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La Fed scalda i motori per l’exit strategy, pronta a spegnerli
La primavera della Federal Reserve s’annuncia gravida di buoni auspici se, come dice la governatrice Janet Yellen, sta considerando di terminare la politica dei tassi a zero “più avanti nel corso dell’anno”.
Che novità, direte voi. Già, ormai da diversi mesi la Riserva federale americana sta preparando il mondo all’inevitabile: la fine della bonanza monetaria. E solo il tempo ci dirà se l’invenzione delle forward guidance, come strumento utile a prevenire o almeno contenere le inevitabili fibrillazioni dei mercati, sarà stato quello giusto.
Per il momento la cronaca non può che registrare la circostanza che tale forward guidance il FOMC della Fed, ossia l’organismo che decide le policy della banca centrale, l’ha cambiata e pure di recente, annunciando che “un aumento del target range per il federal funds rate potrebbe essere giustificato entro la fine dell’anno”. Indicazione alquanto vaga, ne converrete, declinata al condizionale e per giunta lungo un arco di tempo che potrebbe essere oggi come fra otto mesi.
Peraltro, le minute dell’ultimo meeting della Fed dicono pure che in seno all’organismo si è registrata una spaccatura fra chi vorrebbe iniziare già a giugno a alzare i tassi e chi vorrebbe iniziare a pensarci l’anno prossimo. Segno evidente che neanche i cervelloni della Fed sanno che pesci pigliare, in un mondo dove le banche centrali fanno a gara a chi rende il denaro (e la moneta) più conveniente.
Però, vedete, appartiene alla logica della forward guidance provare ad orientare le aspettive per evitare di sorprendere i mercati. Costoro, come sempre molto attenti alle indicazioni, per quanto vaghe, avranno già iniziato a farsi i conti, come peraltro sembra mostrare il relativo apprezzamento del dollaro, che certo deve molto alla scelte opposte inaugurate dalla Bce, ma che sembra essere tornato di moda dopo un quinquennio abbondante passato a svalutarsi.
Leggere l’intervento della Yellen, quindi, non serve tanto a capire che laFed sta scaldando i motori per l’exit strategy, dato ormai acquisito, ma per comprendere cosa frulli nella testa dei banchieri del FOMC e soprattutto se stiano valutando le conseguenza, specie quelle indesiderate, di tale decisione inevitabile.
L’analisi della Yellen inzia con una ricognizione dell’economia americana, che poi è l’unica che interessa ai banchieri centrali, malgrado sia chiaro a tutti che ciò che fanno gli americani riguarda tutti noi.
La prima variabile presa in esame è il tasso di disoccupazione, che ha impensierito la Fed almeno fino a quando non si è accorta che stava calando troppo bruscamente – i primo target era un tasso del 6,5% – costringendola a modificare la propria forward guidance allargando lo spettro delle variabili considerate.
Dopo gli ultimi miglioramenti, il tasso ora si colloca intorno al 5,5%, ben al di sotto del picco del 10% raggiunto con l’inizio della crisi. Manca ancora qualche decimale di punto per arrivare a quel 5-5,2% che i banchieri del FOMC giudicano naturale nel lungo periodo, ma appare chiaro che l’economia americana è bene indirizzata in tal senso.
Certo, con qualche caveat. Il tasso di partecipazione al lavoro non è ancora in linea con quanto dovrebbe essere, considerando l’andamento demografico americano, e c’è ancora un numero elevato di part time involontari e la crescita delle retribuzione procede al rallentatore. E tuttavia, dice la Yellen, “tutti possiamo concordare sulla circostanza che la ripresa nel mercato del lavoro sia stata sostanziale”, arrivando ad affermare, pur con tutte le cautele del caso, di aspettarsi “ulteriori miglioramenti”.
Gli sviluppi del mercato energetico, e segnatamente i ribassi del petrolio, potrebbero contribuire a una più decisa ripartenza dei consumi americani, e anche se l’apprezzamento del dollaro potrebbe complicare l’andamento dell’export netto, “il prodotto reale è probabile si espanda oltre il suo potenziale nei prossimi trimestri, promuovendo ulteriori miglioramento nel mercato del lavoro”.
Tali miracoli, possibili o quantomeno potenziali, ricorda la Yellen, sono maturati in un contesto di politiche monetarie straordinarie, rimane quindi strategico capire se la forza esibita dall’economia americana rimarrà tale una volta che tali condizioni verranno meno.
Anche perché se la battaglia per recuperare posti di lavoro la Fed può dire di averla in qualche modo vinta, l’altra battaglia altrettanto strategica, quella per tenere l’inflazione intorno al 2%, è ancora lungi dall’essere terminata. L’indice dei prezzi al consumo, anzi, è rimasto al di sotto del 2% per diversi anni e su base 12 mesi è al momento allo 0,25%. Certo, l‘andamento del petrolio avrà pure la sua influenza, come la Yellen non manca di sottolineare, e perciò i banchieri americani non dubitano che le aspettative siano ben ancorate.
Detto ciò, non deve essere tutto così chiaro se la Yellen ripete che la decisione di alzare i tassi “dipenderà da come evolvono le condizioni economiche nel tempo”. E’ come dire che prima o poi dovrò curare un dente malato, ma dipende da come si evolve il mio modo di masticare. O, per dirla con le parole della governatrice, “io credo che il tempo non sia ancora arrivato, ma mi aspetto che arriverà entro l’anno”.
Allo stesso tempo però la Yellen dice che “un modesto aumento dei tassi è altamento improbabile fermi i progressi dell’economia, potendo al massimo rallentarli”.
E allora, perché esitare?
Tanto più se come dice la stessa governatrice, gli effetti delle decisioni di politica monetaria richiedono tempo per dispiegarsi, sottolineando che sarebbe imprudente posporle fino a quando non si sarà raggiunto l’obiettivo dell’inflazione. Potrebbe succedere che la stessa Fed, così facendo, sia costretta a “tirare” la politica monetaria assai più di quanto sarebbe necessario, finendo di completare il danno. Senza contare l’eccessiva presa di rischio degli operatori che una politica monetaria troppo accomodativa provoca di per sé.
Insomma: i banchieri della Fed vogliono essere sicuri di alzare i tassi senza danneggiare l’economia, senza inpedire il raggiungimento del target di inflazione e prevenendo i rischi per la stabilità finanziaria. Una quadratura del cerchio che somiglia al desiderio di chi voglia la botte piena e la moglie ubriaca.
Inutile cercare conforto nei soliti strumenti usati dalle banche centrali. L’applicazione della Taylor rule, ad esempio, spingerebbe i banchieri già da ora ad alzare i tassi ben oltre il livello attuale, a meno che non si abbiano opinione diverse sul peso specifico sull’andamento del mercato del lavoro, nel qual caso l’attuale livello sarebbe consistente con la regola, che peraltro la Yellen definisce “troppo semplice”, ignorando “importanti complessità”.
Tutto ciò per dire che è, come di consueto in economia, una questione di punti di vista.
Ma soprattutto è una questione, squisitamente retorica, di persuasione. “Non bisogna enfatizzare troppo il significato di questa decisione (alzare i tassi, ndr)”, esorta la Yellen, spiegando così il senso più autentico dell’exit strategy americana. Indicare la direzione, preparare l’umore (di sicuro infelice dei mercati) e dire che quando succederà non sarà poi questa gran dramma, ma anzi una buona notizia.
Peraltro la Yellen non esita a sottolineare che una volta aumentati i tassi, ciò non significherà che dovranno continuare a salire. “Le policy della Fed evolveranno a seconda dell’evoluzione dell’economia”, assicura, inaugurando un’altra pagina della forward guidance: quella bianca. O, per dirla più seriamente, quella della economic-dominance, simpatica evoluzione della financial dominance o della fiscal dominance con le quali le banche centrali devono storicamente vedersela.
Sicché le proiezioni sui tassi che la Yellen presenta al suo uditorio – col tasso mediano che cresce un punto percentuale l’anno fino alla fine del 2017 – va preso, letteralmente, come un’ipotesi che solo la consistenza del quadro economico trasformerà in decisione politica. Come il più mastino dei cani, la Fed abbaia, ma per ora non morde.
D’altronde troppo viva è la memoria del ventennio giapponese perduto per permettere che una regola astratta intralci il glorioso dispiegarsi dell’economia americana.
Ecco così che, ancora una volta, col dire e non dire, affermare e negare insieme, l’economia svela la sua costituente retorica. L’exit strategy ci sarà, forse, ma sarà graduale e non è detto che duri.
Dipende, tutto dipende, come cantava quel tale.
Peccato che le parole, come le azioni, abbiano conseguenze.
Sovente non intenzionali.
Il trionfo dei super ricchi
Così a un certo punto leggo stupito che la governatrice della Fed Janet Yellen è preoccupata per “la continua crescita della disuguaglianza negli Stati Uniti”. E tuttavia non trovo nessun riferimento, nel suo lungo intervento (“Perspectives on inequality and opportunity from the Survey of Consumer Finances”) del 17 ottobre scorso circa la possibilità, financo remota, che tale peggioramento sia da addebitarsi proprio all’azione della Fed, magari per una di quelle maligne eterogenesi dei fini che fanno la gioia dei cacciatori di paradossi.
Forse sarebbe chieder troppo, mi dico. Così mi limito a focalizzare i dati, questi sì eloquenti, che rievocano suggestioni tardo XIX secolo, quando i super ricchi trionfavano alla faccia del resto della popolazione.
Ieri come oggi, viene da dire.
“Gli ultimi decenni – osserva la Yellen – hanno visto la più rilevante crescita nell’inegualità dal XIX secolo, dopo più di 40 anni in cui queste diseguaglianza si erano ridotto a partire dalla Grande depressione. Secondo alcune stime, la disuguaglianza di reddito e ricchezza è vicina al suo livello più alto degli ultimi secoli”. Non è un segreto, aggiunge, che gli ultimi decenni possono essere riassunti come un significativo guadagno per redditi e patrimoni per quelli che stanno al “very top” della distribuzione a una stagnazione per la maggioranza. “Mi chiedo – aggiunge – se questo trend sia compatibile con i valori alla radice della nostra nazione, fra i quali l’alto valore che gli americani riconoscono all’eguaglianza delle opportunità”.
Per quanto una certa disuguaglianza sia un beneficio, osserva ancora, in quanto potente stimolo a lavorare di più e migliorare la propria condizione, un eccesso di inegualità può esacerbare la disuguaglianza delle opportunità, creando un circolo vizioso destinato ad alimentare le differenze. Il problema, insomma, da economico diventa politico.
Tale visione ingenua, che mal si concilia con la sagacia che pure dovremmo riconoscere a una banchiera che interpreta un ruolo così importante mi lascia basito. Eppure dovrei essere abituato all’ipocrisia.
Ma poi mi dico che non dovrei occuparmi della Yellen, che in fondo fa il suo lavoro, e limitarmi a rilevare l’ennesima tappa del processo di Grande Redistribuzione, in atto ormai da un trentennio almeno, che con l’occasione della crisi del 2008 ha impresso una rapida accelerazione al movimento “naturale” della storia.
Già, perché come la stessa Yellen ci ricorda, la Grande recessione post 2008 ha duramente colpito i super ricchi. Ma poi (grazie anche alla Fed?) costoro non solo si sono ripresi, ma sono diventati anche più ricchi, come ci ricordano i dati della Survey che la stessa Fed realizza per capire meglio il mondo dove vive e dove opera.
Tale survey è iniziata nel 1989 e da allora ha osservato una costante concentrazione di ricchezza nella fascia alta delle famiglie più ricche, cui ha logicamente corrisposto un analogo detrimento per le le altre. Aggiustati per l’inflazione, i dati mostrano che i redditi medi del 5% delle famiglie al top sono cresciuti del 38% fra il 1989 e il 2013. Per il restante 95% di famiglie tale crescita è stata di appena il 10%.
La distribuzione della ricchezza è possibilmente anche più ineguale di quella dei redditi. Il 5% più ricco, nel 1989, deteneva il 54% della ricchezza nazionale. Nel 2010, quindi dopo la crisi del 2008, tale quota era arrivata al 61% e nel 2013 è ulteriormente cresciuta al 63%.
E’ interessante notare che tale aumento di ricchezza ha riguardato esclusivamente i super ricchi. I ricchi normali, quelli nella fascia di ricchezza collocata fra 81mila e 1,9 milioni di dollari, sono al contrario diventati più poveri: avevano il 43% della ricchezza nazionale nel 1989, e ora, nel 2013, sono scesi al 36%.
Figuratevi cosa è successo ai poveri. Costoro, che detenevano appena il 3% della ricchezza nazionale nel 1989, ora sono avidamente attaccati al misero 1% che è rimasto loro. Parliamo di 62 milioni di famiglie che hanno una ricchezza media di 11mila dollari, un quarto delle quali dichiarano una ricchezza pari a zero. Interessante notare altresì come la loro situazione, che pure era in lento miglioramento dall’89 in poi, sia drasticamente peggiorata a far data dal 2007.
La stessa sorte, peraltro, toccata a quelli che stanno in mezzo, il mitico ceto medio-alto che aveva visto crescere la sua ricchezza da una media di 323mila dollari, nel 1989, ai 516mila del 2007, e adesso si trova, a prezzi correnti, intorno ai 424mila.
Tutto ciò mentre i super ricchi, sempre il 5% al top, hanno visto la loro ricchezza media raddoppiare dai 3,6 milioni di dollari del 1989 ai 6,8 milioni del 2013, sempre a prezzi correnti.
Questo trionfo dei super ricchi made in Usa può anche essere osservato scrutando la composizione del loro portafoglio. Mentre per i più poveri o i meno ricchi la casa pesa fra i tre quinti e i due quinti della ricchezza, per il top 5%, il valore dell’immobile pesa appena un quinto, esattamente come accadeva fin da 1989. Ciò significa che i più ricchi sono meno sensibili al variare dei corsi immobiliari, al contrario delle altre fasce di reddito, per le quali una correzione del mattone ha effetti assai più dolorosi. Ciò spiega perché la Yellen noti con piacere che la ripresa del mattone in America abbia contribuito a migliorare le condizioni della popolazione. Quella più povera o meno ricca, almeno.
Se guardiamo agli asset finanziari, scopriamo che il 5% al top detiene circa i due terzi di tutto e la fascia centrale, i meno ricchi, il restante terzo. Qualche briciola, circa il 2%, sta nella disponibilità dei più poveri. E poiché gli studi della Fed mostrano che “l’ineguaglianza tende a persistere da una generazione alla successiva”, e che la mobilità economica negli ultimi decenni è cambiata assai poco, possiamo tranquillamente dedurne che il sogno americano, nella sua variante contemporanea, è un incubo di diseguaglianza, che peraltro penalizza moltissimo i figli delle famiglie più povere rispetto a quelli dei ricchi.
Un solo dato basterà a capire perché: la ricchezza mediana delle famiglie con figli più povere è diminuita dai 13mila dollari del 2007 agli 8mila del 2013: un calo del 40% dopo l’aggiustamento per l’inflazione. Per il 5% al top, tale ricchezza mediana è diminuita solo del 9%, passando da 3,5 milioni a 3,2.
Decido di glissare, ormai annoiato, sull’effetto ulteriormente squilibrante, delle eredità che per il 5% al top valgono in media 1,1 milioni e per i più poveri raggiunge appena i 68mila. Senza ombra di ironia la Yellen osserva che le eredità dei poveracci hanno un valore relativo, stante il loro livello di ricchezza, assai maggiore rispetto a quelle dei più ricchi.
Dice un vecchio proverbio delle mie parti che i soldi fanno soldi e i pidocchi fanno pidocchi.
Ma non dite che è colpa della Fed.