso di rifiuto pari al 26%. Quelle accolte al momento sarebbero 674.000 con un importo medio di 540 euro.

Il RdC, inoltre, prevede anche un beneficio maggiore di quello del ReI, con un valore teorico – i famosi 780 euro al mese – che “si colloca in prossimità della soglia di povertà relativa stimata dall’Eurostat per il 2016, un livello più elevato nel confronto internazionale”. In Spagna, Francia e Germania provvedimenti simili al RdC raggiungono percentuali sulla soglia pari rispettivamente al 63, 50 e 39%. Quindi quando si dice che anche in altri paesi esistono strumenti analoghi al RdC bisognerebbe anche ricordare quanto eroghino. Anche perché c’è sempre il rischio di “spiazzare” l’offerta di lavoro. A tal proposito, scrive Bankitalia, “i conseguenti effetti di disincentivo all’offerta di lavoro potranno essere solo attenuati dal previsto potenziamento dei Centri per l’impiego”.

Altra caratteristica utile da sottolineare è che “nel confronto con il ReI, l’RdC è relativamente meno generoso per i nuclei con minori rispetto a quelli con soli adulti: la scala di equivalenza adottata al fine di riproporzionare il beneficio per tenere conto dell’ampiezza familiare prevede infatti maggiorazioni più basse per gli ulteriori componenti del nucleo, specie se minori”. Insomma: la famiglie che hanno più figli in minore età sono relativamente meno avvantaggiate. Il motivo? Facile: “L’applicazione all’RdC della stessa scala di equivalenza adottata per il ReI avrebbe innalzato la spesa del 43 per cento; il mantenimento del costo complessivo della misura avrebbe richiesto un abbattimento del massimo beneficio mensile ottenibile da un single a 680 euro”. In fondo si fanno sempre meno figli in Italia. Chissà perché.