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The day after (Fed): conto da dieci trilioni per i debitori in dollari

Sicché la Fed, per una volta, non ha deluso gli osservatori, anzi ha fatto esattamente quello che si aspettavano. Ha alzato di 25 punti base i tassi, praticamente a zero dal 2008, e i mercati, per ora festeggiano. I mercati, si sa, amano avere ragione. Salvo poi pentirsene. Anche perché ci sono alcuni fattori che sembrano proprio favorire i ripensamenti. Fra questi una situazione di debito internazionale denominato in dollari che non solo non si è normalizzata, ma anzi si è aggravata.

Gli ultimi dati diffusi dalla Bis, che al tema del credito denominato in dollari ha dedicato un interessante approfondimento nella sua ultima quaterly review, mostrano che la montagna di debito in valuta americana del settore non finanziario è cresciuta ancora da nove trilioni a quasi dieci; 9,8 per la precisione nel secondo trimestre del 2015. Una buona parte, circa 3,3 trilioni, sono debiti delle economie emergenti, non a caso divenute la principale preoccupazione degli osservatori internazionali, specie adesso che il calo del petrolio mette a rischio buona parte dei loro incassi fiscali e che la Fed ha avviato il rialzo i tassi. Evento quest’ultimo che, per quanto ampiamente previsto, condurrà questo debito lungo la terra incognita di un dollaro destinato ad apprezzarsi.

Sicché, giocoforza, gli osservatori aguzzano la vista e provano a far due conti. La prima cosa che viene fuori è una tabella molto analitica che riepiloga la situazione di 12 economie emergenti che da sole pesano oltre 2,8 trilioni di debiti in dollari, che sommano sia l’esposizione bancaria che quella derivante da emissioni obbligazionaria. Se considerate che il debito estero complessivo di questo paesi quota circa 3,8 trilioni, potrete dedurne che gran parte dei debiti esteri di queste economie sono denominati in dollari, pur se con grandi differenza fra l’uno e l’altro. Il che non è certo un buon viatico per la solidità finanziaria.

Vale la pena sottolineare che la partita dei debito in valuta si inserisce in quella più ampia del debito totale che queste economie hanno cumulato dall’esplodere della crisi in poi e che, solo per il settore corporate – e sempre per le 12 economie considerate – vale oltre 22 trilioni, la gran parte dei quali, più di 17 trilioni, sono di imprese cinesi.

Tutto ciò pone degli evidenti rischi di sostenibilità, visto che questi debiti dovranno essere serviti, in un contesto internazionale che vede i tassi (e il cambio) americano orientati al rialzo. Che poi è l’esatto opposto della ragione che negli anni ha spinto questi paesi a indebitarsi in dollari: ossia il cambio favorevole e i tassi bassi.

Ad aggravare le cose la circostanza che gli studiosi non sono neanche sicuri che le cifre stimate siano esaustive, visto che per ragioni tecniche le statistiche non tengono conto di alcune partite. Ciò implica la possibilità che il rischio da exit strategy sia persino sottostimato.

Un’altra circostanza utile da osservare è che solo una piccola parte di questa montagna di crediti risiede in banche americane. Tale circostanza si può riscontrare osservando il caso cinese. Dalle statistiche Bis emerge,  valga come esempio, che l’esposizione delle banche del Regno Unito nei confronti del paese è praticamente il doppio di quello Usa. Ciò significa che gli Usa, manovrando la loro politica monetaria, svolgono un effetto diretto sul costo del debito degli emergenti e uno indiretto su chi detiene tale credito e che in gran parte si trova fuori casa loro. Quest’effetto indiretto è positivo finché il debitore paga, sennò diventa un problema che però si scarica in gran parte fuori dal paese che l’ha originato.

Un’altra complicazione deriva dalle diverse strategie che i diversi paesi hanno adottato per garantirsi i fondi bancari in dollari di cui hanno bisogno per i loro prestiti. Cina e Russia, spiegano gli studiosi della Bis, si affidano a depositi domestici in dollari per prestare in casa propria, similmente a quanto fanno l’Indonesia e le Filipine. “Si potrebbe dire che queste economie – spiegano – hanno parzialmente dollarizzato le loro economie, col risultato che le statistiche sul debito estero possono sottostimare la loro vulnerabilità alla crescita del tasso sui dollari o del valore del dollaro”. Altri paesi, come la Turchia emettono bond in dollari e raccolgono fondi il dollari da banche estere per finanziare prestiti in dollari a casa propria, Quindi oltre a importare un rischio di cambio e di tassi, si espongono anche a quello di duration, visto che usualmente i prestiti a lungo vengono finanziati con debito a breve.

Altre singolarità si osservano vedendo come si è evoluta l’emissione in bond denominati in dollari a partire dal 2009, cresciuta persino più di quella dei prestiti bancari, visto che dopo la crisi le grandi banche chiusero i rubinetti., e favorita dai rendimenti più favorevoli assicurati dagli emergenti rispetto ai bond delle economie avanzate. Nel 2015 si è osservato un certo rallentamento nelle emissioni, rispetto al passato. Ma sappiamo che uno dei più grandi emittenti di bond in dollari è la brasiliana Petrobras, che com’è noto agisce nel settore delle commodity, e che “ha visto crescere notevolmente il suo debito fra il 2009 e il 2014”. E adesso che le commodity vanno giù questa compagnia, semi-statale, dovrà faticare non poco a far quadrare i conti.

C’è un’altra particolarità. I cinesi, gli indiani, i russi e i sudafricani usano entità sussidiarie off shore per emettere i bond in dollari. Anche in questo caso, perciò, le statistiche sul debito estero possono sottostimare l’impatto di un apprezzamento del cambio o dei tassi sul dollaro. Per la cronaca, la quota maggiore dello stock di questo bond off shore, pari a 243 miliardi di dollari, è stata emessa da affiliati di istituzioi finanziarie non bancarie residenti in Cina.

Così il cerchio si chiude. Tutti paesi, seppure attraverso canali diversi e con tutte le peculiarità dei singoli casi,  dovranno vedersela con l’inizio della normalizzazione monetaria americana. Ovviamente ne sono perfettamente consapevoli, e i mercati con loro.

Il problema è che la consapevolezza non salva dalle brutte sorprese.

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Il calo delle commodity affossa gli Emergenti

Poiché le brutte notizie camminano sempre in compagnia, non mi stupisco di leggere, sfogliando un capitolo dell’ultimo World economic outlook del Fmi, una preoccupata analisi sull’andamento dei mercati delle materie prime, che solleva una questione parecchio importante: l’effetto del calo delle quotazioni delle commodity sull’economia dei paesi esportatori.

Questi ultimi, essendo paesi emergenti, vedono quindi complicarsi una situazione già resa complessa dagli alti livello di indebitamento che hanno raggiunto le loro economie, in un contesto finanziario che inizia ad esser loro avverso. Un rallentamento delle commodity implica necessariamente un calo degli introiti, da un parte, e ha effetti sulla crescita, dall’altra, andando a impattare sul funzionamento profondo di questi paesi. Ne deriva che dovranno faticare ancor di più per ripagare i propri debiti e insieme garantire la sicurezza economica delle loro popolazioni.

Qualche cinico penserà che in fondo sono problemi loro. Anzi sarà pure contento, visto che il calo delle quotazioni finisce col provocare un sostanzioso trasferimento di ricchezza dai paesi esportatori a quelli importatori. Ossia da molti poveri a pochi ricchi. Ma costui dovrebbe ricordare che le interconnessioni del nostro meraviglioso mondo tendono a esportare i problemi ben lungi da dove sono originati, come sa chiunque abbia dimestichezza con l’analisi dei flussi bancari fra le economie avanzate e quelle emergenti.

Come ogni cosa, anche il rallentamento delle quotazioni delle commodity parte da lontano, ed è utile osservare l’andamento di questi mercati fin dal 1960, grazie a un grafico che il Fmi mette a disposizione del suo studio. Qui salta all’occhio l’impennata del prezzo delle commodity nei primi anni del 2000, e in particolare di quelle energetiche e dei metalli, anche se pressioni al rialzo si notano anche in quelle alimentari.

Il rallentamento iniziato ormai da un anno ha raffreddato il boom, ma come si può osservare in alcuni mercati, siamo ancora ben oltre il livello “storico”. E ciò è un motivo più che sufficiente per sollevare l’interrogativo se possa esserci una correzione ulteriore e, nel caso, quanto andrà ad impattare sulla crescita dei paesi coinvolti.

L’Fmi ha condotto una simulazione dalla quale emerge che il calo già subito potrebbe impattare per circa l’1% sul tasso di crescita dei paesi esportatori nel periodo 2015-17, rispetto alla crescita che si è registrata fra il 2012-14. Nei paesi esportatori di energia, tale calo sarà ancora più pronunciato: si stima si possa arrivare fino al 2,25% in media ogni anno.

Ciò viene aggravato dalla circostanza che l’effetto sull’economia potrebbe non essere semplicemente ciclico, ma strutturale: “Gli investimenti e quindi l’output potenziale tendono a crescere più lentamente durante una fase di ribasso dei prezzi delle commodity”, spiega uno degli analisti.

Il fattore strutturale, a sua volta, si avvita con quello congiunturale, il che peggiora le conseguenze dello slowdown. Dal che il Fmi deduce che “i policymaker dei paesi esportatori di commodity dovranno andare aldilà della politiche di supporto alla domanda, e adottare riforme strutturali per migliorare il capitale umano, aumentare gli investimenti e ottenere più elevati tassi di crescita della produttività”.

Gira e rigira, arrivano sempre le riforme strutturali. “Un cambio più flessibile e regole capaci di evitare gli effetti procicliche della politiche fiscali può alleggerire il peso dei ribassi sulle economie esportatrici”, nota il Fmi. E poi ci sono quelle riforme che fanno bene a tutti: creare un clima favorevole al business, migliorare l’istruzione, eccetera.

Ma lo studio del Fmi, stime a parte, è utile perché è stato condotto esaminando i dati di 40 paesi esportatori negli ultimi 50 anni. E non è tanto importante il fatto che molti di questi paesi dipendano pesantemente dagli incassi esteri per la loro politica fiscale, né che tali entrate siano procicliche, quindi aiutano quando tutto va bene e danneggiano quando i prezzi calano.

Il fatto sul quale il Fmi sorvola ma che giova rilevare è che queste economie raggruppano miliardi di persone. Che prima non stavano bene e adesso rischiano di stare peggio.

Dollaro e mattone affossano i paesi emergenti

Scopro, sfogliando l’ultima Quaterly review della Bis, una evidenza che mi lascia di stucco: dal 2007 al 2014 i prezzi reali degli immobili residenziali brasiliani sono cresciuti di oltre il 90%. Questo nel peggiore dei periodi della storia economica contemporanea.

Ma il caso brasiliano ha anche la particolarità di non essere l’unico. A Hong Kong sono cresciuti dell’89%, in India del 52%, in Malaysia del 42% “e ciò malgrado i ripetuti tentativi delle banche centrali di rallentarne la
crescita”.

In Asia fanno eccezione a questo trend la Cina e la Corea, “dove i prezzi si collocavano su livelli grosso modo comparabili a quelli del 2007”, ma in compenso i prezzi sono esplosi anche in altri paesi emergenti. Oltre al Brasile, dove sono praticamente raddoppiati (e parliamo di prezzi reali), c’è anche il Perù, che ha avuto un incremento analogo, e la Colombia, dove sono cresciuti del 50%. Fra gli emergenti fa eccezione la Russia, dove i prezzi nel periodo considerato sono scesi di circa il 30%, peggiore calo fra i paesi del G20, cui segue quello che si è registrato in Italia, dove i prezzi reali sono diminuiti di circa il 25%.

Vale la pena osservare che molti di questi movimenti, sia in ascesa che in discesa, sono stati confermati nel 2014. L’India, ad esempio, nell’ultimo trimestre dell’anno scorso, rispetto all’ultimo trimestre del 2013, ha visto prezzi in crescita per quasi il 10%, superiori addirittura al Regno Unito, che fra le economia avanzate è stata quella che più di tutte ha visto l’immobiliare in crescita. Mentre in Brasile la crescita dei prezzi è stata più contenuta, pochi punti percentuali, ma comunque positiva ancora l’anno scorso.

Russia e Cina hanno guidato i ribassi l’anno scorso, con la Russia al top dei ribassi. Vale la pena osservare che il nostro paese è terzo in questa classifica, visto che ha fatto peggio della Francia e del Giappone, dove i prezzi continuano a scendere (-2%) nonostante le politiche monetarie aggressive della banca centrale.

Per concludere vale la pena notare come nell’area euro l’andamento dell’immobiliare rifletta la forte frammentazione dell’economia nell’eurozona. In Grecia, per dire, dal 2007 i prezzi sono calati del 40%, come anche in Irlanda e Spagna, mentre in Austria e Germania sono cresciuti del 23 e del 7%. Gli unici paesi avanzati dove il mattone ha superato il livello del 2007, sempre secondo le statistiche elaborate dalla Bis, sono il Canada (+17%) e l’Australia (+11%), e poi, in Europa la Norvegia (+20%) e la Svezia e la Svizzera (+30%).

Questa rapida ricognizione sarebbe incompleta se non guardassimo a una delle variabili che in qualche modo ha influenzato l’andamento dei mercati immobiliari nei paesi emergenti dove il mattone è cresciuto di più, ossia la quantità e la qualità della composizione dei loro debiti esteri contratti con le banche.

Un grafico contenuto della review della Bis spiega bene la situazione.

Qui osservo che, sempre il Brasile ha circa il 50% del proprio debito estero a breve termine, il 70% del quale è denominato in dollari americani, al livello del Messico. Mentre la Cina, che pure ha ridotto la sua esposizione in dollari a circa il 40% del debito estero, ha visto crescere notevolmente la quota di debito a breve dal 60 all’80% del totale dell’esposizione bancaria.

L’India, come la Cina, ha notevolmente aumentato la sua esposizione in dollari, che ormai sfiora l’80% del totale dei suoi prestiti, quasi la metà dei quali a breve termine. E infine la Russia è esposta il dollari per circa il 70% del debito estero, il 40% a breve termine.

Tutto ciò rende questi paesi estramamente sensibili ai cambiamenti valutari americani. E il mattone, che in fondo è un sottostante, di conseguenza.

 

Il “bondage” che soffoca le economie emergenti

Tutto il mondo è eurozona, viene da dire, leggendo un pregevole paper della Bis (The global long-term interest rate, financial risks and policy choices in EMEs), dove si narra di come la generosa politica monetaria dell’Occidente abbia finito con l’intonare i tassi reali a lunga dei paesi emergenti su quelli americani, replicando di fatto ciò che è accaduto da noi negli anni buoni dell’euro. Ricordate quando i tassi italiani erano a un passo da quelli tedeschi?

Anche lì, come da noi, è crollata la spesa per interessi dei governi. Anche lì, come da noi, sono saliti i prezzi degli asset, a cominciare dal mercato immobiliare. E anche lì, come nei Piigs, si è sviluppata una certa ipersensibilità all’andamento delle bilance dei pagamenti, che ha condotto in tempi recenti a minacciosi turbamenti valutari che le loro banche centrali, a differenza di quelle dell’eurozona che sono state commissariate, stanno cercando di contrastare muovendo i tassi.

Senonché nei paesi emergenti, che ormai anche il nostro presidente della Bce ha osservato essere uno dei principali rischi della fragile ripresa internazionale (ma c’ero arrivato persino io), s’è aggiunta un’altra complicazione: i tassi a lungo bassi, quando non negativi, hanno spinto gli investitori esteri, sempre a caccia di rendimenti, a sottoscrivere grandi quantità di bond locali, il che ha rilassato notevolmente le condizioni monetarie di queste economie. Tanto che le aziende locali si sono sentite autorizzate a iniziare a finanziarsi emettendo bond sul mercato internazionale, anziché rivolgersi alle banche, indebitandosi quindi in valuta straniera. “Questa espansione – avverte la Bis – mostra che gli indicatori di vulnerabilità basati solo sulla misura dell’espansione del credito bancario non fotografano pienamente il rischio finanziario sistemico”.

Conclusione: un bel pacco di debito estero, per lo più del settore corporate, di cui una quota rilevante in valuta straniera. Ricetta sicura per un disastro.

Bond locali comprati dall’estero e bond corporate collocati all’estero è un perfetto “bondage” per questi paesi. Ormai gli emergenti rischiano seriamente di finire strangolati, come peraltro è successo tante volte in passato.

E infatti appena è partito il primo spiffero di tapering, e i rendimenti dei Treasury a 10 anni si sono alzati, sono partite le prove generali del temutissimo sudden stop. Ossia la fine dei soldi facile che arrivano dall’estero, con tutto ciò che questo comporta persino in paesi (finora) gonfi di riserve. E anche questo noi dei Piigs l’abbiamo visto accadere fra il 2010 e il 2011. Solo che il nostro estero erano i paesi creditori dell’eurozona.

Per dare un’idea di quanto sia rilevante la questione, prendo a prestito un po’ di numeri dal paper che dimensionano bene il problema.

La Bis ha misurato la crescita delle emissioni di bond e dei prestiti bancari degli emergenti fra il 2010 e il 2013, comprese le emissioni generate da entità finanziarie stabilite nei centri off shore. Flussi diversi da quelli normalmente indicati nelle bilance dei pagamenti che misurano più compiutamente l’esposizione al rischio di chi prende a prestito.

Viene fuori, a livello aggregato, che negli ulimi tre anni e mezzo (dal 2010 fino al primo semestre 2013) i prenditori emergenti hanno emesso circa 990 miliardi di dollari di bond, la gran parte dei quali sono stati accesi da soggetti non bancari. Parliamo di circa 700 miliardi, pari a oltre il doppio di quanto gli stessi soggetti hanno preso a prestito nel frattempo dalle banche internazionali.

I prestiti accesi presso banche internazionali, infatti, non si sono interrotti. Il totale, infatti, raggiunge quota 862,5 miliardi. Le banche degli emergenti ne hanno assorbito la gran parte, pari a circa 545 miliardi, il resto, 317 miliardi, è andato al settore non bancario. “Le banche internazionali – nota la Bis – sono ancora pesantemente impegnate nel business interbancario”. Il che aggiunge quel pizzico in più di rischiosità a tutta questa partita. Ma questo finora non ha cambiato le vecchie abitudini: “Nonostante le turbolenze nel mercato globale dei bond del maggio 2013 – nota la Bis – l’emissione netta di bond rimane abbastanza sostenuta nella seconda metà del 2013”.

Forse che queste emissioni di bond sono state sostenute da quote crescenti di esportazioni di questi paesi? La Bis ritiene di no. Al contrario “l’esposizione valutaria delle corporation degli emergenti è aumentata”. Ne deriva che “le emissioni di corporation non bancarie su questa scala, un possibile stop degli afflussi a un certo punto nel futuro, può avere conseguenza sul sistema bancario domestico”, visto che le banche locali, incoraggiate dall’ampia disponibilità di risorse, hanno allentato le condizioni creditizie, rivolgendosi al mercato dei finanziamenti all’ingresso, notoriamente assai volatile.

Il risultato è che “la banca centrale può trovarsi di fronte a una grande instabilità nel mercato interbancario domestico nel caso in cui le corporation trovassero difficoltoso continuare a finanziarsi all’estero e se l’esposizone estera è molto ampia la banca centrale può esser costretta a cntemplare misure in una scala tale da minare la propria credibilità”.

La conclusione della Bis è assai poco rassicurante. “Nei mesi recenti molte economia emergenti hanno dovuto fare i conti con una violenta e simultanea caduta delle loro valute nei confronti del dollaro e dei prezzi dei loro bond governativi. Gli investitori esteri in bond emergenti si sono ricordati di quanto fossero esposti non appena le condizioni finanziarie globali sono cambiate”. Ciò dimostra, qualora fosse necessario, quanto i movimenti dei tassi a lungo americani abbiano impatto sulla politica monetaria e la stabilità finanziaria di questi paesi.

Qual è il problema? Che “il lungo periodo di tassi a lungo declinanti a livello globale è finito. A un certo punto le economie avanzate aumenteranno i tassi a breve e ridurranno le loro esposizione nei bond emergenti, siano essi governativi che corporate”.

Solo allora vedremo gli effetti del “bondage” su questi paesi.

E non sarà uno spettacolo edificante.

Minacce Emergenti

Quelli che erano i cavalli sui scommetteva l’economia internazionale rischiano di essere i brocchi che finiranno con l’affossarla.

Le economie emergenti, che avrebbero dovuto trasformarsi nel serbatoio della domanda mondiale fino a gareggiare con i tradizionali mercati di sbocco, oggi sono guardate con sospetto e una crescente preoccupazione da parte degli organismi internazionali.

Il boom creditizio che ne ha sostenuto la crescita negli anni buoni rischia infatti di trasformarsi un uno straordinario boomerang capace di fare danni seri alla fragile ripresa mondiale.

L’ultimo allarme è arrivato dall’Ocse, che al tema ha dedicato un approfondimento nell’ultimo outlook sull’economia mondiale rilasciato di recente.

Gli Emergenti possono far danni su due fronti: lato commercio internazionale e lato interconnessione finanziaria, visto che in moltio paesi emergenti “le condizioni finanziarie si sono molto deteriorate rispetto all’outlook di maggio”. A tal punto che “uno slowdown di questi paesi – scrive – può far diminuire la crescita nelle economie avanzate, i particolare in Europa e Giappone”.

Oltre ad esaminare le relazioni che intercorrono lato commercio internazionale fra Emergenti e Avanzati, rilevando come un rallentamento dei primi rischia di affossare i mercati globali, l’Ocse è particolarmente preoccupato dei collegamenti bancari che la globalizzazione finanziaria ha favorito fra queste due entità. Specie dopo aver assistito con pacato terrore alla reazione dei mercati internazionali all’annuncio (poi ritrattato) del rallentamento degli acquisti di asset da parte della Fed che ha messo in tensione gli Emergenti assai più e prima degi Avanzati.

Le statistiche della Bis, dice l’Ocse, mostra che “l’esposizione delle banche dei paesi avanzati nei confronti degli emergenti è aumentata dopo la crisi”.

E questo è il primo problema.

Gli afflussi sono arrivati da diversi paesi, a cominciare dagli Usa, con le banche americane a caccia di redditizi carry trade incoraggiati dal denaro praticmente gratis, e poi dalla Gran Bretagna e dal Giappone, che condividono tale pratica.

Ma anche l’Europa è molto esposta.

“Segni di una possibile vulnerabilità bancaria è apparsa in alcune economie emergenti – scrive l’organizzazione -. In particolare, la crescita del credito al settore privato è aumentata rapidamente dal 2007. In termini nominali, tale crescita è stata in media del 20% all’anno in molte di queste economie, malgrado, in relazione al Pil nominale, questa crescita sia stata notevole solo in Turchia, Cina e Brasile”.

In tale contesto, “una tale rapida crescita aumenta i rischi di turbolenza finanziaria, in quanto espone le banche a perdite in caso di shock macroeconomici, specialmente se associati a standard di prestito negligenti”.

Ricordo a tutti che in letteratura è ormai pacifico che una rapita crescita del credito sia una delle migliori spie di una possibile crisi finanziaria.

Tali rischi sono aumentati da quando in questi paesi si è cominciata a notare una preoccupante impennata dei non performing loan, cioé i crediti in sofferenza, associata a una generale debolezza dei coefficienti di liquidità delle banche.

Per il momento, tuttavia, il settore bancario degli emergenti risulta ancora in equilibrio, “almeno a livello aggregato”. Ma le preoccupazioni rimangono, anche a causa dell’aumentata vulnerabilità esterna. Ossia il debito estero.

Guardiamo alcuni dati.

La crescita del credito interno è stata impetuosa negli ultimi anni. La Turchia ha visto un tasso annuo medio nominale del 25% l’anno dal 2007, mentre i quattro Bric stanno poco sotto, con la Cina a pochi decimali dalla Turchia, l’India intorno al 20% come anche il Brasile,e la Russia poco sotto il 20%.

Il credito al settore privato non finanziario ha sfondato il 150% del Pil in Cina, (circa 170%), mentre era al di sotto del 150% nel 2007.

La Turchia, seconda in questa classifica, sta poco sotto il 100% del Pil, ma nel 2007 era meno della metà.

La crisi, per questi paesi, si è tradotta in una straordinaria crescita del credito interno, che evidentemente ha supportato la domanda domestica a fronte della contrazione di quella estera.

Il problema sorge quando per dare credito all’interno le banche devono far debiti all’esterno.

E qui arriviamo al debito estero.

 “La crescente dipendenza di alcune economia in deficit estero, in particolare India e Indonesia, dagli afflussi esterni di capitali le ha rese vulnerabili al rischio di deflussi”.

Il tanto temuto sudden stop.

“La vulnerabilità finanziaria è aumentata anche in altre economie emergenti a causa della quota crescente di debito estero sul totale, in particolare in India, Turchia e Polonia, anche a causa dell’aumentata dipendenza dal finanziamento a breve termine dalle banche straniere”.

Alcuni di questi rischi, nota l’Ocse, sono tuttavia mitigati dalla presenza di riserve. Ma le riserve si sa come sono: oggi son qui, domani chissà.

Anche qui qualche numero aiuterà a capire le dimensioni del problema.

In Polonia l’ammontare totale delle passività estere ha superato il 100% del Pil nel 2012. Il debito nei confronti di banche estere pesa il 25% del Pil. Oltre il 50% di queste passività è  finanziato con debito a breve e la posizione netta degli investimenti (NIIP) è negativa per oltre il 60% del Pil.

In Turchia le passività estere hanno superato il 75% del Pil. Il debito nei confronti di banche estere pesa circa il 20% del Pil e la quota di questo debito finanziato a breve con le banche estere sfiora il 60%, mentre la posizione netta è negativa per oltre il 50% del Pil.

Chiunque mastichi questa roba, sa bene che debito estero elevato finanziato a breve è il miglior viatico per una crisi della bilancia dei pagamenti. E con le minacce di exit strategy che girano nel mondo finanziario, tale crisi è qualcosa di più che una semplice possibilità.

La Cina non sta tanto meglio degli altri. L’unica differenza notabile è che, oltre ad essere comunque un creditore globale netto, in relazione al Pil ha meno passività estere, intorno al 40% (ma solo perché il Pil è più alto), e una quota bassa, sempre rispetto al Pil, di debiti verso banche estere. Ma la quota di finanziamenti a breve sfiora l’80% del totale. In compenso, la posizione netta degli investimenti è positiva per oltre il 20%. La Cina, poi, è forte delle sue riserve, che ormai sfiorano il 40% del Pil, il doppio di quelle polacche e circa il triplo di quelle turche.

Non è un caso, perciò, che di recente la Bundesbank, nel suo rapporto sulla stabilità finanziaria, abbia messo nel conto dei rischi di fronte ai quali si trovano le banche tedesche gli oltre 150 miliardi di dollari di esposizione nei cofronti proprio delle banche dei paesi emergenti.

Si può star certi che il caso tedesco non è l’unico: tutti hanno prestato agli Emergenti, lucrandoci pure succulenti guadagni, e ora iniziano a temerne le conseguenze.

La stretta monetaria, se mai arriverà, rischia infatti di colpire prima gli Emergenti, le cui banche potrebbero faticare a trovare il necessario per rifinanziare i propri debiti a breve, e di conseguenza gli Avanzati, che a queste banche i soldi li hanno già prestati.

La bella favola dei paesi emergenti rischia di strasformarsi in un incubo.

L’incubo della Minaccia Emergente.

Cosa succederà con l’exit strategy? E’ già tutto scritto

Mentre scrutiamo col fiato sospeso i movimenti di sopracciglio della Fed, dovremmo ingannare l’attesa leggendo l’ultimo Quaterly report della Bri che racconta, di fatto, cosa succederà nel mondo qualora i nostri signori americani decideranno di stringere i rubinetti del denaro. E lo illustra con rara chiarezza, già dal titolo: “I mercati precipitano l’inasprimento”.

Il rapporto altro non è che una cronaca bene informata degli eventi accaduti fra maggio e luglio di quest’anno, quando il presidente della Fed iniziò a far capire di voler modificare la politica monetaria ultra-accomodante della Fed.

Bastò la parola, e successe un mezzo patatrac.

I rendimenti dei mercati obbligazionari schizzarono alle stelle, quelli azionari crollarono, le valute dei paesi emergenti collassarono, provocando un aumento dell’inflazione e un aumento del costo del denaro. Il danno deve esser sembrato talmente esagerato che a un certo punto, lo ricorderete, la troika delle banche centrali, quindi Fed, Bce e Bank of England, si son trovate costrette a annunciare urbi et orbi che la politica monetaria sarebbe rimasta accomodante tutto il tempo necessario, o almeno finché la ripresa non si fosse consolidata.

E tuttavia i tassi obbligazionari continuarono a salire ancora per diversi giorni. I mercati ci misero un po’ a metabolizzare l’accaduto, e anche dopo averlo fatto, le condizioni non sono più le stesse di prima.

Ancora ad agosto i tassi obbligazionari erano orientati al rialzo, e pure se le borse hanno in parte recuperato le perdite, rimangono in tensione, così come il mercato dei cambi. La rupia, per dire, è in profondo calo nei confronti del dollaro, come anche il rublo.

Come siamo arrivati fino a questo punto?

La risacca cominciò il 3 maggio, quando i dati di mercato sull’occupazione americana, in calo, fece sospettare al mercato che fosse vicina la fine della bonanza. I rendimenti sui mercati obbligazionari cominciarono a salire.

Il mondo conobbe la prima scossa.

Ma ci vollero tre settimane perché lo smottamento raggiungesse i mercati delle obbligazioni ad alto rendimento. Il 22 maggio Bernanke disse al Federal Open Market Committee che avrebbe potuto considerare una riduzione del ritmo degli acquisti.

L’onda d’urto che si generò di conseguenza  fece crollare gli indici dei mercati azionari e obbligazionari sia nelle economie avanzate che in quelle emergenti e continuò a generare panico fino a quando, il 19 giugno, Bernanke sottolineò che il rallentamento degli acquisti, il cosiddetto tapering, in effetti avrebbe potuto verificarsi da metà 2014 in poi, in coerenza con l’andamento positivo del mercato del lavoro (tasso di disoccupazione al 7% entro la data indicata).

Iniziò una settimana di resa dei conti.

Ci vollero alcuni giorni prima che i mercati metabolizzassero la notizia. Le borse si ripresero, ma l’ondata di vendita delle obbligazioni Usa e delle obbligazioni societarie nell’area euro durò fino ai primi di luglio, quando le tre banche centrali annunciarono che la politica accomodante sarebbe proseguita fino a quando necessario.

S’inaugura la politica di “forward guidance” delle banche centrali, ossia una nuova modalità con la quale le banche centrali provano a orientare i mercati illustrando per grandi linee le proprie scelte future di politica monetaria.

Il giochetto funziona. La forward guidance raffredda le turbolenze, mettendo fine a due mesi di oscillazioni sui mercati, che però non sono trascorsi invano.

La Bis calcola che tra il 3 maggio e il 5 luglio i rendimenti sui titoli del Tesoro americano a dieci anni sono aumentati di 100 punti base, toccando il 2,74%, mentre in Giappone, Germania e Gran Bretagna sono aumentati di 30, 50 e 75 punti. Al contempo gli spread sulle obbligazioni ad alto rendimento nelle economia avanzate si sono allargati di 60-90 punti. L’andamento dei mercati azionari è altalenante. I mercati europei, rispetto ai massimi di maggio, risultano in calo fra il 2 e il 6%, quelli giapponesi in rialzo del 4,5% e quello americano dell’1%.

Per converso, va molto male per le economie emergenti. L’indice delle obbligazioni ad elevato rendimento schizza di 130 punti mentre gli indicizi azionari nei Bric perdono dal 3 al 13% e le valute di Brasile, India e Russia perdono il 10% rispetto al dollaro, l’inflazione arriva al 65 in India e all’8% in Turchia. Le obbligazioni denominate in dollari in India e Russia aumentano i rendimenti di 100 punti e superano quelli denominati in valuta locale.

Detto in parole povere, fuori dall’illusione monetaria, i paesi emergenti vengono prezzati per quello che valgono davvero e si scatena il panico.

La Bri nota che “gli annunci circa l’evoluzione futura della politica monetaria statunitense sono intervenuti allorché le prospettive di crescita nelle economie avanzate stavano migliorando, in netto contrasto con il rallentamento nelle economie emergenti”. E se la risacca ha minacciato di affossare la timida ripresa dei paesi benestanti, ha di sicuro avvitato la contrazione in quelli emergenti, che come al solito sono i primi a pagare lo scotto della politica monetaria americana.

Il prezzo più alto l’hanno pagato i paesi dell’America Latina e poi la Cina.

Quest’ultima aveva iniziato a prendere provvedimenti per limitare l’espansione del credito, vista la montagna crescente di debito che si sta accumulando a Pechino, quando è arrivata la dichiarazione della Fed. Il deflusso (o mancato afflusso di dollari che dir si voglia) di dollari che ne è conseguito ha provocato un pericoloso credit crunch, con i tassi overnight e pronti contro termine arrivati al 30% a metà giugno, che messo in fibrillazione l’economia cinese e, di conseguenza, quelle che vivono della domanda cinese, a cominciare dagli esportatori di materie prime, quindi Brasile e Russia. Si calcola che l’attività bancaia cinese si sia contratta del 60% nel periodo. La banca centrale cinese è stata costretta ad affermare di essere pronta a fornire maggiore liquidità.

Un classico effetto domino.

Degna di nota è l’osservazione che, malgrado lo spauracchio, i mercati creditizi sono alla “ricerca costante di rendimento”. I tassi, dopotutto, sono ancora molto bassi e ciò spinge gli operatori finanziari a scegliere il rischio pur di spuntare qualche decimale in più di guadagno.

La conseguenza è che sono aumentate le emissioni di debito più rischioso, come ad esempio quelle delle imprese europee, che hanno segnato, nel primo trimestre 2013, un +12,5% rispetto al 2012.

Le banche inoltre, si stanno finanziando sempre più con debiti subordinati, ossia con strumenti che possono essere computati nel patrimonio di vigilanza Tier 2. Rispetto ai dodici mesi conclusi metà 2012 le emissioni di debito subordinato sono quasi decuplicate negli Stati Uniti e sono aumentate di 3,5 volte in Europa, attestandosi rispettivamente a $22 e 52 miliardi nei dodici mesi fino a metà 2013. Per chi non lo sapesse, i debiti subordinati sono caratterizzati da un livello di garanzia inferiore rispetto alle obbligazioni ordinarie, nel senso che, in caso di fallimento, vengono rimborsati solo dopo quelli ordinari e generalmente non sono garantiti da asset. Quindi, in pratica, sono assai più rischiosi.

Un secondo elemento per valutare l’aumentata propensione al rischio è l’aumento dei prestiti “leveraged”, ossia prestiti erogati a soggetti con basso merito di credito.

“La quota di questi prestiti sul totale delle nuove sottoscrizioni – scrive la Bri – ha raggiunto il 45% a metà 2013, un livello superiore di 30 punti percentuali rispetto al minimo registrato durante la crisi e di 10 punti percentuali al massimo pre-crisi”. Quindi va peggio, da questo punto di vista, dell’epoca pre-Lehman.

Ricapitoliamo. La stretta della Fed si sa già cosa provocherà, visto che sappiamo cosa ha provocato la precedente generosità. Il denaro defluirà dai paesi emergenti per tornare da dove è venuto e le altre banche centrali, a cominciare dalla Bce e a finire da quella cinese, saranno costrette ad “imitare” la generosità della Fed per non lasciare a secco i mercati in un momento in cui è ancora alto l’appetito per il rischio e quindi l’esposizione rischiosa delle banche, con tutto ciò che ne consegue in termini di stabilità finanziaria.

Sono passati quasi sei anni dall’inizio della crisi.

E sembra ieri.

 

Il diluvio che sommerge le economie emergenti (e noi)

Alla fine gli ultimi saranno i primi, a venire travolti. Quando finirà la “bonanza finanziaria”, come la chiama il vice governatore della Banca centrale messicana, Manuel Sanchez, i paesi emergenti pagheranno un prezzo molto alto alle politiche accomodanti messe in campo dalle altre banche centrali, quelle delle economie ricche, per sostenere i propri paesi.

Sanchez ne ha parlato a Buenos Aires il 23 maggio scorso al Cemla’s, il Centro per gli studi latino-americani. E ne ha parlato forte di un’esperienza consolidata sul tema, visto che il Messico ha sofferto una crisi devastante negli anni ’90 proprio in coincidenza del ritiro dei capitali americani, richiamati in patria dal rialzo dei tassi della Fed.

Da allora il mondo è cambiato, ma fino a un certo punto. Quello che è rimasto uguale è che all’allargarsi dei rubinetti delle banche centrali “benestanti” corrisponde un incremento dei flussi di capitale verso i paesi emergenti, che fa schizzare verso l’alto i corsi di tutti gli asset, il valore dei titoli di stato e, di fatto, rende fragili, dal punto di vista finanziario, queste economie, che vivono sulla propria pelle una sorta di riedizione dei vecchi regimi coloniali.

Rispetto al passato c’è solo una differenza: hanno imparato a difendersi un po’ meglio, accumulando riserve e manovrando un po’ meglio la loro politica monetaria. Ma è poca cosa. Quando le banche centrali smetteranno di pompare ossigeno al sistema finanziario, i paesi emergenti dovranno fare i conti con la fine della bonanza. E allora…

E allora mister Sanchez non può che dirsi preoccupato. I dati, d’altronde, testimoniano che la gentile “regalia” di capitali esteri agli emergenti sta conoscendo un’ulteriore impennata, dopo l’abbuffata degli ultimi dieci anni.

In particolare il bollettino di marzo della Banca centrale messicana mostra che gli afflussi verso gli emergenti, che erano rallentati dopo il 2008, stanno conoscendo un altro rigoglioso momento di crescita. Nel 2012 hanno superato i 100 miliardi di dollari, e nel primo trimestre del 2013 stanno già a quota 50 miliardi, ben oltre il picco storico.

Questo diluvio di liquidità, che ha notavolmente aumentato la tolleranza al rischio, finisce in gran parte in investimenti di portafoglio, quindi asset finanziari, assai più facilmente smobilitabili rispetto agli investimenti diretti. “Questi investimenti di portafoglio – dice Sanchez – possono comprare gli asset delle economie emergenti, le azioni e i debiti bancari o corporate”. In pratica finiscono con  l’aumentare il livello generalizzazto di indebitamento del paese a cui si rivolgono, creando la sensazione di un aumento diffuso di ricchezza, solo perché “girano” più soldi “senza che ciò abbia a che vedere con i fondamentali”, avverte Sanchez.

Un film che abbiamo visto tante volte, anche a casa nostra. Quando nel 2011 i capitali esteri fuggirono dal nostro debito pubblico abbiamo vissuto una devastante crisi finanziaria, seguita da una crisi politica.

Nel caso dei paesi emergenti, questi squilibri sono particolarmente aggravati dal loro status di economie “strutturalmente” fragili. “In principio – dice Sanchez – tale affluso di capitale può esser vista come positiva”. Ma poi i problemi non tardano a venir fuori. “Il primo problema può nascere dalla generazione di squilibri finanziari per le famiglie, le imprese e i governi, nella forme di un debito insostenibile. Questo fenomeno può essere accompagnato da bolle nei prezzi degli asset”.

Poi ci sono le conseguenze sul cambio, che tende ad apprezzarsi, sui bond sovrani e sui prezzi degli immobili. Insomma, la liquidità fa salire il livello generale dell’indebitamento e genera problemi sul livello generale degli prezzi degli asset, oltre a peggiorare la contabilità pubblica.

Anche questo l’abbiamo visto in casa nostra, nel Sud dell’Europa, negli anni “buoni” dell’euro e degli spread bassi. Tanto per rilevare come anche noi ormai siamo un paese emergente.

“La seconda causa di preoccupazione – rileva Sanchez – è che l’esperienza internazionale conferma che gli incrementi degli afflussi di capitale sono finiti invariabilmente in bruschi stop e inversioni”. Quindi la questione non è tanto se tutto ciò potrà succedere – il che è certo – ma quando succederà. “I debitori domestici possono soffrire considerevoli danni”, ricorda Sanchez.

E anche questo lo sapevamo già, per averlo sofferto sulla nostra pelle.

Come difendersi? C’è poco da fare. I paesi emergenti possono solo scoraggiare i movimenti di capitale (in un mondo dove sono dappertutto liberalizzati) o adottare esplicitamente controlli sui capitali per includere restrizioni sugli investimenti di portafoglio. Le banche centrali possono accumulare riserve internazionali da vendere sul mercato aperto per raffreddare il cambio, gli stati creare cuscinetti di risorse e fare politiche fiscali che contengano la spesa pubblica. Insomma: prepararsi alla siccità dopo il diluvio.

Noi italiani non abbiamo neanche queste possibilità, visto che non gestiamo la politica monetaria, ne possiamo decidere alcunché sui movimenti di capitale.

Siamo più fragili del Messico.