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Estasi e agonia nell’economia inglese

Leggo divertito che Andrew G. Haldane, direttore esecutivo della Banca d’Inghilterra, ha elaborato un paio di indicatori statistici per monitorare lo stato dell’economia nazionale che ha chiamato “ecstasy index” e “agony index”. E mi diverte non tanto il fatto che ormai si vada per aggettivi, quanto la circostanza che entrambi sono in crescita, per non dire in contraddizione. Ma in fondo non c’è da stupirsi: le cose reali sono sempre contraddittorie.

Ma poi, quando finisco di leggere, mi accorgo che di divertente, nell’economia inglese c’è ben poco. Gli indici sono la faccia di una stessa medaglia che conosciamo bene: la Grande Redistribuzione. Sta accadendo, nel Regno Unito, quello che sta accadendo dappertutto, ossia che i ricchi diventano più ricchi e i poveri più poveri, assottigliandosi nel frattempo quel ceto medio che è stata l’invenzione meglio riuscita della spesa pubblica che gli stati occidentali hanno generato con scarso ritegno dal secondo dopoguerra in poi.

L’indice dell’estasi, chiamiamolo così, costruito raccogliendo i dati su Pil, tasso di disoccupazione e inflazione, mostra un’economia pimpante e quasi felice, forte dei suoi rimbalzi che hanno visto salire dal 2009 in poi i prezzi delle azioni del 50%, del 15% quello dei bond governativi (perché sono calati i rendimenti) e il prezzo delle case del 20%. A fronte di ciò, l’economia ha creato 1,8 milioni di posti di lavoro, 750mila dei quali nel 2013, con ciò diminuendo il tasso di disoccupazione dall’8,4% al 6%, con previsione che arrivi al 5% a breve.

Ebbene, nella sua lunga allocuzione del 17 ottobre scorso (“Twin peaks”) Haldane ha calcolato l’indice a far data dal 1970 e ne ha ricavato che il momento attuale vede l’economia inglese con un indice di estasi più elevato del 6% rispetto alla sua media storica, mentre stava il 2% sotto nel 2009. Con l’aggiunta che l’indice si è trovato sopra l’attuale livello solo cinque volte negli ultimi 44 anni. Insomma: l’economia sembra in salute, assai più di quanto non lo sia stata nel passato.

L’indice dell’agonia invece è stato costruito considerando i salari reali, i tassi di interesse reali e la crescita della produttività. A tal proposito vale la pena rilevare che la crescita reale dei salari è stata negativa negli ultimi 74 mesi in UK e che la perdita cumulata di salario reale dal picco pre-recessione è stata di circa il 10%. Tale risultato, nota il nostro banchiere, non ha precedenti, quanto a persistenza e magnitudo del calo, almeno a far data dalla metà del XIX secolo, con ciò connotandosi per il fatto storico che effettivamente è.

Riguardo alla produttività, Haldane rileva che ancora nel secondo quarto del 2014 si colloca all’incirca il 15% sotto il livello pre crisi. O, per dirla con parole sue “il livello di produttività non è più alto di quanto fosse sei anni fa”. Una tale “piattezza” della curva della produttività non si notava dal 1880. Ed ecco l’ennesimo fatto storico.

Ancora più storico il livello dei tassi reali, per esempio quelli assicurati ai risparmiatori sui depositi, che sono a zero orma da quattro anni, e non sono mai stati così bassi dal 1970, quando l’inflazione era a doppia cifra.

Il combinato disposto di questi tre indicatori ha consentito a Heldane di costruire il suo indice dell’agonia e di rappresentarlo con una curva che risale fino al 1870. Ebbene, tale indice è a un livello spaventosamente basso (che vuol dire che l’agonia è in aumento). “Un tale esteso periodo di agonia è virtualmente senza precedendi andando indietro fino al tardo XIX secolo, con l’eccezione delle guerre mondiali e dei primi anni ’70”. Ciò a dimostrazione che viviamo tempi eccezionali, che ci pongono di fronte a sfide della stessa portata di quelle che dovemmo affrontare in tempo di guerra.

Guardandola dal punto di vista della statistica, perciò, l’economia inglese appare quantomeno schizofrenica: l’euforia è ai suoi massimi storici e l’agonia pure. Che vuol dire? E, soprattutto, è un processo transitorio o l’ennesimo cascame della stagnazione secolare che molti economisti preconizzano per le economie sviluppate?

Poiché è evidente che nessuno conosce le risposte, possiamo affidarci solo alle cronache per provare a immaginare al limite uno scenario previsionale, proprio come fa il nostro banchiere secondo il quale salari e produttività dovrebbero entrare in territorio positivo nei prossimi due anni, riportando l’agony index in linea con le sue medie storiche. Ma il problema è che altre previsioni e ulteriori analisi asseverano anche la possibilità che le cose continuano ad evolvere in maniera contraddittoria.

Alcuni elementi concettuali, che sostengono l’ipotesi della grande stagnazione, non possono essere sottovalutati, osserva il banchiere. A cominciare dai livelli crescenti di ineguaglianza.

L’analisi di come siano andate le cose nel mercato del lavoro inglese aiuta a capire. La disoccupazione fra i lavoratori più qualificati è cresciuta meno di quella fra i lavoratori meno qualificati e con la ripartenza dell’economia (ecstasy index) il livello di occuazione dei migliori, chiamiamoli così, è tornato al livello pre crisi.

Esattamente il contrario è accaduto per i lavoratori meno qualificati, che hanno visto diminuire assai più il livello di disoccupazione a per i quali la ripresa ha portato assai meno benefici.

In sostanza la crisi ha aggravato e affrettato il processo di polarizzazione del mercato del lavoro in corso sin dai primi anni ’90. Se guardiamo alla vil moneta, scopriamo infatti che nel 1990 i redditi del 10% al top della classifica erano in media 6,5 volte quelli del 10% meno pagato. Oggi valgono otto volte. Ciò implica che i salari del 10% più ricco siano cresciuti in media del 3% l’anno e quelli del 10% più povero della metà. Sicché si capisce perché i salari del 10% al top siano più alti del 20% rispetto al 1997, mentre quelli del 10% più povero sono fermi al livello del 1997. Con l’aggravante che “quello che vale per i lavoratori, vale anche per le aziende”.

“Se questa è la storia di un’economia in crescita, ma divergente, allora il messaggio è chiaro: agonia ed estasi possono esserci contemporaneamente anche nei tempi a venire”.

Chissà perché tutto ciò non mi stupisce.

 

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Il trionfo dei super ricchi

Così a un certo punto leggo stupito che la governatrice della Fed Janet Yellen è preoccupata per “la continua crescita della disuguaglianza negli Stati Uniti”. E tuttavia non trovo nessun riferimento, nel suo lungo intervento (“Perspectives on inequality and opportunity from the Survey of Consumer Finances”) del 17 ottobre scorso circa la possibilità, financo remota, che tale peggioramento sia da addebitarsi proprio all’azione della Fed, magari per una di quelle maligne eterogenesi dei fini che fanno la gioia dei cacciatori di paradossi.

Forse sarebbe chieder troppo, mi dico. Così mi limito a focalizzare i dati, questi sì eloquenti, che rievocano suggestioni tardo XIX secolo, quando i super ricchi trionfavano alla faccia del resto della popolazione.

Ieri come oggi, viene da dire.

“Gli ultimi decenni – osserva la Yellen – hanno visto la più rilevante crescita nell’inegualità dal XIX secolo, dopo più di 40 anni in cui queste diseguaglianza si erano ridotto a partire dalla Grande depressione. Secondo alcune stime, la disuguaglianza di reddito e ricchezza è vicina al suo livello più alto degli ultimi secoli”. Non è un segreto, aggiunge, che gli ultimi decenni possono essere riassunti come un significativo guadagno per redditi e patrimoni per quelli che stanno al “very top” della distribuzione a una stagnazione per la maggioranza. “Mi chiedo – aggiunge – se questo trend sia compatibile con i valori alla radice della nostra nazione, fra i quali l’alto valore che gli americani riconoscono all’eguaglianza delle opportunità”.

Per quanto una certa disuguaglianza sia un beneficio, osserva ancora, in quanto potente stimolo a lavorare di più e migliorare la propria condizione, un eccesso di inegualità può esacerbare la disuguaglianza delle opportunità, creando un circolo vizioso destinato ad alimentare le differenze. Il problema, insomma, da economico diventa politico.

Tale visione ingenua, che mal si concilia con la sagacia che pure dovremmo riconoscere a una banchiera che interpreta un ruolo così importante mi lascia basito. Eppure dovrei essere abituato all’ipocrisia.

Ma poi mi dico che non dovrei occuparmi della Yellen, che in fondo fa il suo lavoro, e limitarmi a rilevare l’ennesima tappa del processo di Grande Redistribuzione, in atto ormai da un trentennio almeno, che con l’occasione della crisi del 2008 ha impresso una rapida accelerazione al movimento “naturale” della storia.

Già, perché come la stessa Yellen ci ricorda, la Grande recessione post 2008 ha duramente colpito i super ricchi. Ma poi (grazie anche alla Fed?) costoro non solo si sono ripresi, ma sono diventati anche più ricchi, come ci ricordano i dati della Survey che la stessa Fed realizza per capire meglio il mondo dove vive e dove opera.

Tale survey è iniziata nel 1989 e da allora ha osservato una costante concentrazione di ricchezza nella fascia alta delle famiglie più ricche, cui ha logicamente corrisposto un analogo detrimento per le le altre.  Aggiustati per l’inflazione, i dati mostrano che i redditi medi del 5% delle famiglie al top sono cresciuti del 38% fra il 1989 e il 2013. Per il restante 95% di famiglie tale crescita è stata di appena il 10%.

La distribuzione della ricchezza è possibilmente anche più ineguale di quella dei redditi. Il 5% più ricco, nel 1989, deteneva il 54% della ricchezza nazionale. Nel 2010, quindi dopo la crisi del 2008, tale quota era arrivata al 61% e nel 2013 è ulteriormente cresciuta al 63%.

E’ interessante notare che tale aumento di ricchezza ha riguardato esclusivamente i super ricchi. I ricchi normali, quelli nella fascia di ricchezza collocata fra 81mila e 1,9 milioni di dollari, sono al contrario diventati più poveri: avevano il 43% della ricchezza nazionale nel 1989, e ora, nel 2013, sono scesi al 36%.

Figuratevi cosa è successo ai poveri. Costoro, che detenevano appena il 3% della ricchezza nazionale nel 1989, ora sono avidamente attaccati al misero 1% che è rimasto loro. Parliamo di 62 milioni di famiglie che hanno una ricchezza media di 11mila dollari, un quarto delle quali dichiarano una ricchezza pari a zero. Interessante notare altresì come la loro situazione, che pure era in lento miglioramento dall’89 in poi, sia drasticamente peggiorata a far data dal 2007.

La stessa sorte, peraltro, toccata a quelli che stanno in mezzo, il mitico ceto medio-alto che aveva visto crescere la sua ricchezza da una media di 323mila dollari, nel 1989, ai 516mila del 2007, e adesso si trova, a prezzi correnti, intorno ai 424mila.

Tutto ciò mentre i super ricchi, sempre il 5% al top, hanno visto la loro ricchezza media raddoppiare dai 3,6 milioni di dollari del 1989 ai 6,8 milioni del 2013, sempre a prezzi correnti.

Questo trionfo dei super ricchi made in Usa può anche essere osservato scrutando la composizione del loro portafoglio. Mentre per i più poveri o i meno ricchi la casa pesa fra i tre quinti e i due quinti della ricchezza, per il top 5%, il valore dell’immobile pesa appena un quinto, esattamente come accadeva fin da 1989. Ciò significa che i più ricchi sono meno sensibili al variare dei corsi immobiliari, al contrario delle altre fasce di reddito, per le quali una correzione del mattone ha effetti assai più dolorosi. Ciò spiega perché la Yellen noti con piacere che la ripresa del mattone in America abbia contribuito a migliorare le condizioni della popolazione. Quella più povera o meno ricca, almeno.

Se guardiamo agli asset finanziari, scopriamo che il 5% al top detiene circa i due terzi di tutto e la fascia centrale, i meno ricchi, il restante terzo. Qualche briciola, circa il 2%, sta nella disponibilità dei più poveri. E poiché gli studi della Fed mostrano che “l’ineguaglianza tende a persistere da una generazione alla successiva”, e che la mobilità economica negli ultimi decenni è cambiata assai poco, possiamo tranquillamente dedurne che il sogno americano, nella sua variante contemporanea, è un incubo di diseguaglianza, che peraltro penalizza moltissimo i figli delle famiglie più povere rispetto a quelli dei ricchi.

Un solo dato basterà a capire perché: la ricchezza mediana delle famiglie con figli più povere è diminuita dai 13mila dollari del 2007 agli 8mila del 2013: un calo del 40% dopo l’aggiustamento per l’inflazione. Per il 5% al top, tale ricchezza mediana è diminuita solo del 9%, passando da 3,5 milioni a 3,2.

Decido di glissare, ormai annoiato, sull’effetto ulteriormente squilibrante, delle eredità che per il 5% al top valgono in media 1,1 milioni e per i più poveri raggiunge appena i 68mila. Senza ombra di ironia la Yellen osserva che le eredità dei poveracci hanno un valore relativo, stante il loro livello di ricchezza, assai maggiore rispetto a quelle dei più ricchi.

Dice un vecchio proverbio delle mie parti che i soldi fanno soldi e i pidocchi fanno pidocchi.

Ma non dite che è colpa della Fed.

Il suicidio sociale come conseguenza del welfare

Sembra di capire, leggendo un recente working paper della Bce (“Pension and fertilty, back to the roots”), che se la Germania ha uno dei tassi di fertilità più bassi al mondo è tutta colpa di Bismarck che, per primo, impiantò un sistema previdenziale e di welfare sul finire del XIX secolo, potendo contare sulle più che generose riparazioni di guerra imposte alla Francia sconfitta nel 1870 a Sedan.

Ma soprattutto sembra di capire che le nuove frontiere dell’economia, che ogni giorno si preoccupa di stupirci con le sue trovate, somiglino sempre più, queste sì, alle radici dalle quali tale malapianta ha germinato. Quelle che facevano dire a uomini considerati illustri come John Locke, nel XVII secolo,  che “il primo passo per mettere al lavoro i poveri è quello di ridurre la loro dissolutezza”, così come sarebbe stato opportuno che i giovani vagabondi sotto i quattordici anni  finissero in scuole professionali e lì “frustati con energia e tenuti a lavorare fino a sera”.

Perché dovremmo ricordarci, oggi che gli economisti si sono evoluti e parlano con la matematica per non farsi capire, quale sia l’origine della loro disciplina. E solo così comprendere che nel processo di Grande Redistribuzione che si sta delineando, gli economisti faranno quello che hanno sempre fatto: servire il principe con le loro teorie e guadagnarne provvidenze.

Mi guardo bene, com’è ovvio, dal sospettare i paziente economisti della Bce di secondi fini, ulteriori a quello di servire la loro triste scienza. Anche loro, come noi tutti, sono immersi nello spirito del tempo. Ma proprio per questo bisogna leggerli: per capirlo meglio.

E sembra di capire, scorrendo il paper, che le grandi masse occidentali debbano riscoprire la durezza del vivere per riprendere a far figli. Perché la troppa sicurezza ha un effetto deprimente sulla fertilità, conducendo sostanzialmente al suicidio sociale a cui stiamo assistendo, ove masse di anziani, peraltro assai costosi per i bilanci statali, diventano pletorici a fronte di sempre meno bambini, che dovrebbero diventare i lavoratori di domani, ossia coloro che tali fardelli saranno chiamati a sostenere. Le proiezioni immaginano società di vecchi, ormai in maggioranza, e quindi terminali, incamminate perciò lungo la strada dell’estinzione, e per giunta fiscalmente fallimentari. Una sorta di incubo malthusiano.

Ecco perciò che la ricerca teorica torna alle radici. Magari per dirci, un giorno o l’altro, che bisogna fare tanti figli per avere tanta forza lavoro in famiglia e perché, quando saremo vecchi, inabili al lavoro e squattrinati, baderanno a noi. Che è più o meno quello che dicevano i nostri antenati. Sempre a proposito di radici.

Potrei finirlo qui, questo post. Ma poiché vi so appassionati di numeri e ragionamenti, cedo il passo a persone assai più intelligenti di me, ossia ai nostri economisti della Bce.

Costoro hanno gioco facile a ricordare come “l’invecchiamento della popolazione sia considerato una delle principali sfide delle economie sviluppate”, e bisogna “fare i conti con i cambiamenti della popolazione e con le cause”, che “devono essere capite”. E una delle maggiori cause del cambiamento della popolazioni – ossia del loro invecchiamento – è il welfare state che, lamentano “ha ricevuto solo una piccola attenzione nel dibattito accademico”.

E tuttavia, dicono, la maggior parte degli economisti ha chiaro che la sicurezza sociale provoca cambiamenti nei comportamenti, “ad esempio nella decisione di offrire lavoro”. “Il collegamento fra sicurezza sociale e comportamento individuale è stato postulato nella cosiddetta social security hypothesis, e tuttavia è sorprendente che il collegamento fra la sicurezza sociale e altri comportamenti, come la fertilità, abbia ricevuto poca attenzione”.

Senonché la letteratura di genere ha già acclarato che questo link esiste, e che anzi è una variante della social security hypothesis, secondo la quale, appunto, l’intervento dello stato in qualità di fornitore di assicurazioni, siano esse previdenzaiali o sanitarie, cambia la capacità del soggetto di provvedere in autonomia ai rischi che tali assicurazioni sottintendono. Come dire: lo stato allevia la durezza del vivere, e il cittadino la disimpara. Mannaggia.

Ebbene, il paper offre un contributo teorico illustrando come la sicurezza sociale, il welfare, impatti sulla fertilità e, di conseguenza sull’invecchiamento della popolazione, individuando un link microeconomico fra pensioni e tasso di fertilità, che poi viene testato partendo da dati storici risalenti, appunto, alla Germania imperiale di Bismarck, che hanno fornito “un’opportunità unica per l’analisi visto che copre l’intero periodo dall’introduzione della social security”.

Il modello contempla tre opzioni per provvedere agli anziani: risparmio privato, trasferimenti intra-familiari, e sistema pubblico di pensioni. Ma l’assunzione cruciale del modello – nota bene  – è la riduzione dell’offerta di lavoro che consegue alla decisione di una famiglia di avere figli.

“Tale ipotesi implica che c’è un costo-opportunità nel fare figli in termini di redditi futuri non ottenuti” e soprattutto inidividua una sorta di effetto sostituzione figli/pensione in cui la determinante è il tasso di rendimento della pensione stessa. Se il tasso di rendimento interno è alto, costa di più avere figli perché, rinunciando a lavorare si rinuncia non solo ai redditi futuri, ma anche alle relative prestazioni pensionistiche. Il contrario se il tasso di rendimento è basso.

Si potrebbe disquisire a lungo sulla filosofia sottintesa in questa impostazione, per la quale tutto è economico o non è, e quindi gli individui, ridotti a robottini d’accademia, prendono le decisioni solo sulla base del loro desiderio di profitto. Ma ormai avrete capito che non è questo lo scopo del gioco. Lo scopo del gioco è far digerire a tutti noi ciò che ci faranno ingurgitare: un sonoro dimagrimento del welfare, ma sempre per il nostro bene.

Ebbene, i dati tedeschi testati, fra il 1890 e il 1914 mostrano proprio che “un più alto tasso interno di rendimento del sistema pensionistico è associato con un più basso livello di nascite”. “Considerando che l’impatto della social security è aumentato piuttosto che diminuire nel tempo, l’impatto della sicurezza sociale sulla fertilità è diventato ancora più grande”. Talmente grande da non poter più essere sottovalutato.

“In particolare nel contesto di finanze pubbliche sotto stress e un diffuso bisogno di riforme strutturali, riconsiderare il disegno del welfare state sembra una promettente area di sviluppo”, conclude.

Dobbiamo ridurre le pensioni e in generale l’assistenza sociale, insomma, per tornare a far figli, visto che la prole è la ricchezza della nostre società, ormai vecchie e stanche.

Dobbiamo tornare proletari.

Il paradigma spagnolo e la Grande Redistribuzione

In un tempo in cui gli stati sono diventati laboratori dove sperimentare le astruserie dell’economia applicata, vale la pena soffermarsi sul caso spagnolo, che ormai somiglia sempre più al paradigma di una nuova teoria che individua nella Grande Redistribuzione la soluzione finale per evitare le secca della Grande Stagnazione che minaccia la società globale.

Nessuno stato meglio della Spagna, per le sue dimensioni e la sua storia recente, poteva giovare alla bisogna.

E’ facile capire perché. La Spagna, già dai tempi buoni, è stata sempre additata come l’esempio da seguire per uno sviluppo rigoglioso e sostenibile. Quelli che si deliziano di cronache socio-economiche ricorderanno i primi anni duemila, quando la Spagna sui giornali veniva dipinta come una sorta di paradiso terrestre, dove lo sviluppo galoppava, la disoccupazione scendeva, i consumi erano alle stelle e tutti i giovani europei studiavano spagnolo (come ora studiano tedesco) sognando di trasferirsi a Barcellona per godersi la movida.

La meravigliosa narrazione del maistream celava una realtà dove il debito privato di famiglie e imprese – e vi faccio grazia di quello delle banche – saliva alle stelle, logico contraltare di un debito pubblico fra i più bassi dell’area e dove le imprese di costruzioni, artefici principali di tale boom, cementificavano le coste dove oggi campeggiano i cartelli di invenduto.

Sicché il conto corrente della Spagna si inabissava. Ma erano tempi in cui la bilancia dei pagamenti era poco nota alle cronache economiche (anche adesso, ma meno di prima). E inoltre era molto trendy parlare bene della Spagna, innalzata a epitome della riscossa dei paesi latini, storicamente poveri e inefficienti, sull’onda trionfante della globalizzazione.

Lo stesso gioco si sta tentando di farlo adesso. La Spagna si tende a raccontarla come un altro caso di successo: stavolta di uscita dalla crisi.

Nei mesi scorsi sulla stampa avrete letto del caso spagnolo. Del suo miracoloso risanamento che, pure se a costo di grandi sacrifici, traccia il solco di un risanamento globale. Gli stati perciò iniziano a guardare verso il paese dei toreri, cercando di capire come e a che prezzo siano riusciti a uscire fuori dal baratro che lo stava inghiottendo.

Ma è davvero così? E soprattutto chi ha pagato il prezzo?

Per rispondere a questa domanda mi servo dell’ultimo staff report del Fondo Monetario sulla Spagna uscito pochi giorni fa. E mi accorgo, sin dall’epigrafe, che ci sono sempre due modi per raccontare una storia: quello di chi guarda il bicchiere mezzo pieno e quello di chi lo guarda mezzo vuoto. Scegliere a quale dare priorità, nell’esposizione, è una precisa scelta politica, atteso che l’attenzione di solito supera raramente la prima pagina.

Se volessimo raccontarla dal lato dell’ottimista, allora potremmo dire che la Spagna dopo nove trimestri di crescita negativa la crescita è tornata positiva nella seconda metà del 2013. L’export sta performando bene, nota il Fmi, “conquistando quote di mercato”, mentre il conto corrente “è in surplus per la prima volta dal 1986”. “Il turismo è in boom e gli indicatori di competitività sono in crescita”.

Che bravi ‘sti spagnoli.

Lato finanziario, gli spread sono bassi a livello record, alimentati “dalla ritrovata fiducia negli asset spagnoli”, la domanda domestica sta crescendo notevolmente, anche quella privata, grazie alle migliori prospettive del mercato del lavoro. Dulcis in fundo, il consolidamente fiscale continua. Il saldo primario strutturale di bilancio è migliorato dell’1,5% del Pil nel 2013, nonostante il calo del pil, e il saldo fiscale generale è vicino al target.

Ce n’è abbastanza per alimentare una decina di talk show.

Anche perché tutto questo è stato reso possibile da “forti riforme”, che sono state insieme fiscali, finanziarie e del mercato dei prodotti e del lavoro.

Se volessimo raccontarla dal lato del pessimista, tuttavia, non mancherebbero gli argomenti.

Potremmo notare ad esempio che la disoccupazione, tuttora al 26%, è cambiata poco rispetto a un anno fa. La maggioranza dei disoccupati è senza lavoro da più di un anno. Parliamo di 3,5 milioni di persone, pari al 15% della forza lavoro, e “c’è il rischio di una permanente distruzione di skill professionali”. Inoltre “il mercato del lavoro rimane altamente frammentato, con una grande parte di lavoratori dipendenti collocata temporaneamente e non volontariamente su lavori part time”. Sicché la forza lavoro sta declinando notevolmente, “in parte tramite emigrazione netta”.

Tutto ciò ha avuto un chiaro impatto sulla società spagnola, dove “gli standard di vita sono caduti significativamente dall’inizio della crisi”. E non potrebbe essere diversamente, atteso che quattro milioni di persone che sono rimaste senza lavoro “hanno sofferto grandi perdite di ricchezza”. Anche a causa dei debiti che avevano sul groppone, aggiungo io.

La ricchezza mediana, infatti, è crollata, provocando di conseguenza una notevole crescita della disuguaglianza, misurata dall’indice di Gini, a fronte del fatto che comunque l’economia rimane pesantmente indebitata.

Il debito pubblico infatti, altro ex miracolo spagnolo, è in crescita costante, ormai vicino al 100% del Pil, e il deficit fiscale, malgrado i progressi, era ancora al 6,5% del Pil nel 2013.

Lato debito privato stanno pure peggio. Quello corporate è ben al di sopra della media storica e quella internazionale, mentre quello delle famiglie rimane vicino ai massimi storici. E sarebbe strano il contrario. La somma dei due quota il 200% del Pil, persino più alta degli inglesi.

“Come risultato – nota il Fmi – la Spagna è pesantemente indebitata con il resto del mondo”.

La Niip, ossia la posizione netta degli investimenti esteri, è addirittura peggiorata nel 2013 e ora sfiora il 100% del Pil, mentre nel 2007 era all’80. E, aggiungo io, le banche spagnole, fresche di salvataggio internazionale, sono notevolmente esposte verso i paesi emergenti dell’America Latina, e quindi sono assai vulnerabili a eventi esterni.

Anche qui, c’è da riempire un altro talk show.

Indeciso se guardare al bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto mi soffermo su un’altra glossa del FMI, laddove, notando il notevole miglioramento del saldo di conto corrente, passato da un deficiti del 10% nel 2007 a un surplus dell’1% nel 2013, osserva che a differenza della Corea del Sud, dove l’aggiustamento (dopo la crisi delle Tigri asiatiche) fu favorito da una corposa svalutazione valutaria, in Spagna il miglioramento del saldo è avvenuto senza una svalutazione nominale dei prezzi.

Vi dirò di più: il caso spagnolo è l’unico registrato fra le cronache di 276 episodi di paesi che hanno avuto deficit di conto corrente superiori al 10% fra il 1980 e il 2013 che abbia subito un aggiustamento senza deprezzamenti nominali.

Più o meno.

“In Spagna – scrive infatti il Fmi – il real effective exchange rate (REER) che si è deprezzato significativamente è quello basato sul costo unitario del lavoro (ULC/REER), riflettendo largamente la perdita di posti di lavoro”.

Traduco: i prezzi sono cambiati poco, ma svalutando il ULC/REER perché sono diminuiti i costi del lavoro, la Spagna ha guadagnato competitività e conquistato quote di export.

E allora vedo emergere dalla nebbia dei resoconti ufficiali e dalle favolette del mainstream il nuovo paradigma che, piaccia o no, sta orientando le scelte di politiche economiche dei paesi debitori: la Grande Redistribuzione.

Spostare quote di ricchezza dal lavoro al capitale. Processo storico ormai avviato da un trentennio, a dirla tutta, ma la crisi ormai lo ha eletto al rango di unica risposta possibile alla crisi a patto di non scegliere una secolare stagnazione.

Questo nuovo paradigma promette a popolazioni eternamente indebitate di continuare a vivere fingendo che tutto sia come prima, al prezzo di una vita lavorativa che sarà sempre più lunga, meno pagata e meno stabile. I creditori degli spagnoli continueranno a prestare i soldi alla poverissima Spagna, se e nella misura in cui rispetterà i suoi impegni internazionali, e la popolazione – o meglio la parte maggiore della popolazione – dovrà pagarne il prezzo.

Gli stati, dal canto loro, saranno troppo impegnati a pagare le loro obbligazioni per poter stendere reti di protezione. E anzi, dovranno pure fare gli sceriffi di Nottingham per saziare l’inesauribile fame dei creditori ed evitare la frusta dello spread.

Il retropensiero, neanche troppo celato di questo nuovo paradigma, è che i soldi è meglio concentrarli su chi già ne ha tanti. I ricchi sono bravi a gestirli.

I poveri no.