Etichettato: cartolina the walking debt
Cartolina. Chi non risica comunque rosica

Cent’anni di perdite sui bond statunitensi, raccolti pazientemente dalla Bis di Basilea, dimostrano nei fatti la regola aurea della finanza che a rischi elevanti corrispondono guadagni elevati quando il tempo è bello e perdite altrettanto elevati quando volge al peggio. Chi invece non risica – ossia chi compra bond con un investment grade – comunque rosica qualcosa. Ed è proprio sul livello di questo qualcosa che ogni investitore dovrebbe interrogarsi con consapevolezza. Quanto vogliamo avere dipende sempre da quanto vogliamo rischiare. E questo non vale solo per gli investimenti finanziari. La realtà imitala fantasia, diceva il poeta. La finanza non fa eccezione.
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Cartolina. Se disinflazionando…

Dunque, dicono gli esperti della Bis, l’inflazione la rivedremo alla fine del 2024 a livelli sostenibili – quindi vicino all’ormai mitico 2 per cento – se i salari cresceranno ma non abbastanza da recuperare il potere d’acquisto perduto in questo triennio; se le aziende accetteranno di veder diminuire i loro margini di profitto; se le aspettative rimarranno ancorate – a questo servono i rialzi dei tassi -; se i prezzi alle importazioni, specie nell’eurozona, rimangono moderati; se la produttività torna a salire; se le previsioni sono giuste. E ovviamente – aggiungiamo noi – se nel frattempo non succede qualcos’altro. Diceva il saggio: se mio nonno aveva tre palle…
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Cartolina. Se inflazionando…

Adesso tocca ai profitti, e diventa una notizia. Ma prima è toccato ai salari e prima ancora alle tasse del governo. Tutti insieme, appassionatamente, hanno contribuito chi più chi meno, chi prima chi dopo, all’accelerazione dell’inflazione. E sarebbe strano il contrario. L’inflazione, quando arriva, colpisce, e quindi interessa, tutti. I lavoratori chiedono aumenti, le imprese aggiustano i prezzi. E nel caso del 2022, il governo è tornato a farsi pagare alcune tasse o, semplicemente, ha smesso di mitigarle. Nell’ultimo periodo l’inflazione da profitti si è fatta sentire più delle altre, e questo ha dato la stura a divertenti polemiche sull’avidità degli industriali capitalisti. La verità è molto più semplice: siamo tutti nella stessa barca. E quella barca costa sempre di più.
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Cartolina. L’incubo americano

Il fatto, nudo e crudo, documentato da un inquietante paper del Nber – The re-emerging suicide crisi in the U.S. – è che nell’ultimo ventennio il tasso di suicidi negli Stati Uniti è aumentato quasi del 40 per cento, arrivando a oltre 14 per 100 mila abitanti. Un’enormità per spiegare la quale gli autori della ricerca hanno scomodato qualsiasi possibile causa, partendo ovviamente dalla crisi economica fino all’avvento di internet, passando per l’abuso di oppiacei e l’ampia disponibilità di armi, dovendo tuttavia constatare che questi avvenimenti comuni in gran parte dei paesi avanzati, dove però i tassi di suicidio sono diminuiti. Rimane perciò – terribile – la domanda: perché così tanti americani – e in gran parte giovani – si uccidono? La risposta è: non è chiaro. Dobbiamo perciò limitarci ai fatti. Negli anni ’50 del XX secolo, quando era di moda il sogno americano, il numero dei suicidi scendeva, toccando, nel 1958 il minimo di 9,8 per 100 mila abitanti. Poi il sogno è finito, evidentemente. E’ diventato un incubo.
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Cartolina. Il disservizio del debito

E’ sempre istruttivo osservare quanto consumo di matematica occorra per confermare quello che il senso comune sa da sempre. Ossia il fatto che fare debiti ha alcuni vantaggi – puoi investire o consumare di più a beneficio della crescita generale – e altrettanti svantaggi – devi pagare gli interessi sui debiti, quindi consumi e investi meno con grave nocumento per la crescita – che devono essere sempre opportunamente ponderati. E mica solo questo: grazie alla matematica scopriamo pure che i flussi finanziari finiscono in qualche modo con l’interferire con l’economia reale. D’altronde lo diceva anche mia nonna che se hai troppi debiti finisci strozzato. Ma visto che lo dice anche la Bis, in un bel paper che mostra come la “gobba” degli interessi passivi finisce col causare problemi anche alla produzione futura, sarà il caso di crederci. Il servizio del debito, come lo chiamano quelli bravi, si accompagna a un disservizio per la crescita. Ma sicuramente lo sapevate già.
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Cartolina. La fuga del dollaro

Ormai da diversi giorni si leggono sulla stampa pensosi articoli sullo yuan cinese che minaccia la supremazia del re dollaro. Tema ricorrente da un decennio almeno. E si racconta sempre la stessa storia: la Cina sta trasformando il sistema monetario internazionale. Ora, tutto è possibile, salvo capire quanto sia probabile. E nell’attesa che un qualsiasi esperto quoti queste probabilità, contentiamoci di osservare che le statistiche Bis, relative all’ultimo quarto del 2022, mostrano un notevole calo dei crediti internazionali, si parla di circa 1,4 trilioni, più o meno equamente divisi fra prestiti e derivati, una parte robusta dei quali sono in dollari. I crediti in dollari ai paesi emergenti, in particolare, sono diminuiti di 142 miliardi, il 6 per cento in meno su base annua, il peggior declino dal 2012, che non fu un anno finanziariamente felice, come sicuramente ricorda chi ha una memoria appena più estesa della sua timeline quotidiana. Le cause sono diverse. La Bis suggerisce da una parte il rialzo dei tassi Usa e il relativo apprezzamento della moneta americana. Ma qualunque siano le ragioni, che come non ci stanchiamo di ripetere hanno poca importanza, ciò che conta è il risultato. Più che una fuga dal dollaro dei paesi emergenti, ansiosi di buttarsi fra le braccia della Cina e della sua moneta inconvertibile, c’è una fuga del dollaro da queste economie. Cominciamo da qui.
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Cartolina. A tutto bond

Rimasti orfani delle banche centrali, in Europa ma anche altrove, i governi adesso dovranno convincere il settore privato ad assorbire la straordinaria quantità di bond che prima gli istituti di emissione compravano senza discutere ampliando le riserve della banche commerciali. Un mondo è finito e ne comincerà una nuovo. E se è saggio domandarsi come sarà, lo è meno provare a rispondere, magari agitando inutili ansie. Non dobbiamo preoccuparci del futuro. Dobbiamo semplicemente occuparcene, magari provando a costruirlo con il pratico esercizio del buon senso. Un grande programma, senza dubbio. E che sarebbe saggio, questo pure, iniziare subito. Prima iniziamo e meglio finiamo. Perché là fuori la realtà va a tutto gas. Anzi: a tutto bond.
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Cartolina. Le tasse degli immigrati

Un’altra di quelle cose che non si dice, un po’ perché non si può dire, un po’ perché s’ignora, è che in tutti i paesi Ocse il rapporto fra le tasse pagate dagli immigrati e i servizi che ne traggono è più alto di quello dei residenti indigeni. L’immigrato, insomma, dà al fisco più di quello che prende. Nel nostro paese questo rapporto, riferito al periodo 2006-18, vale addirittura 2,5, il livello più elevato del club. I motivi sono diversi, ma in gran parte ciò dipende dalla giovane età degli immigrati, che quindi non sono titolari di pensioni, ma semmai pagano i contributi ai nostri anziani, e utilizzano mediamente meno alcuni servizi, tipicamente quelli sanitari legati all’invecchiamento. Certo, un bel giorno anche questi immigrati invecchieranno e cominceranno a chiedere anche loro più sanità e pensioni. C’è da sperare che nel frattempo avremo capito che prima degli italiani vengono i diritti di chi vive e paga le tasse in Italia. E che perciò è saggio incoraggiare chi vuole venire da noi con buoni propositi. Fosse pure marziano. L’alternativa è avere, domani, sempre meno concittadini e ancor meno servizi pubblici. Questo non si dice un po’ perché non si può dire, un po’ perché s’ignora. Ma questo non impedisce che sia vero.
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Cartolina. La nostra precarietà

Gli appassionati del tema “precarietà”dovrebbero osservare con un briciolo d’attenzione l’evoluzione della nostra piramide demografica, ormai celeberrima da quando le autorità hanno dichiarato di voler affrontare il tema della denatalità. Vaste programme, direbbe qualcuno. Vi risparmio il solito corredo di argomenti che si sperticano nella ricerca delle cause, nella convinzione che da ciò ne deriveremo l’effetto di una politica congruente. Un buon argomento per le campagne elettorali. Ma non è questo il punto. Guardiamo la piramide, e basta. Osservate com’era ampia la base che sosteneva il nostro paese nel 1950 e come diventerà, ammesso che le previsioni abbiano senso, nel 2050. E poi soffermatevi su come è oggi. Non è poi così diversa da quella di domani. Comunica la stessa sensazione di instabilità. Tutta la società è divenuta precaria. Questa nuova precarietà, la nostra precarietà, la nascondiamo nel futuro sperando di cambiarla. Ma il futuro è adesso.
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Cartolina. La speranza del progresso

Quando chiediamo al mondo di fermarsi, o almeno di rallentare, perché non siamo più capaci di stare al passo, sappiamo esattamente cosa stiamo chiedendo? Perché il progresso, che evidentemente ormai ci è venuto a noia, non vuol dire solo inquinamento, globalizzazione, turboliberismo ed altre amenità che fanno orrore alle anime belle. Significa anche crescita della conoscenza, dei servizi, dell’offerta di benessere (e della domanda), ed altre amenità che hanno come indiretta conseguenza la crescita della speranza di vita alla nascita. Detto in parole povere, dove c’è progresso si vive di più. Un fatto che magari preoccuperà i teorici della decrescita (anche demografica) felice, ma non chi crede che insieme alla popolazione cresca la nostra capacità di gestire la complessità, e quindi in sostanza il progresso. La speranza è l’ultima a morire, dicono i proverbi. Quella del progresso ci sopravviverà.
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