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I tassi bassi non riescono più a spingere la domanda
A volte fare le domande giuste è più interessante che provare a rispondere. Per questo vale sicuramente la pena leggere un bel paper pubblicato di recente dalla Bis, che si domanda “fino a che punto le riduzioni dei tassi di interesse possono stimolare la domanda aggregata?” e poi, molto retoricamente, se “un livello molto basso di tassi di interesse possa indebolire l’efficacia della politica monetaria”.
Retoricamente perché la risposta, elaborata dopo aver lavorato sui dati di 18 paesi collazionati a partire dal 1985 in poi, sembra sia che la trasmissione della politica monetaria sia assai ridotta quando i tassi sono bassi, e ancor meno se tali ribassi durano a lungo. Detto semplicemente: i tassi bassi, tanto più alla lunga, sono inutili se si tratta di spingere la domanda aggregata. Ma com’è noto – e basta guardare il calo costante del costo del servizio del debito nei paesi avanzati, per tacere della crescita del valore degli asset – sono utilissimi per altre cose.
Senonché, come insegnano nelle scuole di economia, ogni scelta porta con sé dei trade-off. La coperta è corta, insomma, sempre perché le risorse rimangono scarse – e l’attuale crisi inflazionistica è un ottimo pro-memoria – anche se sembra che le banche centrali abbiano trovato la formula magica per trasformare in oro qualunque promessa di pagamento. Finché il mercato ci crede, però. E l’inflazione, anche da questo punto di vista, può essere una terribile cartina tornasole per le credibilità degli istituti di emissione. Il discorso è ampio e ci porterebbe altrove. Meglio perciò concentrarci sul paper.
La premessa è che oltre un decennio di tassi rasoterra non è bastato né a far ripartire l’inflazione – ci voleva lo shock Covid per quello – né il tasso di crescita, che non ha più ritrovato lo slancio anteriore al 2008. Il grafico sotto lo mostra con chiarezza.

Come si può vedere, dopo il 2008 la storia è cambiata. Adesso stiamo percorrendo, pure se con qualche differenza fra le regioni osservate, il trend assai più basso iniziato quell’anno, con l’inflazione, almeno fino a prima del Covid, ben sotto i target. “E’ possibile – si domandano gli studiosi – che l’efficacia della politica monetaria nello stimolare l’economia sia svanita?”.
Non certo una domanda originale, e proprio per questo meritevole di approfondimento. Alcune risposte hanno puntato, per spiegare l’inefficacia degli strumenti ordinari usati dalle banche centrali, sull’abbassamento dei tassi reali di equilibrio, altri sull’appiattimento della curva di Phillips, lasciando intendere che la politica monetaria dovrebbe essere ancora più aggressiva di quanto sia stata nell’ultimo decennio per riassorbire il trauma del 2008. “Ma è anche possibile – sottolineano – che la domanda aggregata stessa sia diventata meno sensibile alla politica monetaria”. E chissà, viene da chiedersi, se davvero lo è mai stata. L’ipotesi esplorata nel paper è che la curva IS, che mette in relazione il reddito, somma di consumi e investimenti, e il tasso di interesse, abbia cambiato la sua inclinazione. E chissà, forse addirittura a causa della politica monetaria seguita nell’ultimo decennio.
Se così fosse, le banche centrali semplicemente si comporterebbero come il pilota di un’auto finita insabbiata, che preme sull’acceleratore generando numerosi effetti indiretti, magari non desiderati, ma non quello ricercato: ossia ripartire. E per giunta a furia di accelerare consuma sempre più benzina, riducendo così il suo spazio di manovra. Perciò chiedersi se i tassi bassi intrappolino sempre più il nostro guidatore è qualcosa di più di una semplice domanda retorica, ma un’ipotesi di lavoro che i ricercatori testano nel paper.
In teoria ci sono almeno tre canali attraverso i quali una politica di tassi bassi può indebolire gli effetti della politica monetaria sulla domanda aggregata. Il primo è che i tassi bassi indeboliscono la profittabilità della banche e quindi inibire la loro disponibilità a prestare. Il secondo è che l’effetto dei tassi bassi su consumi e investimenti può essere non lineare, e soprattutto può alimentari fenomeni di “sazietà”, perché una volta che i consumatori o gli investitori hanno usato il denaro facile per compiere un’azione economica, possono diminuire la loro domanda. Se tutti comprano casa perché i tassi sono bassi, la domanda di case finirà per fermarsi.
In terzo luogo, se i tassi si riducono verso zero, il mercato prezzerà sempre meno ulteriori tagli, e quindi le attese di ulteriori accomodamenti monetari si abbasseranno. Non è certo un caso che le banche centrali abbiano dovuto usare anche gli acquisti di titoli anche per alimentare queste aspettative. Dulcis in fundo – e lo vediamo tutti i giorni – i tassi bassi possono creare disincentivi a rientrare dai debiti. Ciò ha effetti evidente sulla produttività e l’esplosione di aziende zombie. In sostanza il debito non è sempre un toccasana, come ormai sembra che ci vogliano far credere. E’ anche un problema. Così come è un problema che “molti di questi meccanismi diventano sempre più forti quanto più i tassi rimangono bassi”.
L’analisi svolta su diciotto economie avanzate, su dati raccolti fra il 1985 e il 2020 sembrano confermare gli assunti teorici. I ricercatori hanno trovato evidenza del fatto che “più i tassi rimangono bassi, maggiore diventa l’effetto di attenuazione”. Ci si abitua a tutto, insomma. Persino ai tassi bassi. E una volta che succede, la magia dello zero lower bound smette di funzionare.
Purtroppo non c’è solo l’inefficacia, con la quale dobbiamo fare i conti. Ci sono anche i rischi. “Tassi persistentemente bassi possono condurre a rischi maggiori per la resilienza e la stabilità macroeconomica di lungo termine”. I canali sono numerosissimi: passano per la fragilità bancaria, la cattiva allocazione delle risorse, e soprattutto mettono l’economia nella condizione di non poter più “sopportare” tassi di interesse normali. Come un organismo fiaccato dalla vita sedentaria, anche il corpo economico ha bisogno di mantenere una certa tonicità, pena il collasso.
Rimane aperta la madre di tutte le domanda: che fare? Il paper conclude notando che “un allungamento dell’orizzonte entro il quale riportare l’inflazione a target, ad esempio, consentirebbe una maggiore considerazione dell’impatto di medio termine che la politica monetaria può avere”. E poi che comunque “i risultati delle ricerche confermano l’importanza di arrivare alla normalizzazione delle politiche non solo per ricostituire i buffer, ma anche per renderli nuovamente efficaci”. Quindi: prendersi il tempo per tornare alla realtà. Quella che i tassi rasoterra hanno offuscato.
Il virus dell’emergenza fa ripartire la giostra del denaro facile
Pochi giorni fa Claudio Borio, capo del dipartimento monetario ed economico della Bis di Basilea, presentando la nuova rassegna trimestrale dell’istituto, lo ha spiegato senza mezzi termini, come sua abitudine: “I mercati hanno puntato su un ulteriore accomodamento monetario: senza dubbio, il maggiore margine di manovra della Federal Reserve spiega in parte la relativa debolezza del dollaro nei confronti delle altre principali valute”. Quindi nessuna sorpresa quando ieri è arrivato il taglio di mezzo punto da parte della Fed dei tassi di sconto.
Semmai la reazione nervosa delle borse americane lascia ipotizzare che il mercato sperasse in tagli più robusti o provvedimenti più radicali, che comunque è assai probabile arriveranno nei giorni a venire. E non solo negli Usa. Sempre ieri un’agenzia ha rilanciato la notizia che la Bce potrebbe mettere in campo dei finanziamenti diretti alle Pmi per dare ossigeno alla produzione in un momento in cui si temono crisi per mancanza di liquidità, peraltro mai così abbondante. Sarebbe un precedente storico e alquanto rivoluzionario. Ma perfettamente coerente con lo spirito di un tempo che vuole più denaro e più facile semplicemente per restare in piedi.
Se guardiamo i fatti, lasciando da parte per un momento la logica emergenziale della paura del virus, ci accorgiamo che è proprio la logica emergenziale, assai più che il virus, la notizia del giorno. Anzi del decennio.
Poco più di un mese fa, quando ancora il contagio cinese non dettava l’agenda politica internazionale, tutti ricorderete come l’attenzione globale fosse ossessivamente puntata sul cambiamento climatico. Il Fmi discettava un giorno sì e l’altro pure sull’importanza degli investimenti per l’ambiente, e in buona compagnia. Sempre la Bis, lo ricorderete aveva anche istituito un fondo aperto per investimento in progetti ambientali. L’Ocse auspicava che gli stati con spazio fiscale spendessero i propri soldi per rilanciare la crescita e giravano previsioni – che sarebbe più giusto chiamare premonizioni – sul destino di catastrofe collettiva che incombeva (e incombe) su ognuno di noi. Il mondo pullulava di green new deal.
Oggi nessuno più pensa alla giovane Greta, che contava in pochi anni la distanza fra noi e la fine del mondo, già sbiadita immagina nella memoria collettiva. Oggi è il virus cinese il grande protagonista della paura internazionale e il motivo per cui tagliare i tassi, fare deficit, adottare linee di comportamento inusitate per la nobilissima ragione della salute pubblica. Questione assai più concreta e visibile, perché attuale, del cambiamento climatico, che riguarda il futuro.
L’emergenza qui ed ora, proprio come accadde nel lontano 2008, è la migliore maieuta delle decisioni straordinarie e il miglior pretesto per i nostri fallimenti, che finalmente possiamo rendere evidenti senza temere la sanzione dei mercati o anche semplicemente quella sociale. E’ colpa del virus, mica nostra.
Che ci attende quindi? Partiamo da quello che abbiamo alle spalle: “L’emergere delle prime preoccupazioni per l’epidemia del virus alla fine di gennaio – ricorda Borio – aveva invertito una prolungata fase di assunzione di rischio innescata dall’allentamento delle tensioni commerciali, che aveva portato diversi mercati a valori elevati. Il mercato azionario statunitense aveva raggiunto il massimo storico”. Quindi i mercati si erano gonfiati allo sfinimento.
Poi è scoppiato il panico: il sell off disordinato, al quale ormai ci ha abituato questo decennio, per non dire secolo. E arriviamo all’oggi: “Ora l’incertezza regna a livello mondiale. La situazione rimane fluida. Le istituzioni stanno monitorando attentamente gli sviluppi. Verso dove ci dirigiamo ora? Una cosa è certa: i mercati finanziari continueranno a ballare al ritmo delle notizie sul virus e delle risposte delle autorità”.
Una cosa è certa, possiamo aggiungere parafrasando Borio. I mercati finanziari continueranno a ballare. Ma di gioia. Perché sanno che è ripartita la giostra degli allentamenti monetari e presto fiscali. Così i mercati risaliranno, almeno fino alla prossima paura, che ne preparerà di nuovi. Si tira avanti così, agli inizi del secolo XXI.
La volatilità e il sentiero stretto delle banche centrali
Proprio come i governi – quello italiano l’ha trasformato addirittura in uno slogan – anche le banche centrali sono costrette a camminare lungo un sentiero stretto per gestire il nostro tempo straordinario. Un tempo molto difficile da comprendere, come riconosce Claudio Borio, Capo del Dipartimento monetario ed economico nel suo commento alla ultima rassegna trimestrale della Bis. Borio si riferisce agli andamenti del dollaro, vieppiù erratici e poco decifrabili, ma potremmo per analogia estendere questa considerazione agli andamenti di questi primi mesi del 2018 dai quali emerge giusto una chiara evidenza: è tornata la volatilità e con essa la paura. Che non dipende dalla volatilità, sia chiaro. Semmai il contrario. E tuttavia, “un certo livello di volatilità può essere anzi di aiuto”, osserva Borio, riferendosi allo scrollone salutare che certi saliscendi possono dare al nostro insensato desiderio che le cose vadano sempre bene: che l’economia cresca indefinitamente e si possa solo guadagnare passeggiando fra i mercati. Cosa che non è, ovviamente. I mercati, al contrario, nascondono trappole, disseminate fra le promesse di profitto che la pubblicistica commerciale assegna a ognuno dei suoi prodotti. I quali, peraltro, sono sempre più fantasiosi, e quindi complessi e perciò pericolosi. L’esempio degli strumenti finanziari che scommettono proprio sulla volatilità, e che sono stati duramente penalizzati dai torbidi borsistici che hanno sconvolto i mercati azionari Usa a inizio febbraio è quello più calzante.
Non è la volatilità a generare la paura, ma semmai l’essere nel tempo finanziario, per prendere a prestito una bella espressione di Heidegger. Dimentichiamo la paura quando guadagniamo per riscoprirla d’improvviso quando perdiamo. Sicché la volatilità è la conseguenza delle ondate di panico, e non il contrario. Esiste addirittura un indice, l’indice VIX, soprannominato l’indice della paura proprio perché monitora la volatilità.
Ma se il problema è la gestione della paura, si capisce perché l’evoluzione istituzionale delle nostre società abbia consegnato ai governi ieri e alle banche centrali oggi così tanto potere per gestire le nostre faccende, in questo caso economiche. Senonché questa delega è scomoda a riceversi, oltre che piacevole. I governi, che il sentiero stretto lo frequentano da molto più tempo, lo stanno scoprendo con crescente raccapriccio, osservando l’evolversi degli umori delle loro popolazioni, che votano e fanno sbiadire i vecchi protagonisti. Emergono movimenti che con poco discernimento vengono degradati a populismi, mentre in altre latitudini, si pensi alle recenti modifiche costituzionali cinesi che revocano il limite di due mandati per il presidente, fioriscono nuove autocrazie superpotenziate dall’ibridazione tecnologica.
Le banche centrali sono nuove a questa costrizione che nasce dal desiderio, nel loro caso dei mercati. La crisi, che le ha costrette alle politiche monetarie straordinarie, ha tracciato il sentiero stretto sul quale sono costrette a camminare: devono insieme rassicurare, attraverso la forward guidance, e rieducare. Innanzitutto al rischio. Che significa ricollegare il rendimento ai normali tassi di interesse – rialzandoli – invece che ai funambolismi dell’ingegneria finanziaria. Tornare alla normalità vuol dire ricordare che la paura è salutare. Che il rischio si paga (con l’interesse) e che non esistono pasti gratis, tantomeno quelli pagati dalle banche centrali. Perché chi crede che i debiti delle banche centrali non lo riguardino ha una percezione confusa di come funzionino le nostre società.
Non c’è nessuna certezza che nel percorrere questo sentiero stretto, le banche centrali non pagheranno pegno, esattamente come è accaduto ai governi che hanno perso consenso. In un tempo che sembra sbiadire sempre più in narrazioni favolose dove prevale il pensiero magico, le banche centrali rischiano di apparire come residuati bellici di un periodo razionalista, e perciò rottamabili. Il rischio della fiscal dominance incombe su di loro e quindi su di noi. Ma fino ad allora: festa!
Miti del nostro tempo: La curva di Phillips fuorimoda
Comprendere la mitologia del tasso naturale di interesse, lo abbiamo visto, serve a capire meglio il lavoro delle banche centrali che usano la manovra dei tassi per raggiungere un target di inflazione, nell’ipotesi che nel lungo periodo il tasso reale finirà col seguire quello naturale. Ipotesi alquanto ardita, che ne presuppone un’altra, ossia che nel lungo periodo la moneta sia neutrale rispetto all’andamento dell’economia reale. L’inflazione “è la bussola”, per citare un recente intervento di Claudio Borio, capo del dipartimento economico e monetario della Bis, “che dovrebbe dirci dove si trova il tasso naturale di interesse”. Senonché il tasso di inflazione riferisce a un’altra mitologia, collegata stavolta a quella dell’occupazione e quindi dell’output, che dura da diversi decenni e che ancora informa la modellistica delle banche centrali (e non solo), quella della curva di Phillips. Si tratta come molti sanno di uno strumento statistico che incorpora la teoria secondo la quale esiste una correlazione fra il livello dell’occupazione e quello dell’inflazione. Situazioni di piena occupazione, determinando tensioni sul livello dei salari e quindi sulla domanda finale, si associano solitamente a livelli più elevati di inflazione, e viceversa. Questo ricamino logico ha abbellito il nostro dibattere pubblico per un cinquantennio abbondante, sin dai tempi in cui i governi erano ben lieti di pagare con l’inflazione la loro promessa della piena occupazione, uno dei cardini del patto sociale siglato con le popolazioni nel secondo dopoguerra. I modellini econometrici costruiti sulla base dell’ipotesi della curva di Phillips arrivano a dire che grado di inflazione puoi aspettarti con un tot di disoccupazione e quindi calcolare anche il prezzo della piena occupazione in termini di inflazione. Un vero bengodi per gli economisti e i governi.
Come tutte le mitologie, però, anche quella della curva di Phillips è entrata lentamente in crisi, una volta che qualcuno ha iniziato ad osservare che forse sull’inflazione sappiamo meno di quello che siamo abituati a credere. Nel suo speech, Borio solleva un paio di questioni che non possono essere ignorate e che si sostanziano nell’ipotesi che “stiamo sottostimando l’influenza che i fattori reali hanno sull’inflazione, anche su orizzonti lunghi”. Tale atteggiamento mentale è il frutto di un’altra mitologia che ha informato le nostre credenze economiche, frutto di un’altra moda culturale seguita a quella della curva di Phillips: il monetarismo di Milton Friedman. La famosa affermazione di quest’ultimo, secondo la quale l’inflazione è sempre un fenomeno monetario, sottolinea Borio, “dovrebbe essere più sfumata”.
Perché? “Il comportamento dell’inflazione è sta diventando sempre più difficile da capire – dice Borio – Se si è completamente onesti, è difficile evitare la domanda: quanto davvero sappiamo del processo inflazionistico?”. Perché è evidente che mentre tutti sanno cosa sia l’inflazione – la crescita dei prezzi – oggi assai meno sono sicuri di sapere cosa la determini. “Dopotutto – aggiunge Borio – dall’inizio della crisi finanziaria i policy maker sono stati ripetutamente sorpresi. Nella fase di recessione, l’inflazione è stata maggiore del previsto, considerando la profondità del crollo. Durante la successiva ripresa, in generale, è stata inferiore al previsto. E nonostante gli enormi sforzi per farla risalire, è rimasta ostinatamente bassa”. I dispetti dell’inflazione, insomma, hanno provocato la crisi di gran parte dei modelli interpretativi usati dagli osservatori per comprendere la realtà. La curva di Phillips si è appiattita, ha detto qualche economista, forse l’inflazione non dipende solo dalla moneta. Conclusione: boh.
Una buona spiegazione forse la troviamo se guardiamo la storia. Borio ricorda che la comprensione dell’inflazione è stato sempre uno dei compiti più difficile della professione degli economisti e ricorda il lavoro di Charles Goodhart che di recente ha isolato le tre “mode” che dagli anni ’50 ad oggi hanno convinto di volta in volta tutti di aver finalmente capito l’inflazione. Fra gli anni ’50 e i ’70 il focus era sul mercato del lavoro e il relativi accordi contrattuali, con pochi riferimenti alla domanda aggregata. Dalla fine degli anni ’70 ai primi anni ’90 divennero di moda la moneta e gli aggregati monetari. Dall’inizio dei ’90 sono diventati celebri il NAIRU (non-accelerating inflation rate of unemployment) e il ruolo delle aspettative, che si hanno condotto alla “prominenza nelle previsioni della curva di Phillips nei quadri analiti predominanti di oggi”. Ma “potrebbe essere che sappiamo meno di quello che pensiamo? Possiamo aver sovrastimato la nostra capacità di controllare l’inflazione, o almeno di cosa servirebbe per farlo?”. Detto in altre parole, per cominciare a capire bisogna partire da un sacrosanto bagno di umiltà. E da osservazioni non viziate dalla mitologia.
La prima di queste osservazioni che Borio propone è che il collegamento fra le risorse inutilizzate domestiche e l’inflazione “si è dimostrato piuttosto debole almeno per un paio di decenni”. O meglio “se uno si sforza abbastanza si può anche trovare, ma non è quel tipo di relazione che si può definire robusta”. Si può piegare la realtà alla mitologia, ma poi si finisce con non capirci niente, questo è il punto. Infatti le osservazioni statistiche mostrano che “la risposta all’inflazione come misura delle sottoutilizzazioni nel mercato del lavoro tende a declinare nel tempo fino a diventare statisticamente indistinguibile da zero”. Eccola qui la curva che si appiattisce. Come si può osservare, l’appiattimento della curva inizia dagli anni ’90. “Sorprendentemente, una risposta debole dei salari alle condizioni economiche è risultata in grande evidenza recentemente in molte economie avanzate. I mercati dei lavoro sono risultati molto tesi secondo gli indicatori tradizionali, ma la crescita dei salari è rimasta anemica. Come possiamo spiegare questi andamenti?”. Di recente ci ha provato anche il Fmi, notando come alla crescita degli indici di occupazione abbia corrisposto un aumento delle forme contrattuali atipiche. E questa può essere una pista interessante da seguire. Ma anche il seguito del discorso di Borio lo è.
La spiegazione più popolare, ricorda, è che la grande credibilità anti inflazione guadagnata dalle banche centrali, di recente la BoE ha festeggiato i vent’anni della sua indipendenza, ha contribuito ad “ancorare” le aspettative dell’inflazione al ribasso, staccandole dalla relazione salari/prezzi. Ma forse anche altre ipotesi andrebbero considerate. “È ragionevole – si chiede Borio – credere che il processo di inflazione sia rimasto immune all’entrata nell’economia globale dell’ex blocco sovietico e della Cina e all’apertura delle altre economie di mercato emergenti?” Stiamo parlando di circa 1,6 miliardi di persone che si sono aggiunte alla forza lavoro globale col risultato che il peso specifico della forza lavoro nelle economie avanzate si è ridotto notevolmente, addirittura a metà di quello che era prima nel 2015. Ciò significa che, su scala globale, i “nostri” mercati del lavoro pesano di meno sulle dinamiche globali. “Allo stesso modo, possiamo essere rimasti immuni agli sviluppi tecnologici che hanno consentito la delocalizzazione della produzioni di beni e servizi in tutto il mondo?”. Ed eccoli due possibili candidati che hanno fatto finire fuori moda la curva di Phillips: la globalizzazione dei mercati del lavoro e la tecnologia. “Sappiano che i lavoratori non devono più soltanto competere con chi è più vicino a loro, ma anche con i lavoratori all’estero”. Detto altrimenti, l’influenza degli effetti della globalizzazione potrebbero essere di tipo simmetrico e asimmetrico insieme sull’inflazione. Nel primo caso, “ipotizzando una curva di Phillips globale, ci si potrebbe aspettare che eventuali risorse inutilizzate a livello domestico siano una misura insufficiente delle pressioni inflazionistiche o disinflazionistiche: conterebbero pure le risorse inutilizzate a livello globale”. Nel secondo caso “si potrebbe ipotizzare che l’ingresso nel mercato di produttori e lavoratori a basso costo generi una pressione persistente al ribasso sull’inflazione, specialmente nelle economie avanzate almeno finché i costi non convergano”.
Fin qui la teoria. Ma che dice la prassi? “Molti studi hanno mostrato che la componente globale dell’inflazione è cresciuta costantemente nel tempo”. Le ragioni possono essere diverse “incluse la diffusione dell’inflation targeting, un ovvio candidato”. Questo grafico mostra come sia cresciuta l ‘influenza dei fenomeni globali sull’andamento del costo unitario del lavoro dagli anni ’80 ad oggi. Altri studi, fondati sull’analisi della catene globali di valore mostrano un meccanismo simile all’opera. Ma non è l’unico. Sono stati svolti diversi studi e i risultati mostrano che il grande shock della globalizzazione, iniziato all’incirca nei primi anni del ’90 ha contribuito in grande misura a far finire fuori moda la vecchia curva di Phillips. Altre dinamiche sono all’opera e molte sono quelle che conosciamo poco, a cominciare dall’influenza che il progresso tecnologico avrà sull’economia. Si pensi alle polemiche e alle paure che solleva il tema dello sviluppo dei robot. Una cosa però dovremmo darla per intesa: i fatti dell’economia reale, un’economia che si sviluppa su scala globale ed è caratterizzata da una forte componente tecnologica, pesano eccome sugli andamenti dell’inflazione. In fondo il bravo Phillips scriveva negli anni ’50. E’ tempo di farlo riposare in pace.
(2/fine)
Le imprese zombie e il mistero dell’inflazione mancante
Zombie e fantasmi – metafore di cui si fa largo uso nel nostro dibattere economico – sono l’espressione compiuta del film spaventoso che è diventata la nostra economia. A molti parrà strano, ma non dovrebbe. L’innalzamento dell’indice della paura è la logica conseguenza dell’innalzamento del livello del rischio che la stessa economia richiede per essere sostenuta. Quest’impressione emerge prepotente leggendo l’ultima Quarterly review della Bis e soprattutto le dichiarazioni di Claudio Borio, capo del dipartimento economico della banca, che dice alcune parole definitive su uno dei problemi cardine del nostro tempo: l’inflazione che manca e le conseguenze che ciò produce sullo strano momento che sta vivendo il sistema finanziario internazionale.
Prima di indagarlo, questo momento, leggiamo Borio, come sempre molto illuminante. “Una politica monetaria molto accomodante – ha dichiarato commentando l’ultima Rassegna trimestrale – ha avuto il suo ruolo nel determinare questo contesto economico e finanziario. Ciò rende ancora più importante capire l’“inflazione mancante”, dato che l’inflazione è la stella polare per le banche centrali. Sembra di essere in Aspettando Godot. Perché l’inflazione è rimasta così ostinatamente bassa sebbene le economie si avvicinino o sorpassino le stime del pieno impiego e le banche centrali compiano sforzi senza precedenti per farla risalire? Questa è la domanda da mille miliardi di dollari che determinerà il cammino dell’economia mondiale negli anni a venire e, con ogni probabilità, il futuro dell’attuale quadro di riferimento delle politiche. Purtroppo nessuno conosce davvero la risposta”. Ed è questa onesta ammissione di impossibilità di conoscere la ragione profonda di una della stranezze del nostro tempo che dice la parola definitiva sul momento che stiamo vivendo. Siamo avvolti nel buio, ma percepiamo alcune cose che, per diverse ragione, finiscono con lo spaventarci.
Sempre Borio: “Il calo prolungato dei tassi di interesse a livelli insolitamente bassi,
indipendentemente dalla solidità dell’economia sottostante, crea le condizioni che rendono difficile un ritorno a livelli più normali. In questo contesto l’aumento della percentuale delle società incapaci di pagare gli interessi con i propri utili (le cosiddette “società zombie”) non lascia ben sperare”. Ed eccolo qui il grafico che rappresenta questa situazione. Le imprese “morte-viventi” sono più che raddoppiate da inizio secolo negli Usa, dove ormai sfiorano il 16%, Europa e UK. La loro sopravvivenza è legata al fatto che i tassi sono ancora rasoterra. “Gli indicatori della leva societaria hanno raggiunto livelli simili a quelli registrati durante precedenti boom del credito
societario, come quello della fine degli anni ottanta, sebbene gli oneri per il servizio del debito rimangano inferiori a causa del livello storicamente basso dei tassi di interesse”. Ma cosa succederà – perché prima o poi succederà – quando i tassi risaliranno? “Nel complesso – scrive la Bis nella sua Rassegna -, ciò suggerisce che nell’eventualità di un rallentamento o di un rialzo dei tassi di interesse gli elevati pagamenti per il servizio del debito e il rischio di insolvenza potrebbero rappresentare delle criticità per le imprese, e creare quindi ostacoli alla crescita del PIL”.
E questo ci riporta al problema: l’inflazione mancante, il fantasma del nostro tempo. Le banche centrali muovono i tassi (e i loro bilanci) guardando all’inflazione, che rimane ostinatamente bassa. L’inflazione si muove poco e perciò i tassi non aumentano. Ciò incoraggia quella che Borio chiama “la trappola del debito”: i tassi non aumentano, facilitando l’assunzione di debito. I segnali sono numerosi: a parte le imprese zombie, la Bis censisce altre criticità che non dovrebbero essere sottovalutate. Sono cresciuti i volumi di emissioni obbligazionari ad alto grado di leva, i cosiddetti “leveraged loan”, che hanno raggiunto quota 1.000 miliardi secondo le stime di S&P Global market intelligence. E’ cresciuta del 75% la quota di prestiti covenant-lite, che sono prestiti che richiedono meno vincoli al prestatore e quindi favoriscono “un’eccessiva assunzione di rischio da parte dei mutuatari”. Ancora una volta, la giostra favorisce la crescita del debito, che costa poco ed è facile da ottenere. Questa situazione è chiaramente visibile in questo grafico, che, oltre alle imprese zombie, misura anche il degrado del merito di credito fra le aziende che si è registrato nell’ultimo quindicennio.
A fronte di questa situazione dal sapore vagamente horror, c’è un’apparenza insolitamente serena sulla superficie delle cose. I mercati hanno mangiato e digerito le bombe nordcoreane e solo le parole dei banchieri centrali sembrano ancora possedere il dono di spaventarli. Come quando, a fine giugno, le parole del presidente della Bce e della BoE hanno fatto sorgere il sospetto che si fosse agli albori di un inasprimento monetario. I rendimenti dei titoli di stato si impennarono, ma tornarono giù una volta che i dati misero in evidenza l’inflazione debole e subito le banche centrali rilasciarono dichiarazioni accomodanti. “Sospinti dal ridimensionamento delle aspettative di una stretta monetaria negli
Stati Uniti e dalle notizie macroeconomiche positive, i mercati mondiali hanno
segnato un netto rialzo”, scrive la Bis. Sia nei paesi avanzati che in quelli emergenti. Ancora Borio: “Tutto ciò sottolinea quanto i prezzi delle attività finanziarie sembrino dipendere dai rendimenti obbligazionari molto bassi che hanno prevalso così a lungo”. E così lo scenario si raffina e insieme si complica: “Una questione fondamentale per l’economia mondiale è quanto siano vulnerabili i bilanci a tassi di interesse più elevati”, aggiunge. Anche questa domanda è destinata a rimanere senza risposta. Sappiamo solo che la questione non riguarda solo le imprese zombie, ma anche i governi, che, approfittando dei tassi favorevoli, hanno emesso obbligazioni a rotta di collo contribuendo significativamente all’aumento del debito pubblico mondiale. L’Argentina, per fare un esempio che rappresenta bene lo spirito del tempo, ha emesso un bond a 100 anni all’8% di rendimento. Qualcuno, sospinto dall’entusiamo, l’ha comprato. Ma l’entusiasmo non dura per sempre: prima o poi finisce. E i problemi cominciano subito dopo.
La fragile calma dei mercati internazionali
Dovremmo, come suggerisce il buon senso, rimanere vigili, di fronte all’ennesimo allerta diffuso dalla Bis nella sua quaterly review di dicembre, o dovremmo semplicemente goderci la festa finché dura?
Che poi la festa altro non è che una calma fragile, come l’hanno opportunamente definita gli studiosi di Basilea. Cela profonde perturbazioni che si manifestano in esplosioni di volatilità rapide ed improvvise, che poi rientrano lasciando gli investitori sconcertati.
Una calma, di conseguenza, fragile anch’essa, come i mercati. Esposta ai colpi di vento che un sopracciglio alzato, di questa o quella banca centrale, scatena in un battibaleno facendo vibrare i cuori di mezzo mondo, come è accaduto anche di recente dopo le ultime decisioni della Bce.
Ma poi i cuori si placano. La volatilità rientra e il battito dei mercati torna regolare. Ciò non vuol dire che l’ansia sia diminuita. ” I mercati finanziari hanno fatto una breve pausa. E hanno aspettato. Hanno aspettato con il fiato sospeso”, come nota Claudio Borio, capo del dipartimento monetario della Bis commentando le cronache dell’ultimo trimestre. L’attesa cui Borio fa riferimento è quella che accompagna l’indecisione della Fed, che ormai sembra vicina a rialzare i tassi, esacerbando le divergenza monetaria con le altre banche centrali dei paesi avanzati che sembra fatta apposta per alimentare, domani, nuovi batticuore, sempre più violenti.
Anche perché, osserva ancora Borio, “dietro la calma ostentata dai mercati si scorgevano segnali di disagio. Ancora una volta è stato evidente il contrasto perenne fra il ritmo frenetico dei mercati e quello al rallentatore delle forze economiche più profonde, quelle che contano davvero”.
E le forze che contano davvero ci descrivono un mondo dove “le prospettive di breve periodo delle economie emergenti (EME)”, ossia delle economia che sono più a rischio in questa fase tormentata, “sono rimaste pressoché invariate” e dove “i prezzi delle materie prime, compresi petrolio, rame e minerali ferrosi, sono precipitati a nuovi minimi“, aggiungendo tali ribassi complessità proprio alle economie emergenti che dalle commodity traggono buona parte del loro sostentamento.
Se dal breve periodo guardiamo al medio, scopriamo che anche qui “le prospettive non sono cambiate – e come avrebbero potuto? Le vulnerabilità finanziarie nelle EME, in particolare, non sono venute meno. Lo stock di debito denominato in dollari, che dagli inizi del 2009 è quasi raddoppiato a più di 3.000 miliardi di dollari, non è diminuito. Anzi, in termini di moneta nazionale il suo valore è addirittura aumentato parallelamente all’apprezzamento del dollaro USA, andando a gravare sulle condizioni finanziarie e sui bilanci”. Tantomeno è diminuito lo stock di debito interno “cresciuto a dismisura dopo la crisi”.
Tali cambiamenti profondi si stanno incistando anche nei mercati a reddito fisso. “Sorprende ad esempio che, nonostante il più elevato rischio di credito che incorporano, negli Stati Uniti i tassi swap siano risultati persino inferiori ai corrispondenti tassi dei titoli del Tesoro”, ravvisandosi con ciò un “sintomo di debolezze più profonde”. A cominciare da quelle bancarie. “Le azioni bancarie vengono ancora scambiate a sconto rispetto al valore nominale – sottolinea – un chiaro segnale di mancanza di fiducia e di scetticismo. Nell’area dell’euro, in particolare, i crediti deteriorati sono eccessivamente alti. Occorrerebbe procedere risolutamente nel risanamento dei bilanci”. Che non è esattamente una cosa semplice.
Di tali problematiche profonde, la superficie dei mercati rilevata quotidianamente dalle varie borse, rivela solo sottili increspature che la volatilità trasforma in occasionali ondate di piena. Mentre, sullo sfondo, “i tassi di interesse hanno continuato a essere eccezionalmente bassi”: persino quando la Fed sembrava vicina a un rialzo, i rendimenti del decennale Usa oscillavano intorno al 2,2%, mentre nella zona euro, ormai quasi 2.000 miliardi di obbligazioni sovrane, circa un terzo del totale, vengono scambiati a tassi negativi. “I tassi di interesse correnti e attesi hanno proseguito giorno dopo giorno a mettere alla prova i confini dell’impensabile, e ciò malgrado il tono noncurante di buona parte degli osservatori. La familiarità ingenera compiacenza”.
Tale compiacenza, però, non è indice di buona salute, neanche mentale. ” Vi è una chiara tensione fra il comportamento dei mercati e le condizioni economiche di fondo – osserva ancora -. A un certo punto tale tensione dovrà risolversi. I mercati possono ostentare calma molto più a lungo di quanto pensiamo. Fino a quando, di colpo, non riusciranno più a farlo”.
E sarà allora che la fragile calma dei mercati metterà a dura prova la nostra.