Etichettato: bis quarterly review

Usare bene il tempo per frenare i rischi di stagflazione


Mentre ci preoccupiamo dei rischi stagflazionari che incombono sulla nostra economia, mitigati dagli ultimi sviluppi del prezzo delle commodity ma non ancora dissipati, dovremmo ricordarci una semplice evidenza che l’ultimo bollettino dell Bis si premura di sottolineare. I rischi peggiori, dalla coesistenza di un dollaro forte e da un contemperaneo raffreddarsi della crescita a tassi di inflazione crescente, li corrono i paesi meno avanzati, che hanno meno risorse di noi, e soprattutto strutture economiche assai più energivore delle nostre.

Questo utile pro-memoria dovrebbe servirci a non farci agitare troppo. O almeno questo è l’auspicio. Perché se ci agitiamo troppo, dimenticando che altri stanno molto peggio di noi, non facciamo altro che accelerare tendenze per loro natura stagflazionarie. La paura dell’aumento dei prezzi fa molto peggio di un momentaneo aumento del costo del petrolio, che abbiamo visto molto volatile. Al contrario delle aspettative, che una volta che si disancorano, per usare il linguaggio delle banche centrali, diventano assai problematiche.

Poiché dovrebbe essere chiaro che siamo in mezzo a un guado, limitiamoci a ricordare alcune cose: abbiamo, come paesi avanzati, una buona dotazione patrimoniale, che rende sostenibile per un certo periodo di tempo l’erosione del potere d’acquisto determinato dall’inflazione. Questo tempo, che possiamo comprare col nostro patrimonio, è la risorsa più importante da mettere in campo per frenare la rincorsa dei prezzi. E il fatto che i tassi salgono, e saliranno ancora, ne è semplicemente l’aspetto monetario. Il tempo vale di più, e di conseguenza il denaro, che non è altro che tempo (futuro) attualizzato.

Ciò significa che dobbiamo imparare a fare economia di questo tempo. Quindi impiegarlo in maniera intelligente. Magari iniziando a usarlo per sviluppare strategie di cooperazione proprio con quei paesi emergenti che stanno pagando il prezzo più elevato a questa crisi e che, piaccia o meno, rappresentano il futuro dell’economia globale, che certo non può aspettarsi granché da una società senescente come la nostra. Smetterla di agitarsi troppo e dare una mano a chi ha più bisogno. Ecco una strategia diversa dal solito per smetterla di pre-occuparsi dell’inflazione.

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Si aggiorna il legame fra banche (centrali) e debito sovrano


Il legame via via più stretto fra debito sovrano e banche commerciale è un interessante punto di osservazione per farsi un’idea di come evolva la salute finanziaria delle nostre economie. Nel tempo, all’espansione dei debiti pubblici non ha sempre corrisposto un relativo aumento della quota di titoli di stato nei bilanci bancari, pure se le tendenze generali non sono uguali in tutti i paesi. Nel nostro paese, ad esempio, questo legame fra stato e banche è più stretto che altrove.

Il fatto interessante però, che viene rilevato nell’ultima rassegna trimestrale della Bis, è un altro. E riguarda il comportamento tenuto dalle banche nei primi mesi della pandemia, quando questi soggetti acquistarono massicciamente il debito pubblico che gli stati emettevano furiosamente per coprire le proprie esigenze di spesa. Questa inversione di tendenza è appena visibile nel grafico sopra a destra, e riguarda i primi trimestri del 2020.

Dopodiché la tendenza si è invertita. Le banche commerciali sono diventate venditrici nette, perché nel frattempo sono entrate in campo le banche centrali, che hanno iniziato ad aumentare il proprio passivo, alimentando le riserve delle banche commerciali, mentre incrementavano il proprio attivo assorbendo i titoli di stato che le banche cedevano chissà quanto volentieri.

Il risultato è visibile nel grafico sopra. Le banche commerciali hanno alleggerito la quota posseduta di titoli di stato, mentre le banche centrali si sono riempite di questa carta. In sostanza il debito emesso dagli stati è stato in larga parte assorbito dalle banche centrali, che sono agenzie pubbliche.

Una socializzazione di fatto, neanche troppo celata, che adesso deve fare i conti con un contesto economico che alimenta i timori inflazionistici. Non proprio l’ideale, per una banca centrale, gestire una fase del genere con il bilancio pieno di asset. A parte le perdite, inevitabili, (che le banche commerciali sono riuscite invece ad evitare) si è costrette a fare scelte poco piacevoli. Non soltanto smettere di comprare titoli di stato, circostanza che costringe i governi a rivolgersi ai mercati. Ma anche disfarsi gradualmente di quelli in bilancio. La pacchia è davvero finita.

Il mercato nella trappola della percezione


Gli economisti della Bis di Basilea, che ha pubblicato di recente la sua ultima rassegna trimestrale, osservano che nel periodo preso in esame (fra fine novembre e metà febbraio del 2023) i mercati hanno ritrovato il piacere del guadagno. Chissà perché – gli umori dei mercati sono misteriosi come quelli di ognuno di noi, pure se vengono ammantati di una qualche forma di razionalità – gli operatori si sono convinti che non solo l’inflazione volgesse al miglioramento, ma che fosse solo questione di tempo – quest’anno al più – perché la stretta delle banche centrali terminasse. Le aspettative – chissà quanto razionali – concordano sul fatto che l’anno prossimo gli istituti di emissione torneranno a più miti consigli. E con l’abbassamento dei tassi tornerà quell’allegria che oggi viene riservata solo a poche sedute di borsa.

Queste aspettative, nota la Bis, “erano in contrasto con le comunicazioni delle banche centrali”. Queste ultime hanno in qualche caso rallentato il ritmo degli inasprimenti, ma nessuna di loro si è sbilanciata a annunciare ulteriori rilassatezze. E tuttavia questo è bastato ad alimentare la percezione che ormai il peggio è passato, che a sua volta è destinata ad alimentare la delusione quando percepiremo che così non è.

La trappola della percezione, a ben vedere, è la peggiore nella quale i mercati potevano infilarsi. Ma non avevano scelta. In una società istantanea come la nostra non c’è tempo per pensare. Si può solo reagire. Che non vuol dire agire. Vuol dire fare quello che ci aspetta da noi.

La grande rotazione dalla “crescita” al “valore”


Fra le tante cose che sono accadute, e che diventa interessante sottolineare oggi che le borse sono di nuovo sotto stress, si segnala la grande rotazione, raccontata nell’ultima rassegna trimestrale della Bis fra due classi di titoli molto diverse fra loro, per vocazione e costo di gestione: quelli che puntano sulla crescita (cd “growth”) e quelle che puntano sul valore (cd “value”). I primi puntano su settori come il tecnologico e le giovani aziende. Le seconde sono quelle che hanno un mercato consolidato e tipicamente hanno buoni cash flow.

La grande rotazione dai titoli growth a quelli value si è consumata fra il 2021 e i primi mesi del 2022. Quindi i mercati hanno venduto i primi e comprato i secondi, probabilmente anche intonando le loro scelte di investimento con la prospettiva di un rialzo dei tassi di interesse, che a sua volta ha molto a che vedere con i tempi necessari a far maturare i cash flow. Un’azienda giovane ha bisogno di più trimestri per vedere un utile, e quindi un costo del denaro più basso la favorisce. Al contrario, un’azienda solida garantisce comunque ritorni. Quindi un rialzo dei tassi penalizza la prima piuttosto che la seconda, deprimendone i corsi azionari, “i cui flussi di cassa orientati al futuro verrebbero scontati più pesantemente”.

Il punto saliente è che “La recente rotazione dai titoli growth avrebbe potuto essere esacerbata dal deleveraging”. In particolare potrebbe aver pesato il comportamento anticiclico di alcuni ETF. In ogni caso “la elevata sensibilità dei titoli growth ai tassi di interesse suggerisce che la loro elevata sensibilità ai tassi di interesse potrebbe avere implicazioni significative di mercato”.

Le ragioni affondano nella “performance stellare” di questi titoli fino all’arrivo della pandemia: il loro peso specifico sul paniere dello S&P, infatti, arrivò prima del Covid al 57%, prima della correzione osservata nel 2021 (grafico sopra, primo a destra).

Oggi le stime degli economisti ipotizzano che un punto percentuale di incremento dei tassi decennali potrebbe accompagnarsi a un calo del 12% dell’intero indice. Detto semplicemente, quando i tassi si alzano spesso le borse calano, per un motivo o per un altro. Teniamolo a mente.

I rischi nascosti del boom criptovalute negli Emergenti


Fra i tanti temi esplorati nell’ultima rassegna trimestrale della Bis di Basilea, vale la pena dedicare qualche riga alla notevole crescita del settore delle criptovalute nelle economie emergenti (EMEs) che si è osservata negli ultimi anni. Non tanto, o non solo, per gli evidenti risvolti di natura finanziaria – questi asset spesso vengono utilizzati come copertura dall’inflazione – ma per gli effetti che a lungo termine possono avere sulla capacità di questi paese di svolgere ordinatamente la loro politica monetaria.

L’utilizzo di criptovalute, peraltro, ha accelerato vistosamente dall’esplodere della crisi Covid, “specialmente nei paesi con tassi di cambio volatili”. Quando soffia la bufera sul mercato valutario, chi ha una valuta fragile cerca naturalmente rifugio in monete più tranquille. Come una stablecoin, ad esempio, ossia una criptovaluta agganciata a una valuta di riserva. Strumenti che hanno anche il vantaggio di poter evitare eventuali controlli sui capitali. E questo include anche la possibilità di aggirare i controlli anti-riciclaggio, ovviamente.

Tutto ciò spiega perché in alcuni momenti particolarmente delicati si possa verificare una fuga verso questi strumenti, anche verso quelli più rischiosi, ossia non collegati a valute di riserva, come Bitcoin. Con una conseguenza da non sottovalutare: “Poiché la cryptoisation è simile alla sostituzione di valuta, come ad esempio la dollarizzazione, questo può incidere sulla sovranità monetaria”. Detto diversamente, i paesi che registrano fughe verso valute altre, siano esse “analogiche” o virtuali finiscono col perdere la gestione della politica monetaria. L’avvento delle monete cripto, insomma, ha offerta una ulteriore possibilità di “fuga” dalle monete nazionali giudicate troppo fragili.

I dati ci dicono che il trading di stablecoin legate al dollaro vs valute di alcuni paesi emergenti è aumentato significativamente a partire dal 2020. Si è osservato ad esempio che la Lira turca e il Real brasiliano sono state molto più presenti nel mercato degli stablecoin piuttosto che nel normale mercato valutario, specie quando le rispettive economia hanno subito le dure conseguenze della crisi.

In dettaglio, la Lira turca, che pesava lo 0,3% degli scambi nel mercato stablecoin a gennaio 2020, è arrivata all’11% in aprile, e, in conseguenze dell’ulteriore deprezzamento dei mesi successivi, è arrivata al 26% a dicembre 2021. Questo a fronte di un peso specifico della valuta turca nei mercati ufficiali di appena lo 0,5%.

A ciò si aggiunga che si è osservato anche un notevole incremento nel trading di Bitcoin ogni volta che si sono manifestate pressione su una valuta emergente. A dimostrazione del fatto che i risparmiatori, almeno chi può, cercano sempre di sfuggire dalle difficoltà monetarie vissute dal proprio paese, spesso provocate da gestioni a dir poco discutibili di chi governa.

Tutto ciò non può che aumentare l’instabilità economica. Soldi che fuggono, significa meno risorse per il paese, e quindi incentivo per un governo a stringere ulteriormente i controlli sui capitali, in una spirale che conduce inevitabilmente all’impoverimento.

Peraltro, queste criptovalute incorporano una instabilità intrinseca. Vuol dire che chi pensava di averla scampata comprando Bitcoin, si espone ai notevoli rischi che questa valuta porta con sé. Che se dovessero concretarsi comporterebbero altre conseguenze negative. “Tali rischi sono ulteriormente aggravati da “incognite sconosciute”, conclude l’analisi, in particolare a causa della mancanza di trasparenza sulla proprietà delle criptovalute”. Per scappare dal governo, insomma, si può finire in mano a chissà chi.

Svelata l’illusione della finanza decentralizzata


Come sanno bene gli storici, ogni rivoluzione cela l’aspirazione di molti a conquistare semplicemente il potere, ed è per questo che quasi sempre le rivoluzioni sfociano in tirannidi. I rivoluzionari promettono di abbattere un regime in nome della libertà. Salvo poi imporre senza troppi complimenti quello che cova nella loro testa. Diffidare delle rivoluzioni, in tal senso, è un ottimo consiglio che le persone di buon senso, ossia quelle avvedute circa i tempi della Storia, notoriamente sprecano.

Ciò per dire che andrà probabilmente sprecato anche il disvelamento contenuto nell’ultimo Quarterly review della Bis, dove si analizza la sostanza del mito della cosiddetta finanza decentralizzata, che agita i sogni rivoluzionari di molti sin da quando il misterioso Satoshi Nakamoto rilasciò il suo paper sul Bitcoin.

Ricorderete la promessa di libertà contenuta in quelle poche pagine: nientemeno che rompere il monopolio ordino dai poteri forti, quindi le banche commerciali e quelle centrali, che gestiscono la moneta dall’emissione alla circolazione, costruendo una moneta digitale emessa “automaticamente” dalla rete, per giunta in quantità prefissata, e scambiata tramite un protocollo aperto, condiviso e trasparente. La disintermediazione e la decentralizzazione furono indicati al vasto popolo della rete come la terra promessa di una nuova socialità economica destinata a terremotare i burosauri del denaro.

Da quel tempo – è trascorso poco più di un decennio, ma sembra un secolo – la criptofinanza si è sviluppata al punto che ormai viene scambiato sui mercati ufficiali un ETF in Bitcoin, mentre è sorto un ecosistema di aziende e interessi floridissimo che ruota attorno alle criptovalute. Il mitico Bitcoin è diventato un pregevole (e volatile) asset che preoccupa non poco i regolatori, a loro volta travolti dalla rivoluzione al punto che praticamente tutte le banche centrali stanno studiano una versione digitale del loro conio.

Ma non è tanto questo il punto. Ciò che conta rilevare è che la finanza decentralizzata – ossia basata su tanti piccoli agenti economici – è una pia illusione che ricorda il mito jeffersoniano del piccolo coltivatore padrone della terra sul quale si dovevano fondare gli Stati Uniti prima dell’avvento dei grandi monopoli, somigliando ad esso anche per l’esito che incombe su questa ennesima promessa (smentita) di rivoluzione. “C’è una “illusione della decentralizzazione” – scrivono gli economisti della Bis – nella DeFi (decentralised finance, ndr), visto che il bisogno di una governance provoca un livello inevitabile di centralizzazione e alcuni aspetti strutturali del sistemi conducono a una concentrazioni di potere”. Ed ecco la morale di questa storia, purtroppo notoria: tutto cambia ma non cambia niente, salvo – e neanche sempre – i titolari delle nuove posizioni di potere.

Detto ciò, vale la pena fornire qualche elemento in più non tanto per convincere qualcuno dell’esistenza del mito – inutile contrastare il furore rivoluzionario – quanto per addestrarci maggiormente alla comprensione del mondo che sarà, o che dice di voler essere.

Cominciamo da una premessa che vale la pena ricordare bene: “In principio la DeFi ha il potenziale di essere complementare alle attività finanziaria tradizionali. Nel presente, tuttavia, ha poche applicazioni nell’economia reale e, per la maggior parte, supporta la speculazione e l’arbitraggio fra multipli criptoasset”. Quindi quella che doveva cambiare il mondo, per il momento, sembra confermarne tutte le abitudini che indignano le anime belle, che poi sono le stesse che vogliono cambiare il mondo.

A questa sottile sfumatura, che iscriviamo d’ufficio alla vasta categorie delle illusioni alimentate da questa tecnologia, si aggiungono anche altre caratteristiche che fanno della DeFi un aggeggio pericoloso, se mal gestito: la notevole vulnerabilità che incorporano a causa non solo dell’alto leverage, ma anche dei possibili disallineamenti di liquidità e la mancanza di meccanismo di assorbimento degli shock.

La tabella sopra riepiloga le attività delle DeFi in confronto con le CeFi (centralised finance), ossia gli intermediari tradizionali. In sostanza, la DeFi promette di fare le stesse cose, ma senza interventi di mediatori, in puro spirito internet. Che vuol dire che le prime registrano tutte tramite blockchain, mentre le seconde nei loro archivi. Trasparenza, insomma, pure se in codice, versus segreto d’ufficio.

La crescita degli attivi cripto, favorita in particolare dallo sviluppo delle stablecoins, criptoasset agganciate a monete ufficiali, è stata tuttavia rilevante.

Vale la pena anche osservare che la crescita della DeFi dipende anche dal supporto, finora tutto sommato limitato, offerto dagli intermediari tradizionali.

Delle conclusioni vale la pena riportare solo pochi passaggi. Ricordare ad esempio che i primi sviluppi di una nuova tecnologia “spesso provocano bolle e perdite anche quando generano innovazioni che potrebbe potenzialmente essere utili in futuro”. Detto diversamente, la DeFi va presa con le pinze: né demonizzata, né divinizzata: è solo l’ennesimo cambiamento tecnologico nel mondo della finanza e come tale va compresa, studiata e messa in condizione di non nuocere più del normale.

E qui il discorso si complica. La struttura stessa – decentralizzata – di questa finanza solleva la questione di come si debba e si possa regolamentare queste attività. Abbiamo già osservato che la decentralizzazione totale è un’illusione: le principale piattaforme tramite le quali questi strumenti operano hanno proprietari e azionisti. Quindi forse si può partire da qui. Ma è chiaro che il cammino sarà lungo e complicato. E non è detto che conduca in un posto migliore.

Il divorzio fra mercati e banca centrale


“L’aumento dei rendimenti governativi nelle economie avanzate fra la fine di settembre e ottobre, mostra segni di una disconnessione dalle linee politiche guida delle banche centrali”, scrive la Bis di Basilea nella sua ultima Quarterly review. Passaggio denso di implicazioni, se solo si riesce a penetrarne il significato, che per fortuna del lettore la Banca illustra con dovizia di particolari in un approfondimento.

Detto semplicemente, la disconnessione è quella fra i mercati, che comprano e vendono titoli di stato, e le banche centrali, che in oltre un secolo di onorata attività hanno maturato gli strumenti (e soprattutto la convinzione) per orientare non solo i tassi di interesse, ma anche il rendimento dei titoli di stato, che ovviamente hanno a che fare coi primi.

In cosa consiste questa “disconnessione”, come la chiama pudicamente la Banca? Semplicemente nel fatto che sono cresciuti i rendimenti dei bond sovrani, e quindi significa che sono stati venduti titoli e quindi sono diminuiti i corsi, malgrado la banca centrale non abbia fatto nulla per provocare questo calo, e anzi abbia tentato di rassicurare i mercati dicendo che l’aumento dell’inflazione, probabilmente all’origine delle vendite, fosse transitorio. O forse proprio per questo?

A meno che il mercato non creda più alla promessa che i tassi non cresceranno, o almeno non subito. In ogni caso la “disconnessione” rimane.

In sostanza sia che il mercato sia in disaccordo sulle prospettive di inflazione, sia che non condivida le strategie di policy delle BC, questa sorta di divorzio disegna scenari poco rassicuranti, in un contesto sempre più caratterizzato dalla volatilità.

L’approfondimento della Bis conclude che questo disaccordo sia principalmente provocato dalle prospettive di inflazione. La strategia delle BC di parlare di transitorietà, come dimostrano anche le recenti dichiarazioni del governatore della Fed, non si può dire possa avere ancora vita lunga. E questo spiega il fatto: “Le variazioni in una prospettiva inflazionistica già complessa hanno ridotto gli incentivi degli investitori a detenere obbligazioni nominali che fornivano rendimenti profondamente negativi in ​​termini reali (cioè dopo l’inflazione)”. Questo per ricordare che nel mondo gira tuttora una quantità notevole di bond a tassi negativi che genera perdite ancora superiori in caso di rialzi dell’inflazione.

Il mercato, quindi, non sembra più disposto non tanto a credere, quanto a digerire tutto ciò che la banca centrale gli propone. E questo è un notevole incentivo a far proliferare proprio quei comportamenti “alternativi” che la Banca censisce nel suo rapporto. Si pensi al boom delle criptovalute che ha generato il primo ETF in Bitcoin.

In questo contesto, la variante della pandemia – in questo caso Omicron – aggiunge elementi di tensione a un quadro già tiratissimo. Il copione non cambia: mercati in crescita, poi arriva la cattiva notizia, e comincia al discesa. Un copione secolare.

Il problema è che questi episodi sono sempre più frequenti. Come se i mercati pattinassero su una patina sempre più sottile di ghiaccio quindi assai più facile a crinarsi.

Finora le banche centrali, con la loro generosità e pazienza, hanno fornito un robusto sostegno ai nostri pattinatori, ma al prezzo di una notevole sovraesposizione (anche finanziaria). E siccome i mercati non conoscono gratitudine, ma solo fame di rendimento, il rischio è che valga per la banche centrali la massima che Celine dedicò al dottor Semmelweiss: “Niente è gratuito in questo basso mondo. Tutto si espia; il bene, come il male, si paga prima o poi. Il bene è molto più caro, per forza”. Quindi il conto per le BC rischia di essere salatissimo.

La crescita improvvisa dei mercati “privati”


Fra i tanti approfondimenti contenuti nell’ultimo Quarterly report della Bis, vale la pena dedicare qualche minuto a uno che racconta della curiosa evoluzione intervenuta nell’ultimo ventennio nella finanza internazionale in parte anche grazie ai buoni uffici della politica monetaria generosa: l’ingresso in forza di alcuni operatori privati nei mercati finanziari.

La Banca si riferisce in particolare ai cosiddetti “alternative asset managers” (AAMs), ossia entità che gestiscono asset finanziari e che si comportano sostanzialmente come banche, quindi effettuano prestiti, generalmente alle piccole imprese, o, su scala globale, ai paesi emergenti. Appartengono, insomma, a quelle Non bank financial institutions (NBFIs), di cui abbiamo parlato più volte. Categoria alle quali si iscrivono anche le altre banche ombra attive nel mercato dei capitale – classicamente i fondi o i fondi pensione – con la differenza che questi asset manager lavorano come case di investimento private – quindi non sono soggette alle regole di pubblicità cui devono sottostare le entità più grandi. In tal senso, quindi, sono “private”.

La Bis sottolinea tre qualità che distinguono questi operatori “privati” dagli altri che agiscono nei mercati finanziari “pubblici”. Innanzitutto il fatto che la loro capacità di trasformazione degli asset in liquidità è limitata dal fatto che, a differenza di una banca, il loro piano di attività prevede che vengano affidati loro capitali per periodi lunghi.

Questo ci conduce alla seconda caratteristica: i loro ricavi sono estremamente volatili. Dulcis in fundo, proprio perché “privati” la regolazione alla quale sono sottoposti è molto leggera. Il combinato disposto fa somigliare questi soggetti a efficienti bombe a frammentazione inserite nei mercati. O, per dirla con le parole della Bis, “rispetto ai mercati pubblici, il finanziamento fornito attraverso i mercati privati è altrettanto prociclico, mentre la sensibilità alla politica monetaria varia tra i segmenti di attività”.

La qualcosa è un motivo più che sufficiente per saperne di più su questi soggetti. Sapere, ad esempio quali masse gestiscano e soprattutto come. A tal proposito, è utile sapere che queste entità svolgono la loro funzione “creditizia” tramite varie modalità, che spaziano dal venture capital al private equity. Si tratta di pratiche che conobbero il loro inizio negli Stati Uniti nei lontani anni ’80, quando il private market mosse i primi passi e da lì inizio a espandersi globalmente.

Oggi questi mercati “privati” sono molto ampi in Nord America e in Europa, e adesso si presentano anche in Asia. Complessivamente gestiscono masse per 10 trilioni di dollari, che sembrano poca cosa se li confrontiamo con i 40 trilioni gestiti dai Fondi di investimento (mutuls fund) non governativi, ma comunque sono un bel gruzzoletto. Il 56% di questa cifra è domiciliata in Usa, il 24 in Europa e il 18% in Asia. La tabella sotto fornisce ulteriori informazioni.

Il cosiddetto “Dry powder” identifica dei capitali che sono nella disponibilità di queste entità ma che non sono ancora stati impiegati. E il fatto interessante è che questa montagna di denaro ha raggiunto, all’inizio del 2021, quota tre trilioni, e corrisponde a circa il 40% del private equity (PE) in Nord e in Europa e il 30% del Venture capital (VC) in Asia.

Proprio l’Asia, e in generale le regioni emergenti, sono state le grandi protagoniste dell’evoluzione dei mercati privati, in particolare a partire dal 2010, come si può osservare dal grafico sotto, nel pannello di sinistra.

Interessante anche osservare come queste risorse si distribuiscono all’interno dei vari settori economici, nelle diverse categorie di trasferimento delle risorse.

Il punto saliente però è un altro. “L’attività nei mercati privati ruota intorno agli investitori istituzionali, che forniscono quasi tutto il capitale, e le AAM, che intermediano i fondi”. Quindi in pratica queste case d’investimento fanno girare i soldi forniti gentilmente loro dai pezzi grossi del mercato “pubblico”, in un gioco che ricorda vagamente quello delle banche con i loro veicoli speciali di investimento per fare girare i prestiti cartolarizzati gonfi di subprime nel 2008.

“Gli investitori finali sono in genere di grandi entità. I fondi pensione sono player dominanti nel private equity con una quota spesso superiore al 70% degli impegni di capitale. Le agenzie di sviluppo economico – di solito entità sovranazionali o governative – hanno ruoli di primo piano sul Venture Capital. Le assicurazioni, infine, hanno invece partecipazioni relativamente ampie nei segmenti di attività più sicuri, mentre i fondi sovrani si concentrano maggiormente su provate equity e venture capital”, scrive la Bis.

Ma perché mai un fondo pensione dovrebbe rischiare i suoi soldi – anzi i soldi del suoi sottoscrittori – in attività così rischiose? La risposta è quella più banale: il rendimento. Tutto è ben riepilogato nel grafico sotto.

Non serve molto altro per concludere. La crescita dei mercati privati è figlia della storia, e ha trovato alimento nell’ambiente dei tassi bassi che ha spinto le entità del mercato pubblico ad affidarsi a questi vascelli corsari per spuntare qualche rendimento, pure se assai volatile, contando sul fatto che le loro obbligazioni sono mediamente di lungo termine. Una scommessa razionale, si potrebbe dire. Ma sempre una scommessa.

L’irresistibile ascesa del Fintech


Poiché tutto si tiene, non dovremmo stupirci nell’osservare la straordinaria crescita del settore fintech nel momento in cui alcune banche centrali annunciano il primo esperimento – positivo – di trasferimento transfrontaliero di moneta digitale di banca centrale (Central bank digital currency, CBDC). Il futuro della finanza è sempre più scritto in bit, arrivando così a compimento quel processo, squisitamente spirituale, di smaterializzazione della ricchezza che oggi nel digitale trova la sua più autentica rappresentazione. Il valore – del denaro come di un qualunque asset – ha molto più a che fare con i software sociali che danno sostanza alla nostra società piuttosto che con valutazioni intrinseche. Ci abbiamo messo alcuni secoli a comprenderlo, e altri ancora a trasformarlo in principio a base della nostra società, e chissà quanto tempo servirà ancora per intuirne le implicazioni profonde.

Questo software sociale gira grazie a un hardware molto pesante – celato sotto gli oceani o sulla stratosfera – che oggi ci ha messo nella condizione di creare ricchezza semplicemente volendolo. Almeno finché tutti ci credono. Questo apre scenari inusitati al nostro sviluppo: inebrianti – si pensi alla volontà di potenza celata nei bilanci delle banche centrali – quanto pericolosi. Anche per questo viviamo in tempi interessanti.

Ma qui non si tratta di fare filosofia, piuttosto di osservare come le tendenze della storia emergano sulla superficie della cronaca, che della storia è uno squisito travestimento. E per osservare i fatti recenti del fintech si può utilizzare un bel riepilogo contenuto nell’ultima quarterly review della Bis.

Poiché l’economia è scienza innanzitutto quantitativa, vale la pena partire da qui. Nulla fotografa lo straordinario sviluppo del Fintech quanto la circostanza che in poco più di un decennio le aziende che operano in questo settore abbiano raccolto più di un trilione di dollari di equity, frutto di circa 35.000 accordi, mutando anche la loro composizione. Da settore parecchio concentrato ad ecosistema popolato da animali di varia taglia. Ossia la miglior prova possibile di un ecosistema in crescita.

Il Venture capital (VC) ha contribuito significativamente a questo sviluppo, consentendo al capitale raccolto per il Fintech di raggiungere il 5% del totale (dato 2020) rispetto all’1% di dieci anni prima. Questa crescita si è accompagnata a una notevole diversificazione dei deals: il Fintech ha fatto capolino un po’ ovunque anche se gli Usa, l’Ue, l’UK e la Cina rimangono i principali attori di questo processo.

Quanto ai segmenti di mercato, quelli più gettonati sono le criptocurrency&blockchain e big data&intelligenza artificiale. E questo ci riporta alle premesse. La finanza non solo diventa sempre più immateriale, ma cerca il sacro graal dell’algoritmo perfetto che le consenta di prosperare senza più il fastidio di pagare le ferie a troppe persone.

Il futuro ci dirà cosa sarà di questa pulsione. Intanto contentiamoci di osservare che il fintech prospera – nel senso che raccoglie più capitale – nei paesi che hanno una regolazione più avanzata, oltre a un settore finanziario più evoluto e una maggiore capacità di innovazione. E’ roba da ricchi, insomma, che studiano come diventarlo ancor di più.

Un’ultima considerazione ci fornisce ulteriori elementi di riflessione: l’attività di venture capital, nella fase iniziale della ricerca di funding, tende ad incrementarsi se si verificano operazioni di fusione&acquisizione nel settore stesso che coinvolgano grandi banche, al contrario di quello che accade quando questa operazioni coinvolgono le Big Tech. “Questo – scrive la Bis – suggerisce che, cercando spesso di sfruttare
sinergie con le fintech, le banche potrebbero stimolare la formazione di fintech. Le Big Tech, al contrario,
che sono spesso in diretta concorrenza con le fintech, potrebbero ostacolare il loro sviluppo scoraggiando gli utenti dall’entrare nelle reti di concorrenti alle prime armi”.

Detto diversamente Il futuro del Fintech dipende assai più dai poteri finanziari tradizionali che da quelli emergenti. E questo dovrebbe farci riflettere. Le grandi banche impugnano il fintech per difendere il loro business dalla concorrenza delle Big Tech, che lo usano nativamente per fare concorrenza alle banche o, quantomeno assomigliargli. Chiunque vinca, noi siamo la posta.

Alle origini della globalizzazione. Il boom dei prestiti bancari internazionali


L’ultima quarterly review della Bis, pubblicata di recente, contiene un capitolo molto interessante sui settant’anni di prestiti bancari internazionali che hanno consentito all’economia internazionale di arrivare alla fisionomia che esibisce oggi, dove una montagna di credito girovaga alla ricerca di opportunità alimentando, in egual misura, speranze e crisi, al prezzo di una montagna di debiti. Nessuna globalizzazione sarebbe possibile senza credito internazionale, e questo dovrebbe essere chiaro a tutti. E tuttavia è meglio ribadirlo, visto che l’infrastruttura finanziaria che regge gli scambi internazionali è solitamente poco osservata.

Poiché un’immagine racconta meglio di mille parole cosa sia accaduto negli ultimi sette decenni, meglio partire dai dati raccolti dal Bis sin dal lontano 1963, quando iniziarono le serie delle statistiche bancarie. Non a caso. Già dagli anni ’50, infatti, si era iniziato ad osservare il risorgere dei prestiti internazionali dopo il disastro degli anni ’30 e della guerra. I ’50 del secolo scorso, in tal senso, somigliavano ai ruggenti anni ’20 prima della crisi del ’29. E questo non deve stupire. E’ nella natura di questo mercato, che si basa sulla competizione fra le banche, alimentare i prestiti internazionali e amplificare di conseguenza i boom creditizi che di solito finiscono col precedere le crisi finanziarie. Il ’29, da questo punto di vista, fu solo l’ennesimo episodio di una lunga serie che dura fino ai giorni nostri.

Per dare un’idea delle quantità, nei primi anni Sessanta, i crediti/prestiti internazionali non arrivavano al 2% del pil mondiale. Poco più di quarant’anni dopo – nel 2007 – questa quota era arrivata al 60% del pil, per ritracciare verso il 40% nei primi mesi del 2021. Vale la pena sottolineare che nel tempo all’attività bancaria ordinaria si è affiancata quella degli istituti finanziari non bancari: le banche ombra. Inoltre, buona parte di questi prestiti vengono spesso contrattati in valute diverse da quella di residenza della banca che li concede.

Questa evoluzione si deve al concorrere di diverse forze: la costante ricerca di arbitraggi, per sfruttare i vulnus della regolazione per lucrare qualcosa; la liberalizzazione dei flussi di capitale che culminò negli anni ’80 e da allora è progressivamente aumentata; l’innovazione finanziaria, che ha inventato strumenti sempre più complessi e quindi aumentato la possibilità di offerta di credito a una domanda sempre più abbondante. In una parola, l’aumento dei crediti internazionali, ha seguito la crescita della globalizzazione che a partire dal secondo dopoguerra ha caratterizzato la fisionomia del nostro mondo.

Il lato oscuro di questa forza impetuosa è stata la crescita degli squilibri globali. “I prestiti transfrontalieri hanno consentito il boom del credito al centro di diverse crisi finanziarie internazionali – scrive la Bis – in particolare la crisi del debito latinoamericano all’inizio degli anni ’80, la crisi finanziaria asiatica alla fine degli anni ’90 e la grande crisi finanziaria (GFC) del 2007-09. Prima di ogni crisi, la competizione tra le banche per la quota di mercato ha contribuito all’impennata del credito internazionale”.

Potremmo domandarci se tale caratteristica abbia a che vedere con la circostanza che a partire dal XX secolo si innovò sostanzialmente la pratica bancaria che durava da secoli. Ossia la consuetudine di raccogliere denaro in patria e poi prestarlo all’estero. Infatti già dai Settanta il mercato offshore era già una quota importante dei prestiti internazionali. Le banche, in sostanza, raccoglievano fondi fuori dal loro paese di residenza per prestarli ovunque. “Istituti di credito e debitori hanno optato in modo schiacciante per condurre le proprie attività in valuta estera nel mercato offshore”, spiega la Bis. Il perché è facile da intuire: minori controlli, più opportunità di profitto. Le banche conobbero molto prima di altri le delizie della globalizzazione.

E non solo loro. “Gli istituti non bancari al di fuori degli Stati Uniti collocano solo una piccola parte dei loro depositi in dollari Usa presso banche negli Stati Uniti. La quota dei loro depositi in dollari nelle banche al di fuori degli Stati Uniti è stata del 90% nei primi anni ’90 e in media del 77% nel periodo 2000-21”. Il capitale, insomma, è mobile e alla costante ricerca di opportunità. Il nazionalismo finanziario, ammesso che sia davvero esistito ed abbia senso economico, non abita più qui.

Questa tendenza non riguarda solo gli Usa. Anche le non banche europee e quelle giapponesi – queste ultime addirittura dagli anni Ottanta – depositano i loro fondi fuori dalla loro residenza. E questo spiega perché Londra abbia conservato una supremazia nel mercato bancario internazionale superiore a quella della sterlina in quello valutario.

Ancora oggi (marzo 2021) Londra pesa circa il 16% del mercato bancario internazionale. A dimostrazione del fatto che la storia ha il suo peso, pure quando ormai è vecchia di più di un secolo.

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