L’ultima tentazione delle banche centrali: i green bond
Le persone più avvedute non si stupiranno scoprendo che le teste d’uovo del central banking guardino con occhi interessati allo sviluppo dei green bond, ossia obbligazioni che vengono emesse per raccogliere fondi destinati a progetti a vocazione ambientale. Nel nostro tempo, che sogna imprese impossibili per purgare il proprio senso di colpa, non c’è nulla di più coerente che impiegare le riserve di banca centrale, cresciute a dismisura nel tentativo di rianimare un’economia spompata, per provare a rimediare ai danni sofferti dall’ambiente proprio a causa dell’economia spompata. Il tutto, ovviamente, condito col birignao delle buone intenzioni, che sarebbe irritante se non fosse ormai il dolce e il salato del nostro conversare quotidiano.
Detto ciò, ormai i green bond sono una solida realtà del nostro panorama finanziario. Dal 2014, quando se ne cominciato a parlare, le emissioni sono cresciute significativamente. Prima per lo più ad opera dei paesi avanzati, e quindi denominate in dollari o euro, e poi anche delle economie emergenti, Cina in testa, denominati in yuan.
Si tratta di strumenti che godono per loro natura di buona stampa – l’aggettivo green suona un po’ come la parola etica appicciata alla finanza – e perciò hanno finito con l’attirare l’attenzione delle banche centrali che, dal canto loro hanno visto le loro riserve crescere parecchio. Alcune metriche le calcolano in 11,5 trilioni di euro a fine 2018, con una crescita annua, fra il 2000 e il 2018 (gli anni dei vari QE e della liquidità abbondante) del 10%. Ciò ha generato parecchio lavoro agli asset manager delle BC alle prese con l’annoso problema di tirar fuori qualche rendimento, da questi asset, oltre che renderli disponibili quando servono per tutte le esigenze della banca centrale.
Da qui l’idea di alcuni studiosi della BRI di Basilea, illustrata nell’ultima Quarterly review: usare le riserve di banche centrali per investire qualcosa sui green bond. Magari servirà pure a suscitare qualche simpatia in più verso queste entità. All’uopo gli studiosi hanno condotto una survey presso i gestori delle BC.
La survey ha evidenziato che al momento la sostenibilità ambientale non è al top dell’attenzione delle BC. E che tuttavia c’è molta sensibilità sul tema. E come potrebbe essere diversamente? “Poiché il mercato è ancora in evoluzione – scrivono gli economisti della BRI -, gli investimenti in obbligazioni verdi offrono anche alle banche centrali l’opportunità di aiutare a sviluppare standard e pratiche (ad esempio nel contesto della certificazione delle obbligazioni verdi in base ai loro probabili effetti ambientali o climatici)”.
Peraltro, queste obbligazioni, oltre a suscitare simpatie, hanno mediamente anche un buon rating.
Per giunta, come se non bastasse, hanno pure un “portfolio greenium” positivo. Insomma: il green paga più del benchmark: quattro punti basi in più quelli in dollari, addirittura 12 quelli in euro. Come si fa a dir di no?
E infatti la BRI ci conta. Tanto è vero che pochi giorni dopo aver pubblicato la Rassegna trimestrale ha lanciato un fondo open-ended specializzato in bond ecologici, “rispondendo a una domanda crescente di investimenti climate-friendly fra le istituzioni ufficiali”. Il fondo consentirà di incorporrare la sostenibilità ambientale fra gli obiettivi dei gestori delle riserve di banche centrali. Sarà denominato in dollari ma sarà di diritto elvetico, dove la Bis “abita” e sarà gestito in house dai gestori della stessa Banca. I bond dovranno avere almeno un rating A- per poter essere inclusi nei fondi, quindi parliamo di investimenti molto prudenti. “L’iniziativa – aggiunge – rientra nel più ampio impegno della BRI a sostegno di pratiche di investimento e di finanziamento ecologicamente responsabili, in linea con la partecipazione della Banca alla rete delle banche centrali e delle autorità di vigilanza per rendere più verde il sistema finanziario”.
La passione ecologista dei banchieri centrali è recente ma travolgente. Nel dicembre 2017 otto banche centrali istituirono un network, con tanto di logo proprio per promuovere la sostenibilità ambientale della finanza (“Greening the Financial System, NGFS”). Nell’aprile scorso fu pubblicato un primo rapporto sull’urgenza di intervenire sul cambiamento climatico, definito “una fonte di rischio finanziario”. Nel rapporto erano contenute diverse raccomandazioni, fra le quali quella di facilitare il ruolo del settore finanziario per raggiungere gli obiettivi dell’accordo di Parigi del 2015. Da qui ai green bond il passo è stato brevissimo.