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Delusioni da QE: l’inconcludenza anglo-americana


Ora che anche il dato del Pil Usa ha deluso gli osservatori, con un povero +0,2% di crescita, dopo che era accaduto lo stesso con quello inglese, col suo misero +0,3%, mi chiedo se il vero danno che rischiano di provocare i vari QE non finirà col coincidere con quello che tutti dicevano di voler evitare: la perdita di fiducia.

La fiducia nel QE, innanzitutto.

Me lo dico mentre guardo ai nostri problemi europei, con la BCE a pompar  fiducia tramite l’acquisto di asset, iniziando noi a godere dei benefici, per adesso esclusivamente finanziari, di cui Usa e UK godono  dall’inizio del secondo decennio del secolo. Ossia da quando hanno iniziato a far lavorare le proprie banche centrali.

E mi chiedo pure se quello che sta accadendo in quelle economie in qualche modo non dovrebbe servirci da lezione.

Il problema del QE, ebbe a dire un noto banchiere centrale, è che non funziona in teoria ma in pratica sì. Senonché quest’inizio di 2015 ci dice un’altra cosa: funziona in pratica ma fino a un certo punto.

Sarebbe avventato trarre conclusioni dall’andamento di un trimestre economico. Però non posso fare a meno di notare che il dato deludente dei paesi capofila dei QE arrivi proprio quando la BCE ha iniziato la sua politica di allentamento e la banca centrale giapponese ne ha preannunciato ulteriori. La conseguenza è stata che le monete di questi paesi si sono ulteriormente svalutate, a vantaggio soprattutto del dollaro. Ed ecco che la statistica ha presentato il conto.

Sarà pure un caso, ma la sensazione è che il QE sia la forma aggiornata e contemporanea delle vecchie svalutazioni competitive.

Tuttavia, poiché diffido delle sensazioni, corro a leggere le release degli istituti di statistica che, al di là del dato numerico, come sempre provvisorio e soggetto a revisioni, fotografano l’andamento dei vari settori del prodotto. E comincio da quello inglese.

La prima informazione utile che trovo nella rilevazione dell’istituto di statistica inglese è che l’unico settore che ha visto il prodotto in crescita è stato quello dei servizi, che tutti noi sappiamo essere intimamente correlato a quello finanziario. In particolare i servizi sono cresciuti dello 0.5%.

Al contrario il settore delle costruzioni ha perso l’1,6%, quello industriale lo 0,1% e l’agricoltura lo 0,2%. La dieta pane e mattoni degli inglesi evidentemente mostra la corda.

La seconda informazione è che il primo trimestre 2015 sul primo trimestre 2014 ha visto un Pil in crescita del 2,4%, quando gli analisti si aspettavano arrivasse al +4% rispetto al picco negativo del primo quarto 2008.

La terza informazione la deduco osservando le tabelle. Fatto 1.000 il peso del prodotto complessivo, il settore dei servizi pesa 784 sul totale, e ciò spiega perché una crescita del Pil dei servizi sia capace di spostare l’indicatore delle crescita in territorio positivo. Il settore delle costruzioni, per dire, pesa appena 64. Il calo dell’1,6% del pil nel primo trimestre del settore, quindi, ha un peso relativo assai inferiore sul totale del prodotto rispetto alla crescita dello 0,5% dei servizi.

In tal senso, il QE, che ha servito assai bene l’industria finanziaria, è stato sicuramente un ottimo viatico per la crescita inglese che, fatto 100 l’indice del 2011, al rimo trimestre 2015 è arrivato a 106,6.

L’ultima notizia la deduco dall’osservazione del grafico che misura con istogrammi l’andamento dei vari trimestri della crescita inglese rispetto a trimestre precedente. Nel corso del 2014 il trend è chiaramente in declino.

La crescita inglese, insomma, rallenta.

Di quella americana vi parlerò domani.

(2/segue)

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L’origine estera della crescita italiana


Mentre sfoglio curioso il volume dell’ultimo DEF del governo, dalla Banca d’Italia arriva l’ultimo bollettino economico che fotografa l’andamento dell’economia e tira le somme del 2014.

Poiché i consuntivi dicono sempre di più dei preventivi, mi affretto a cambiare argomento e inizio a leggere quello che dice Bankitalia, nel cui bollettino il riferimento al Def occupa poche righe dell’ampio sommario che precede il resoconto.

Qui leggo che, anche grazie al QE della BCE, “in uno scenario di piena attuazione del piano, la crescita del prodotto in Italia potrebbe essere superiore allo 0,5 per cento quest’anno e attorno all’1,5 il prossimo”.

Tutti d’accordo insomma: il 2015 sarà l’anno del ritorno alla crescita. Che sia dello 0,5, come si prevede, o di qualche decimale in più dal mio punto di vista cambia poco. Quel che conta è invertire una tendenza che dura ormai da anni. E anche su questo c’è piena sintonia fra gli osservatori.

Poi però trovo una tabella che riepiloga l’andamento del Pil l’anno scorso, suddivisa fra le varie componenti, col suo triste -0,4% finale, che ci racconta di un anno, quello trascorso, dove la domanda nazionale ha contribuito negativamente per -0,7%, e gli investimenti ancora peggio, con il -3,3%.

A fronte di ciò appare una crescita dell’import, in aumento dell’1,8% rispetto all’anno precedente, e soprattutto dell’export, +2,7%. Il saldo indica che l’export netto ha contribuito alla crescita solo per lo 0,3%, non sufficiente quindi a controbilanciare gli altri contributi negativi che sono arrivati dal resto delle componenti del Pil.

Mi chiedo perciò da dove dovrebbe arrivare la crescita quest’anno.

Bankitalia riconosce che permane una debolezza di fondo dell’attività economica, con l’indicatore Ita-coin ancora in territorio negativo. Ricordo che tale indicatore misura l’andamento della congiuntura.

“Segnali più favorevoli provengono dalle inchieste qualitative, che delineano un quadro di maggior fiducia nei giudizi di imprese e famiglie, soprattutto in termini prospettici”, aggiunge.

In pratica, la crescita dovrebbe dipendere dalla nostra capacità di farci tornare la voglia di produrre e lavorare di più, oltre che di spendere i soldi che teniamo fermi in banca.

In sostanza è una scommessa sul futuro.

A ciò si aggiunga che un “impulso alla crescita potrà scaturire dall’ampliamento del programma di acquisto di titoli recentemente varato dal Consiglio direttivo della Banca centrale europea” e che “l’attività economica beneficerebbe inoltre delle basse quotazioni del greggio: la riduzione della spesa energetica libera risorse che famiglie e imprese possono destinare a consumi e investimenti e potrebbe contribuire a un effetto sul prodotto nell’ordine di mezzo punto percentuale in due anni”.

Se questo è il quadro, l’unica cosa certa è che la crescita è incerta, per il semplice fatto che si basa su ipotesi molto incerte.

L’unica cosa sicura, al momento, è il QE, i cui effetti macroeconomici sono altrettanto incerti, basati come sono su stime della banca centrale italiana effettuate sulla base del proprio modello econometrico.

Tali stime ipotizzano che il Pil italiano potrebbe aumentare cumulativamente dell’1,4% nel biennio 2015-16 grazie al QE di Draghi.

Attenzione però: tale assunzione porta con sé alcune ipotesi macro, che è interessante conoscere per capire su cosa sia fondata questa previsione.

In particolare Bankitalia ipotizza che “i rendimenti dei titoli di Stato scendano di circa 85 punti base, favorendo una ricomposizione dei portafogli verso strumenti più redditizi; i tassi bancari si riducano di 35 punti base per le famiglie e di 20 per le imprese, contribuendo a stimolare la domanda di prestiti; il tasso di cambio si deprezzi nei confronti del dollaro dell’11,4 per cento (del 6,5 tenendo anche conto della quota di scambi commerciali dell’Italia con il resto dell’area dell’euro e con gli altri paesi); la domanda estera potenziale dell’Italia cresca di quasi lo 0,5 per cento, grazie alla più sostenuta attività economica negli altri paesi dell’area”.

Se tutte questi condizioni si verificheranno, il QE potrebbe favorire una crescita del prodotto “superiore allo 0,5 per cento quest’anno e attorno all’1,5 il prossimo”.

A fronte di queste previsioni, il DEF del governo stima “per il 2015 un incremento del PIL pari allo 0,7 per cento, che si porterebbe all’1,4 e all’1,5 per cento nel 2016 e 2017”.

Quindi secondo il governo, nel biennio 2015-16 il Pil dovrebbe crescere cumulativamente del 2,1%, secondo Bankitalia almeno del 2%, l’1,4% del quale grazie al QE.

In sostanza, la crescita dipenderà dall’assunzione di maggiori rischi e più debiti, da parte degli operatori interni, e dalla domanda estera.

Soprattutto da quella.

La tremarella globale e la coperta corta della crescita


Come in un riassunto delle puntate precedenti, il Fondo monetario internazionale collaziona i peggiori tremori globali dovendosi occupare di redigere la nuova edizione del Global financial stability report.

Chi come me, per mestiere o per diletto, passa il tempo a leggere i resoconti preoccupati che arrivano da tutte le parti del mondo sulla situazione della finanza internazionale, della liquidità, dei mercati a reddito fisso o valutario, leggerà l’ennesimo monito del Fmi come una stanca ripetizione di circostanze note, che i compilatori del rapporto devono mettere insieme per dovere d’ufficio. E forse non ha tutti i torti.

Il fatto però è che il Fmi non fa filosofia, o almeno non ne fa più di tanto: incrocia dati statistici con modelli econometrici e ne trae previsioni e stime. Perciò quando si arriva alla conclusione che “gli sviluppi degli ultimi sei mesi hanno aumentato i rischi per la stabilità finanziaria globale”, possiamo solo fare due cose: ignorare l’allarme o toccare scaramanticamente ferro.

Qualcuno si stupirà che tale aumento di rischi coincida col migliorare delle previsione di crescita, che lo stesso Fmi ha pubblicato nel suo World Outlook più recente, persino per la povera e vecchia Eurozona. Ma in realtà non dovrebbe: le migliori previsioni di crescita sono la contropartita dell’aumentato rischio finanziario. Nessuno sfugge alla regola generale della finanza, forse l’unica che valga realmente, ossia che per aumentare i rendimenti bisogna rischiare di più. Chi non risica non rosica, dice il proverbio. Vale per ognuno di noi, ma anche per il mondo nel suo insieme.

Per avere più rendimento perciò, ossia più crescita, il mondo deve rischiare di più, sperando che la crescita non si riveli una coperta troppo corta per proteggerci dalla tremarella che tutti questi rischi provocano in ognuno di noi.

Tutto qua.

Sicché a me, che sono cresciuto a pane e allarmi, quelli del Fmi, pure se fatti per dovere d’ufficio, mi sembrano il prezzo ipocrita che il mondo economicizzato paga al suo senso di colpa, e come tali li considero: utili a comprendere ma insinceri ab imis fundamentis. Se fossero sinceri, questi almanacchi, dovrebbero confessare che l’instabilità è intrinseca nell’idea economica che essi stessi propagandano.

Se decido di parlarvene qui, è solo perché questo blog è la testimonianza del cronicario economico nel quale ognuno di noi vive. Questi rischi, quindi, ci riguardano personalmente e credo che conoscerli possa servire a salvare la pelle, o almeno a farsi meno male quando il redde rationem arriverà, come è sempre arrivato.

Tutto quello che c’è da sapere, o meglio da ricordare, sta scritto nell’excutive summary del documento che vi sommarizzo per punti, riservandomi gli approfondimenti per altri post.

La premessa dice già tutto: “Un ampio raggio di sviluppi macroeconomici, positivi e negativi, e finanziari si sono verificati nei sei mesi trascorsi. Al netto, questi sviluppi hanno aumentato i rischi per la stabilità finanziaria”.

Quindi stiamo rischiando di più per spuntare qualche decimale di crescita. Mi chiedo se avessimo alternative.

Di positivo c’è che i vari QE, non ultimo quello europeo, dovrebbero spingere il prodotto e insieme sconfiggere il baubau deflazionario che tutte le banche centrali dicono di voler debellare. Tale miracolo dovrebbe avvenire tramite una serie di canali, a cominciare da quello del credito.

Ma poiché il rapporto si occupa di stabilità finanziaria, ecco che il lato oscuro della forza (del QE) viene rappresentato con maggior nitidezza.

Un’altra affermazione rivela un dettaglio che molti trascurano: “Malgrado i benefici siano abbastanza ben distribuiti, gli impatti avversi dei recenti shock hanno avuto conseguenze su settori o economie già fragili. Nel frattempo le continue prese di rischio e i cambiamenti nei mercati del crediti hanno spostato il rischio dalle economie avanzate a quelle emergenti, dalle banche alle banche ombra, dai rischi di solvency a quelli di liquidità“.

Insomma: siamo inseriti in un gigantesco gioco delle tre carte. E conosciamo tutti chi sia il mazziere.

La questione monetaria, con i tassi ormai stabilmente in territorio negativo, ha chiare conseguenze per molti settori finanziari, a cominciare da quello assicurativo, e in particolare per quello europeo.

Solo per darvi un’idea, gli stress test assicurativi svolti dall’Eiopa (European Insurance and Occupational Pensions Authority) mostrano che il 24% degli assicuratori dell’area potrebbe non essere in grado di raggiungere i suoi requisiti di solvency in caso di prolungata durata di uno scenario di tassi bassi. Tale industria, ricorda il Fmi, gestisce 4,4 trilioni di asset nell’eurozona con crescente e profonde interconnessioni col resto del mondo.

Il QE, insomma, ci scava la fossa nel momento stesso in cui la riempie di euro.

Poi c’è la questione del debito privato, che si è sì ridotto, ma rimane alto e lo rimarrà ancora a lungo. Per dire: il Francia, Italia, Portogallo e Spagna si prevede che il debito corporate lordo rimarrà nell’ordine del 70% del Pil almeno fino al 2020, e quello delle famiglie, in UK e in Spagna, bel al di sopra.

Poi ci sono gli Stai Uniti, certo, con le loro indecisioni monetarie che rischiano di scaricare sui paesi emergenti, come è sempre successo ancora di recente, il costo dell’apprezzamento del dollaro, visto che costoro hanno emesso debito denominato in valuta estera, per lo più americana, a rotta di collo.

E che dire della Cina che già non si sappia? Magari che l’esposizione al settore del real estate, esclusi i mutui, è arrivata al 20% del Pil, o che magari “11 dei 21 paese emergenti monitorati settori bancari mostrano una notevole dipendenza dai crediti concessi al settore corporate”.

O magari, che il calo del petrolio ha reso i paesi esportatori, gonfi di debiti da ripagare, assai più fragili, e che tale fragilità inizia a fibrillare in Argentina, come in Brasile, con in Sudafrica o Nigeria.

Tutte queste circostanza hanno in comune rendere molto dipendenti dal funding estero questi paesi, le ex grandi speranze dell’Occidente, divenute ora la grande Minaccia Emergente.

Ma non sono solo le complicazioni dell’economia internazionale a preoccupare il Fmi. E’ l’infrastruttura stessa della finanza che è pericolosa, con i suoi sistemi ombra, le gravi crisi di liquidità alle quali si assiste di tanto in tanto, i cambiamenti profondi che abbiamo visto stanno intervento nei mercati.

Di fronte a questo scenario il Fmi consiglia prudenza, temperanza e moderazione.

Tutto il contrario della realtà

 

 

L’Italia a crescita zero


Sicché un venerdì 13 come un altro l’Istat rivela, con grande sollievo nazionale, che la crescita del Pil sul trimestre precedente non c’è stata. Zero.

Strano a dirsi, l’azzeramento della crescita, lungi dallo spaventare, rassicura quasi, essendo terminata – si affrettano a scrivere i tanti commentatori – la decrescita.

Che poi a ben vedere non è così, visto che l’azzeramento del quarto trimestre completa comunque un 2014 con un segno negativo dello 0,4%, persino peggiore di quello -0,3% che il governo aveva vaticinato pochi mesi fa, e che comunque rispetto al quarto trimestre 2013 il calo è stato dello 0,3%.

L’indomani di questo venerdì 13, il titolo che mi suggestiona di più è quello del Sole 24 ore, che in prima pagina nazionale dice che “il Pil dell’Italia tiene” e in un sommario sottolinea come “L’economia italiana risale a zero”. Uno straordinario spiazzamento retorico. Il Pil che tiene risalendo a zero.

Mentre plaudo al titolista, che ha evidentemente a cuore il buonumore nazionale, il maledetto ficcanaso che insiste dentro di me mi dice due cose: la prima è che i margini dell’errore statistico, che gli istituti nazionali si guardano bene dall’evidenziare nelle loro note, oscilla su valori che somigliano agli andamenti del Pil italiano, ossia  più o meno uno 0,1-0,3%.

La seconda cosa è che conviene andarsi a vedere le voci che compongono questo miracoloso ritorno a zero.

Sicché corro a leggere per intero la nota Istat sul prodotto quando, improvvisamente, mi sovviene che prima di questo venerdì 13, così fortunato per l’economia italiana, c’è stato un giovedì 12 nel quale, sempre l’Istat, ha rilasciato un’altra nota che mi sembra importante quanto quella di venerdì 13, ma che però non ha ricevuto l’onore della prima pagina del Sole 24 ore, né di altri giornali altrettanto titolati.

Mi riferisco alle statistiche sull’andamento della popolazione. La vera crescita zero del nostro paese. Per la semplice circostanza che, a differenza delle statistiche del prodotto, che ingannano per senso e sostanza, quelle sulla popolazioni si limitano a raccogliere i numeri di morti e nascite. Niente algoritmi: semplice aritmetica.

Il fatto che tali dati non abbiano dignità di prima pagina, quando anche uno studente di economia sa perfettamente quanto sia stretto il legame fra le questioni economiche e quelle demografiche, dipende da una serie di ragioni, a cominciare dal luogocomunismo del nostro dibattere politico-giornalistico, a finire dall’importanza assoluta che il Pil ha conquistato nel tempo, essendo il denominatore di ogni indice di sostenibilità dei debiti, e quindi, in sostanza del nostro buonumore.

Decido perciò di tentare un esperimento e leggere insieme le statistiche del prodotto con quelle della popolazione.

Comincio dalla prima perché neanch’io sfuggo al luogocomunismo che fa credere che un buon Pil sia la panacea dei nostri mali economici.

Qui leggo che “la variazione congiunturale è la sintesi di una diminuzione del valore aggiunto nei comparti dell’agricoltura e dell’industria e di un aumento nei servizi. Dal lato della domanda, il contributo negativo della componente nazionale (al lordo delle scorte) è compensato da un apporto positivo della componente estera netta”. Quindi aumenta il prodotto nei servizi a scapito di agricoltura e industria, mentre la domanda estera compensa il calo di domanda nazionale.

Poi nel prospetto che sommarizza i tassi di crescita congiunturali noto che non è la prima volta che l’economia italiana “risale a zero”. Era già successo nel terzo trimestre 2013 e nel primo trimestre 2014. E poi è tornata negativa. Per la cronaca, l’ultima stima positiva del Pil è quella che risale al secondo trimestre 2011, con un +0,2%. Sempre ai confini dell’errore statistico.

Insomma, somigliamo a un motore inceppato, che tenta di mettersi in moto ma poi si spegne e che coltiva la speranza di partire perché ha nel serbatoio un po’ di benzina che arriva dall’estero. Faccio davvero fatica a comprendere come sia possibile che un paese che ha una notevole ricchezza finanziaria e patrimoniale come il nostro debba dipendere dalla domanda estera per far rialzare a zero il Pil.

Depresso, cambio argomento e volgo la mia attenzione alla nota demografica, che, se possibile mi deprime ancor di più.

Qui leggo che “regolarmente da un decennio si rileva una riduzione della popolazione di cittadinanza italiana, scesa a 55,7 milioni di residenti al 1° gennaio 2015. La perdita netta rispetto all’anno precedente è pari a 125 mila residenti”. Ciò significa che se non fossero arrivati nel frattempo cinque milioni e 73mila immigrati, non saremmo quei 60 e rotti milioni che ancora siamo, ma assai meno. E mi sovviene, mentre osservo questo dato, un vecchio grafico dell’Ocse, dove si misurava la crescita media del pil pro capite reale del paesi del gruppo fra il 2000 e il 2011 e spiccava il nostro, unico ad avere un tasso negativo dello 0,1%.

Sempre lì siamo, da un quindicennio.

Se fossi un economista mi proporrei di studiare la correlazione fra andamento demografico e (de)crescita del prodotto. Ma poiché non sono capace, mi tengo la domanda e vado avanti.

Sempre nella nota Istat leggo che  “al 1° gennaio 2015 l’età media della popolazione ha raggiunto i 44,4 anni. La popolazione per grandi classi di età è così distribuita: 13,8% fino a 14 anni di età, 64,4% da 15 a 64 anni, 21,7% da 65 anni in su”.

Se fossi un economista, mi chiederei quale sia la propensione al consumo di beni agricoli e industriali, e quale invece la domanda di servizi, di una popolazione che per oltre un quinto è anziana,  e quale sia la sua propensione a fare investimenti, tipo comprare una casa. Ma poiché economista non sono, mi tengo anche questa domanda e continuo a leggere.

Scopro che per la prima volta dall’Unità d’Italia le nascite sono arrivate al minimo di 509 mila e che i morti sono stati 597 mila, quattromila in meno rispetto al 2013. Il combinato disposto ha generato un aumento della speranza di vita, confermandosi l’Italia un buon Paese per la terza età.

Rimane il fatto che senza l’afflusso degli immigrati saremmo in decrescita, anche demografica. E che anche gli immigrati arrivano sempre meno: il saldo migratorio con l’estero, positivo per 493 mila unità nel 2007, è arrivato nel 2014 a 142 mila.

A ciò si aggiunga che il saldo migratorio per gli italiani risulta negativo per 65 mila unità, il 20,25% in più rispetto al 2013. Aumentano, perciò, quelli che vanno via dal Paese. E lascio alla vostra immaginazione di ipotizzare a quale classe d’età appartengano.

Noto infine che, anche al lordo dell’effetto positivo dell’immigrazione, “nel 2014 la popolazione residente consegue un incremento demografico dello 0,4 per mille, il più basso degli ultimi dieci anni. In termini assoluti l’incremento è pari ad appena 26 mila unità, il che determina una popolazione totale di 60 milioni 808 mila residenti al 1° gennaio 2015”.

L’incremento dello 0,4 per mille della popolazione mi fa pensare immediatamente alla risalita a zero del Pil del quarto trimestre. E allora capisco che il Pil fotografa ciò che l’Italia è diventata in questi ultimi dieci e passa anni: un Paese che non vuole più crescere, ma solo invecchiare in pace.

L’Italia è a crescita zero.

Il problema è che le piace.

 

 

L’export non spinge più la crescita tedesca


Quando finisce un’epoca, lunga e duratura come è stata quella della crescita del Pil tedesco trainata dall’export netto, servirebbe un minimo di solennità. E’ vero che i segnali erano da tempo sotto gli occhi di tutti, così come il sorgere della vocazione da rentier della Germania. Ma adesso che l’inversione del ciclo tedesco si è avverata sembra un fatto scontato, quasi banale.

Il mutato destino della cosiddetta locomotiva d’Europa (definizione alquanto generosa, a conti fatti) è finito confinato in un paio paginette contenute nell’ultimo rapporto con le previsioni invernali della commissione Ue. Meno persino di una nota a margine di una storia così gloriosa.

D’altronde, è scritto nella storia, prima ancor che nelle previsioni, che un paese inizia vendendo merci finché non consolida un capitale sufficiente a compensare i saldi commerciali con quelli delle rendite. E la Germania, dopo oltre un decennio durante il quale ha accumulato surplus giganteschi, adesso sembra essere entrata proprio in questa fase.

Le previsioni Ue certificano che il Pil tedesco crescerà nell’ordine del 2% fra quest’anno e il prossimo, trainato però stavolta dai consumi interni e dagli investimenti. L’export, semplicemente, non c’è più.

O meglio, rimane forte e abbondante, addirittura in crescita. Ma altresì è previsto in crescita l’ammontare dell’import. Talché il netto commerciale, nel peso sulla crescita reale del Pil, diventa persino negativo.

Questa piccola rivoluzione è raccontata in un grafico che racconta l’andamento delle componenti del Pil tedesco dal 2005 in poi.

Prima della crisi, il peso dell’export netto sul Pil viaggia fra l’1 e quasi il 2% del Pil. Il consumo privato fra capolino nel 2006 e poi si inabissa per riapparire dopo la crisi, nel 2010.

Quell’anno, che segna la riscossa tedesca, dopo il disastro del 2009, il peso dell’export sul Pil torna positivo per 2 punti, ossia circa la metà del totale della crescita raggiunta. Il resto va a consumi privati, circa mezzo punto, investimenti e consumi pubblici.

Nel 2011 l’export netto cala di oltre la metà e il consumo privato diventa protagonista, mentre gli investiment crescono leggermente.

Nel 2012 scompaiono gli investimeti. L’export netto recupera quote, mentre i consumi privati collassano. La ripresa del Pil non basta a tenere il livello di crescita dell’anno precedente. Il risultato finale è un buon dimezzamento del Pil 2011.

Nel 2013 il Pil tedesco scende ancora. Ed è proprio l’anno scorso che si consuma la rivouzione. Il contributo dell’export a Pil diventa negativo.

Le previsioni Ue ipotizzano una crescita, quest’anno e il prossimo, guidata dagli investimenti e dal consumo privato, mentre la spesa del governo rimane sostanzialmente costante, come è stata nel decennio considerato.

Ecco come la racconta la Commissione: “La crescita annuale (nel 2013, ndr) è stata guidata  dai consumi privati e del governo. Gli investimenti continuano a mostrare una debolezza e insieme con l’export netto hanno contribuito negativamente alla crescita”.

Così finisce un’epoca.

Quanto al futuro, “il contributo alla crescita si aspetta rimanga ampiamente immutato per l’export (quindi negativo, ndr) mentre crescerà per la domanda domestica”.

Cosa è successo? “Il consumo privato reale – spiega la Ue – è supportato dai tassi bassi e dalla dinamica contenuta dei prezzi al consumo. Gli sviluppi robusti del mercato del lavoro (ossia aumento delle retribuzioni, ndr) sono alla base dell’aumentata propensione delle famiglie al consumo”. Inoltre, “l’outlook degli investimenti è favorevole e suggerisce una loro ripresa. Gli investimenti in costruzioni dovrebbero muoversi in sincronia con gli investimenti in attrezzature, mentre i vibranti investimenti in abitazioni si prevedono in rallentamento”.

Questo contesto avrà effetti positivi sulle esportazioni, ovviamente, ma soprattutto sulle importazioni che si prevedono crescano “più dinamicamente delle esportazioni, contribuendo così a una limitata riduzione del surplus delle partite correnti. Il saldo di conto corrente, infatti, che è arrivato a un surplus del 7% sul Pil nel 2013 si ridurrà al 6,6 e al 6,4 fra il 2014 e il 2015.

Tutto questo a fronte di dati fiscali a dir poco eccezionali, con il saldo fiscale vicino a zero, quindi senza deficit, e il debito, di conseguenza, in calo costante il rapporto al Pil.

La Germania, insomma, sta voltando pagina. Forse davvero i consumi dei tedeschi inizieranno a trainare l’economia europea fuori dalle secche dell’eurodepressione. O forse la Germania è solo vittima finale designata dell’austerità, che ha prosciugato le sue esportazioni nell’eurozona. E’ presto per dirlo.

Rimane la sensazione di rivedere una storia già vista. La Gran Bretagna, prima della Grande Guerra, campava di rendite e se ne infischiava del suo saldo commerciale costantemente negativo. Grazie alla sterlina comandava le piazze finanziarie di mezzo mondo e con le sue rendite dagli investimenti esteri teneva in piedi la bilancia dei pagamenti. Non a caso era un’alfiera del libero mercato, dopo essere stata mercantilista quando serviva (all’epoca di Cromwell).

La Germania, che ha favorito una politica spiccatamente mercantilista nei primi dieci anni del XXI secolo potrebbe essere avviata sulla stessa strada.

Sempre che l’euromarco resista.

Il ventennio perduto dell’Eurozona


Dovendo sempre distinguersi, l’eurozona finirà per passare alla storia economica come la terra del ventennio perduto, ché già il primo decennio l’ha smarrito, fra il 2002 e il 2012, generando uno di quei movimenti schizofrenici per i quali al primo settennio di rialzi ha corrisposto un quadriennio di ribassi che hanno portato (quasi) tutti noi peggio di come stavamo prima.

Adesso si candida a perdere pure il secondo decennio, visto che  le proiezioni diffuse di recente dalla Commissione europea prevedono che alla fine del 2022 il prodotto lordo crescerà ancora meno di quanto cresceva vent’anni fa. Per tacere poi dell’occupazione, che si presume in crescita, ma solo paragonandola agli sprofondi registrati dal 2008 in poi.

I due decenni perduti, quello giapponese e quello dell’America Latina del secolo scorso, neanche offrono il conforto che di solito forniscono le disgrazie altrui, visto che nel frattempo il Giappone, a furia di far piovere liquidità, è vicino a uscire dalla secca (salvo poi magari finire in una palude) e l’America Latina si gode le sue accresciute riserve e i suoi attivi di bilancia di pagamenti, ammesso che rientrando l’altro diluvio d’inizio secolo, quello della Fed, non finiscano nei guai. Ma il tapering per adesso è solo minacciato, o timidamente accennato, sebbene la struttura dei tassi a lungo abbia già subito interessanti cambiamenti. Nel frattempo gli Stati Uniti e persino la vecchia Gran Bretagna si godono il sole primaverile, quindi tiepido ma gravido di promesse, di una ripartita crescita, mentre l’eurozona…

L’eurozona guadagna il triste primato di ultima della classe, ma solo a politiche invariate, si preoccupa di sottolineare la Commissione nel suo ultimo quaterly report. Sicché sorge l’obbligo, per uscire pure noi dalla secca quasi ventennale, di dotarsi di ampie e opportune riforme strutturali. Che non sarebbe poi questa gran novità se la Commissione non scomodasse, all’uopo, la debolezza dei fattori totali della produzione (total factor productivity, TFP), ossia uno di quegli indici econometrici capaci di dire tutto e il suo contrario a seconda di chi si prenda il disturbo di compitarli.

Grossomodo il TFP dovrebbe misurare l’efficienza dei vari fattori produttivi, oltre al capitale e al lavoro, ponderandone gli indici, classificati come rapporto fra output e input, avendo l’ambizione di incorporarvi persino il progresso tecnico e tutte le altre variabili che la fantasia degli statistici si ingegna ad inventare, e di conseguenza contribuire a delineare una misura della produttività più analitica, ossia astrusa, di quella classica.

Lascio alla vostra buona volontà se approfondire o no questo indicatore, visto che peraltro gli economisti ci si accapigliano da un quarantennio almeno senza trovare una definizione univoca, anche perché quello che qui interessa è la conclusione: il “messaggio globale” dell’analisi della Commissione, infatti, “”ha chiare implicazioni politiche”. “Senza le riforme – scrive la Commissione – la crescita dell’eurozona nel medio-lungo periodo sarà più debole rispetto a quella sperimentata in passato e continuerà a divergere dagli standard degli Stati Uniti”. Al contrario, “con le riforme l’eurozona può reinserirsi in un traiettoria di crescita che le assicurerà il mantenimento dei livelli passati di crescita della ricchezza e un revival dei pattern pre-1995 di convergenza con gli standard americani”.

Tento una sintesi: se facciamo le riforme saremo come gli Usa, proprio come accadeva prima del 1995.

Della serie: tu vuo’ fa’ l’americano.

Mentre l’eurozona decide se vuol tornare ad essere statunitense, almeno relativamente al Pil, vale la pena continuare a leggere lo studio della Commissione perché se ne traggono diverse informazioni.

La prima è che dal 1998 in poi la crescita percentuale del prodotto è andata via via diminuendo. Il primo calo significativo si è registrato dal 2000, per riprendersi fra il 2004 e il 2007. Poi la crisi ha affossato la crescita e solo da fine 2013 il prodotto è tornato ad aumentare, ma a un livello previsto che in pratica è circa la metà degli anni d’oro.

L’allarme nasce dal fatto che il moderarsi della crescita non è solo relativo al dato reale, per così dire, ma anche potenziale: l’eurozona, imballata dalle sue burocrazie e da una questione demografica difficile, vede le sue potenzialità crescita assai più moderate di quanto fossero a fine anni ’90. D’altronde siamo tutti più vecchi e stanchi.

Se andiamo a guardare la curva del TFP la vediamo anch’essa declinante dal lontano ’98, segno che l’indice che la Commissione definisce come “un segnale dell’efficienza dell’economia nel suo complesso”, risente della difficile congiuntura nella quale si agitano ormai da un decennio anche gli altri fattori della produzione, ossia capitale e lavoro.

Vediamo le cifre. Fra il 1998 e il 2007 la crescita media del Pil era stata del 2,3%. Nel periodo 2008-13 la crescita è stata negativa per lo 0,3%, mentre nel decennio 2014-23 si presume sarà in media dell’1,4%. Un quasi dimezzamento che viene replicato anche nell’indicatore della crescita potenziale, al 2% fra il 1998.2007, allo 0,7 nell’arco di tempo successivo e all’1,1% fino al 2023.

 Tutto ciò si ripercuote alla sua crescita potenziale, che fino al 2023, stante le attuali “rigidità nell’allocazione delle risorse”, dovrebbe stabilizzarsi su uno risicato 0,9% che, sommato alla previsione di crescita media dell’1,4, dovrebbe condurre il Pil medio nell’ordine del 2,3%, ossia tanto quanto era fra il 1998 e il 2007.

Riepilogo: ammesso che l’eurozona riesca a esprimere al massimo il suo potenziale di crescita (il famoso 0,9%) il meglio che le può capitare è tornare come nel nei primi anni 2000, da qui al 2023.

Vent’anni perduti, appunto.

Fare le riforme, che vorrebbero riportare il TFP almeno al livello del 1995, quindi un po’ sotto il 2%, non salva tuttavia l’eurozona da un declino che è innanzitutto storico.

Un altro grafico mostra con chiarezza che all’apice del suo fulgore economica, nel 1968, il TFP misurava il 4% e da allora l’indicatore (che va preso con le pinze, ma comunque indica) è costantentemente declinato.

Impietoso poi il confronto con gli americani. Nel decennio che verrà, a fronte del risicato 1,1% di crescita media annua dell’eurozona, gli Usa hanno una previsione del 2,5%, con crescita potenziale europea che abbiamo visto allo 0,9% e degli Usa all’1,8%. In pratica saremo doppiati.

Anche questo è un fatto storico. Fra gli anni ’60 e i ’70 c’era una certa convergenza fra la crescita europea e quella americana, e tale convergenza è durata fino alla metà degli anni ’90, quando le diverse politiche sul lavoro e un calo di produttività in Europa trasformarono la convergenza nella divergenza di oggi.

Il problema dell’Europa, perciò, si chiama produttività. E basti questo per capire dove si vuole andare a parare. O per dirla con le parole della Commissione, serve “un ambizioso programma di riforme strutturali concentrato sul potenziamento dei componenti del lavoro e del TFP della crescita”.

Poi, se ancora non vi risulta chiaro quale sia la strategia vincente per l’eurozona, potreste leggere il terzo studio del Quaterly report che tenta un assessment del livello degli investimenti nei paesi vulnerabili dell’area, dal quale la Commissione deduce che mentre il settore industriale tradable, ossia quello che ha vocazione all’export, ha visto una certa ripresa degli investimenti, nel settore non tradable, quindi quello che si basa sul mercato interno, gli investimenti sono ancora bassi. E tuttavia anche le imprese dei paesi vulnerabili che operano nei mercati tradable stanno investendo poco rispetto alle consorelle dei paesi forti.

Dal che deduco che il combinato disposto della via europea alla crescita del Pil è una robusta dose di sano, vecchio mercantilismo, specie nei paesi deboli.

Quindi se vogliamo diventare bravi come gli americani, dobbiamo riformare i mercati del lavoro e dei prodotti, specie nei paesi deboli, privilegiando i settori più dinamici, ossia quelli votati all’export.

Potremmo persino superare gli Usa, nel nostro cammino verso l’estremo Occidente.

E arrivare dritto in Cina.

Minacce Emergenti


Quelli che erano i cavalli sui scommetteva l’economia internazionale rischiano di essere i brocchi che finiranno con l’affossarla.

Le economie emergenti, che avrebbero dovuto trasformarsi nel serbatoio della domanda mondiale fino a gareggiare con i tradizionali mercati di sbocco, oggi sono guardate con sospetto e una crescente preoccupazione da parte degli organismi internazionali.

Il boom creditizio che ne ha sostenuto la crescita negli anni buoni rischia infatti di trasformarsi un uno straordinario boomerang capace di fare danni seri alla fragile ripresa mondiale.

L’ultimo allarme è arrivato dall’Ocse, che al tema ha dedicato un approfondimento nell’ultimo outlook sull’economia mondiale rilasciato di recente.

Gli Emergenti possono far danni su due fronti: lato commercio internazionale e lato interconnessione finanziaria, visto che in moltio paesi emergenti “le condizioni finanziarie si sono molto deteriorate rispetto all’outlook di maggio”. A tal punto che “uno slowdown di questi paesi – scrive – può far diminuire la crescita nelle economie avanzate, i particolare in Europa e Giappone”.

Oltre ad esaminare le relazioni che intercorrono lato commercio internazionale fra Emergenti e Avanzati, rilevando come un rallentamento dei primi rischia di affossare i mercati globali, l’Ocse è particolarmente preoccupato dei collegamenti bancari che la globalizzazione finanziaria ha favorito fra queste due entità. Specie dopo aver assistito con pacato terrore alla reazione dei mercati internazionali all’annuncio (poi ritrattato) del rallentamento degli acquisti di asset da parte della Fed che ha messo in tensione gli Emergenti assai più e prima degi Avanzati.

Le statistiche della Bis, dice l’Ocse, mostra che “l’esposizione delle banche dei paesi avanzati nei confronti degli emergenti è aumentata dopo la crisi”.

E questo è il primo problema.

Gli afflussi sono arrivati da diversi paesi, a cominciare dagli Usa, con le banche americane a caccia di redditizi carry trade incoraggiati dal denaro praticmente gratis, e poi dalla Gran Bretagna e dal Giappone, che condividono tale pratica.

Ma anche l’Europa è molto esposta.

“Segni di una possibile vulnerabilità bancaria è apparsa in alcune economie emergenti – scrive l’organizzazione -. In particolare, la crescita del credito al settore privato è aumentata rapidamente dal 2007. In termini nominali, tale crescita è stata in media del 20% all’anno in molte di queste economie, malgrado, in relazione al Pil nominale, questa crescita sia stata notevole solo in Turchia, Cina e Brasile”.

In tale contesto, “una tale rapida crescita aumenta i rischi di turbolenza finanziaria, in quanto espone le banche a perdite in caso di shock macroeconomici, specialmente se associati a standard di prestito negligenti”.

Ricordo a tutti che in letteratura è ormai pacifico che una rapita crescita del credito sia una delle migliori spie di una possibile crisi finanziaria.

Tali rischi sono aumentati da quando in questi paesi si è cominciata a notare una preoccupante impennata dei non performing loan, cioé i crediti in sofferenza, associata a una generale debolezza dei coefficienti di liquidità delle banche.

Per il momento, tuttavia, il settore bancario degli emergenti risulta ancora in equilibrio, “almeno a livello aggregato”. Ma le preoccupazioni rimangono, anche a causa dell’aumentata vulnerabilità esterna. Ossia il debito estero.

Guardiamo alcuni dati.

La crescita del credito interno è stata impetuosa negli ultimi anni. La Turchia ha visto un tasso annuo medio nominale del 25% l’anno dal 2007, mentre i quattro Bric stanno poco sotto, con la Cina a pochi decimali dalla Turchia, l’India intorno al 20% come anche il Brasile,e la Russia poco sotto il 20%.

Il credito al settore privato non finanziario ha sfondato il 150% del Pil in Cina, (circa 170%), mentre era al di sotto del 150% nel 2007.

La Turchia, seconda in questa classifica, sta poco sotto il 100% del Pil, ma nel 2007 era meno della metà.

La crisi, per questi paesi, si è tradotta in una straordinaria crescita del credito interno, che evidentemente ha supportato la domanda domestica a fronte della contrazione di quella estera.

Il problema sorge quando per dare credito all’interno le banche devono far debiti all’esterno.

E qui arriviamo al debito estero.

 “La crescente dipendenza di alcune economia in deficit estero, in particolare India e Indonesia, dagli afflussi esterni di capitali le ha rese vulnerabili al rischio di deflussi”.

Il tanto temuto sudden stop.

“La vulnerabilità finanziaria è aumentata anche in altre economie emergenti a causa della quota crescente di debito estero sul totale, in particolare in India, Turchia e Polonia, anche a causa dell’aumentata dipendenza dal finanziamento a breve termine dalle banche straniere”.

Alcuni di questi rischi, nota l’Ocse, sono tuttavia mitigati dalla presenza di riserve. Ma le riserve si sa come sono: oggi son qui, domani chissà.

Anche qui qualche numero aiuterà a capire le dimensioni del problema.

In Polonia l’ammontare totale delle passività estere ha superato il 100% del Pil nel 2012. Il debito nei confronti di banche estere pesa il 25% del Pil. Oltre il 50% di queste passività è  finanziato con debito a breve e la posizione netta degli investimenti (NIIP) è negativa per oltre il 60% del Pil.

In Turchia le passività estere hanno superato il 75% del Pil. Il debito nei confronti di banche estere pesa circa il 20% del Pil e la quota di questo debito finanziato a breve con le banche estere sfiora il 60%, mentre la posizione netta è negativa per oltre il 50% del Pil.

Chiunque mastichi questa roba, sa bene che debito estero elevato finanziato a breve è il miglior viatico per una crisi della bilancia dei pagamenti. E con le minacce di exit strategy che girano nel mondo finanziario, tale crisi è qualcosa di più che una semplice possibilità.

La Cina non sta tanto meglio degli altri. L’unica differenza notabile è che, oltre ad essere comunque un creditore globale netto, in relazione al Pil ha meno passività estere, intorno al 40% (ma solo perché il Pil è più alto), e una quota bassa, sempre rispetto al Pil, di debiti verso banche estere. Ma la quota di finanziamenti a breve sfiora l’80% del totale. In compenso, la posizione netta degli investimenti è positiva per oltre il 20%. La Cina, poi, è forte delle sue riserve, che ormai sfiorano il 40% del Pil, il doppio di quelle polacche e circa il triplo di quelle turche.

Non è un caso, perciò, che di recente la Bundesbank, nel suo rapporto sulla stabilità finanziaria, abbia messo nel conto dei rischi di fronte ai quali si trovano le banche tedesche gli oltre 150 miliardi di dollari di esposizione nei cofronti proprio delle banche dei paesi emergenti.

Si può star certi che il caso tedesco non è l’unico: tutti hanno prestato agli Emergenti, lucrandoci pure succulenti guadagni, e ora iniziano a temerne le conseguenze.

La stretta monetaria, se mai arriverà, rischia infatti di colpire prima gli Emergenti, le cui banche potrebbero faticare a trovare il necessario per rifinanziare i propri debiti a breve, e di conseguenza gli Avanzati, che a queste banche i soldi li hanno già prestati.

La bella favola dei paesi emergenti rischia di strasformarsi in un incubo.

L’incubo della Minaccia Emergente.