Etichettato: tasso naturale di interesse

Se l’espansione del debito indebolisce la domanda


Poiché stiamo vivendo in un’epoca di incantamento, nella quale alcune magie, nella forma di narrazioni, ci tengono avvinti a una realtà immaginaria densa di mitologie, vale la pena leggere contro-narrazioni che hanno il pregio di farci dubitare di alcuni luoghi comuni, pure se magari al prezzo di altri. E il fatto che tali prodotti condividano con quelli che questionano l’ipoteca della scientificità, almeno nel senso che può avere tale qualità riferita al discorso sociale, li rende ancora più interessanti.

Perciò ci siamo appassionati alla lettura di un paper recente pubblicato dalla Bis di Basilea, che già dal titolo mette in dubbio uno dei pensieri magici più consolidati del nostro tempo. Ossia che di fronte a una crisi occorra spingere sul pedale del debito per non lasciarsi travolgere dal panico. Meccanismo che vediamo all’opera ormai da decenni.

L’argomento dei ricercatori l’abbiamo già incontrato altrove. Ma il pregio di questo studio è che guarda alla questione della trappola del debito partendo dalle condizioni di partenza che la motivano. Un altro pensiero magico ormai gettonatissimo: la diseguaglianza.

Proviamo a riepilogare, salvo poi guardare qualche dettaglio. Il punto saliente è che una quantità eccessiva di debito rischia di intrappolare una società in un (dis)equilibrio dove una domanda aggregata più bassa, proprio a causa dell’eccesso di indebitamento, porta al calo del tasso naturale di interesse, altra grandezza mitologica. Questo eccesso di debito, e questo è il punto centrale, è una conseguenza del fatto che chi prende a prestito e chi dà a prestito hanno una propensione al risparmio molto differente, che dipende dalla diseguaglianza di reddito.

Dalle loro osservazioni gli autori hanno dedotto che “le recenti tendenze nella disuguaglianza di reddito e nella deregolamentazione finanziaria portano alla domanda delle famiglie indebitate, abbassando il tasso di interesse naturale”. Come se non bastasse, “le popolari politiche di espansione monetaria generano boom di breve periodo finanziati a debito al costo però della domanda futura”. Questo a lungo andare fa scattare la trappola del debito: le economie sono costrette a convivere con una liquidità abbondante “intrappolata” nel senso che non dà più ossigeno al ciclo economico. L’eccesso di debito, inficiando la produttività, “mangia” la crescita.

Per uscire da questa trappola, spiegano, bisognerebbe puntare su politiche mirate meno convenzionali “come quelle mirate alla redistribuzione o quelle che riducono le fonti strutturali delle elevata diseguaglianza”: E questo ci riporta al terreno comune, per non dire luogo comune, che ormai affligge il nostro dibattito pubblico. Più redistribuzione (ossia riforma fiscale) implica meno diseguaglianza e quindi meno differenza fra prenditori e prestatori che riduce la necessità di indebitarsi troppo, e tutti vissero felici e contenti.

Le conclusioni, ovviamente, possono convincere o meno. Ma quel che conta è l’accuratezza dell’analisi, che contiene molti punti interessanti. Il primo dei quali è l’andamento indiretto fra debito e rendimento, ormai conclamato.

Negli Usa il debito complessivo delle famiglie e del governo è cresciuto di quasi il 100% del pil dal 1980 e i tassi reali pagati per questo debito sono diminuiti dal 3 al 5%. In pratica indebitarsi conviene sempre di più. Gli autori sono convinti che questo ambiente economico, vagamente tossico, sia stato determinato dalle diseguaglianza di reddito e della deregolamentazione finanziaria. Come che sia, rimane il fatto che questo in queste circostanze le politiche macroeconomiche tradizione, sia fiscali che monetarie (leggi: espansioni) sono meno efficaci. Al contrario quelle basate su redistribuzione, regolazione finanziaria, risoluzione delle questioni di fondo che originano diseguaglianza.

Perché, come abbiamo già osservato, alla base del modello sviluppato c’è l’idea che i risparmiatori mettano da parte nel corso della loro vita una quota molto maggiore del loro reddito rispetto ai debitori. “Questa non è un’idea nuova in economia. In effetti, è pervasiva in il lavoro di luminari come John Atkinson Hobson, Eugen von Bohm-Bawerk, Irving Fisher, e John Maynard Keynes”. Il problema, come diceva sempre Keynes, è che “la difficoltà non sta nelle idee nuove, ma nell’evadere dalle idee vecchie”. E a quanto pare non ne siamo ancora capaci.

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Nella mente (confusa) del central banking


Maestro della semplicità, che, come insegnava Karl Jaspers, è tutt’altro che la semplificazione, Claudio Borio, nella sua recente allocuzione sul futuro della politica monetaria, ci aiuta a entrare nella mente del central banking mettendo a fuoco tre ipotesi fondanti della modellistica che ne animano i ragionamenti. Li abbiamo intravisti tante volte, ma vale la pena approfittare della lezione di Borio per riepilogare. Serve a comprendere la visione del mondo di questi economisti, e soprattutto la logica sottintesa nelle loro scelte di policy.

La prima di queste convinzioni – Borio le chiama belief – è che “le fluttuazioni economiche riflettono shock esogeni piuttosto che intrinsecamente dinamiche instabili”. Questi shock, nella quale anche i fattori finanziari svolgono un ruolo, vengono assorbiti dall’economia, che tende a tornare verso il suo stato originario. Questa ipotesi, presa letteralmente, “mette fuorigioco il ciclo congiunturale nel quale l’espansione pianta i semi delle future contrazioni, e per estensione mette fuorigioco anche l’ipotesi che le politiche accomodative possano generare le condizioni per le contrazioni future”.

Secondo questo approccio, le politiche monetarie possono favorire le recessioni solo se consentono all’inflazione di crescere. Quindi “la stabilità dei prezzi è una condizione sufficiente per la stabilità macroeconomica”.

La seconda di queste convinzioni è che la politica monetaria abbia un impatto solo transitorio sull’economia reale. Che, di conseguenza, la moneta sia neutra. Una ipotesi che affonda le sue radici nella storia economica e che oggi è stabilmente insediata nel cuore dei modelli neo-keynesiani, che descrivono gli equilibri di lungo periodo “una volta che le rigidità nominali siano dissipate”.

A molti tutto ciò sembrerà esotico, ma il corollario di questo teorema è che la politica monetaria non abbia influenza sui tassi reali di interesse nel lungo periodo. Questi ultimi – i mitici tassi naturali di interesse – vengono fissati nel mercato dei beni, indipendentemente dalle politiche monetarie. E questo spiega perché le banche centrali manovrino con tanta disinvoltura i tassi nominali e perché abbiano preso piede teorie suggestive come quella della stagnazione secolare. E soprattutto perché le banche centrali operino seguendo il principio che “l’unico modo per la politica monetaria di guadagnare margine è aumentare l’inflazione, in modo che i tassi di interesse nominali possano aumentare insieme ad essa”.

La terza convinzione completa questo quadretto idilliaco e consiste nel ritenere molto rilevante il costo di una caduta persistente del livello dei prezzi: la deflazione. La paura della deflazione ha chiare origini storiche, evidentemente, e i modelli neo-keynesiani, che di questa paura secolare sono la risultante, incorporano questo timore ipotizzando un mondo che trovi un equilibrio di sotto-occupazione. Stile giapponese, per intenderci, dove ogni stimolo monetario finisce con l’essere intrappolato nella stessa liquidità che produce.

Ovviamente, dice Borio, queste convinzioni affondano le loro radici nei fatti. Ma è vero altresì che i fatti cambiano e almeno dai tempi della grande crisi finanziaria del 2008 i dubbi sulla fondatezza di queste convinzioni, o almeno sulla loro esaustività, sono cresciuti significativamente.

Il modello, tuttavia, non è cambiato. Servono tempo, analisi, e magari una nuova generazione di economisti che guardi al mondo con occhi differenti. Un processo lungo e complesso. Per capirlo basta ricordare che i modelli attuali solo il risultato di una ricerca teorica iniziata con l’opera di Keynes e raffinata nel corso di alcuni decenni, prima di diventare uno strumento operativo di uso comune. E nel frattempo, come dobbiamo cavarcela?

Allo stato attuale, se la prima di queste convinzioni inizia ad essere messa in dubbio, la seconda e la terza sono ancora graniticamente piantate nella testa dei banchieri centrali e dell’economia mainstream. Anzi, “per certi aspetti queste due credenze si sono anche rafforzate”. “Forse la Grande Depressione – suggerisce Borio – ha lasciato una profonda impronta nella mente delle persone”. E qui la sfida intellettuale si fa maggiormente cogente: cosa dovremmo fare qualora fossimo ragionevolmente certi che gli occhiali tramite i quali abbiamo osservato fino ad oggi il mondo, traendone immagini rassicuranti per quanto distorte, si dimostrassero alla prova dei fatti difettosi?

Quanto a questo, Borio mostra di nutrire diversi dubbi sulla correttezza di queste ipotesi fondanti e scorrendo le sue argomentazioni è molto difficile dargli torto. Facciamo un esempio: il costo deflazione. “Quanto è giustificato questo stretto legame tra deflazione e debolezza della produzione? La risposta è “meno di quanto si possa pensare”, spiega. E per illustrare questa conclusione cita uno degli effetti della globalizzazione: “Un aumento della forza lavoro o miglioramenti tecnologici spostano la curva di offerta aggregata verso l’esterno: i prezzi scendono e la produzione aumenta”. Per fare un esempio più vicino alla nostra comprensione dei fatti, pensate a quanto siano diminuiti i prezzi degli smartphone e dei computer e chiedetevi se questo abbia diminuito o piuttosto favorito la loro produzione. “Non bisogna neanche andare troppo lontano nella storia per trovare episodi di deflazione “benigna” – conclude -. Negli anni recenti Cina, Norvegia e Svizzera, fra gli altri, sono casi calzanti”.

Ed ecco perciò il problema: abbiamo un modello che ci dice cosa è giusto e cosa è sbagliato, che però si rivela sempre meno adatto a comprendere il presente, e figuriamoci il futuro. Cambiarlo è molto difficile, e quantomeno serviranno anni, ammesso che altri come Borio inizino a questionarlo.

Nel frattempo le banche centrali devono ritrovare spazi di manovra per avere munizioni da utilizzare nella lunga fase di transizione verso la normalità, ammesso che se ne possa parlare. E questo, aldilà delle questioni teoriche che pure sono seducenti, è il cuore della questione sollevata dal nostro economista. E questo richiederà decisioni difficili, non solo da attuare, ma soprattutto da spiegare.

Ma, “per fare progressi”, conclude Borio citando il fisico Richard Feynman, “bisogna lasciare socchiusa la porta dell’ignoto”. Il problema è spiegarlo correttamente ai mercati, che ormai sono central-banking-dipendenti. E che di ignoto non vogliono neanche sentir parlare.

(2/fine)

Puntata precedente: Ritorno al futuro per il central banking

Il calo del tasso naturale di interesse non risparmia neanche la Cina


Un modo interessante per valutare l’intensità del coinvolgimento cinese nella globalizzazione avvenuto nell’ultimo ventennio è osservare come anche la Cina abbia registrato una crescente sensibilità all’andamento internazionale del tasso naturale di interesse. Parliamo di quel tasso, squisitamente teorico, che permette all’output potenziale di essere uguale a quello effettivo a fronte di un livello stabile di inflazione nel medio periodo, semplificando la definizione che ne diede Wicksell nel lontano 1936.

Il punto qui, però, non è teorico ma squisitamente politico. Se anche in Cina si osserva il declino del tasso naturale che caratterizza le economie avanzate – che si collega alla nota narrazione sulla stagnazione secolare – allora vuol dire che l’economia cinese, malgrado conduca una politica monetaria ancora molto condizionata dall’inconvertibilità della moneta, è perfettamente inserita nel contesto globale. O, il che è la stessa cosa, che il contesto globale influenza i fattori monetari anche di economie che sembrano impermeabili come quella cinese. La globalizzazione del declino dei tassi naturali, insomma, non risparmia neanche le economia pianificate.

Questo è almeno sembra essere il senso di un paper diffuso di recente dalla Bis che fotografa proprio l’andamento del tasso naturale cinese, che com’è noto non può essere misurato ma stimato, risiedendo in questa caratteristica una delle peculiarità di questa raffinata mitologia.

Il presupposto che spiega questa “sensibilità” cinese agli andamenti globali del tasso naturale forse risiede proprio nella Grande Trasformazione che l’economia cinese ha intrapreso nell’ultimo ventennio, e che ha coinvolto anche la politica monetaria di Pechino. La Cina ha di fatto cambiato paradigma, passando da strumenti di controllo degli aggregati monetari all’uso crescente della manovra del tasso di interesse. In sostanza, la Cina è passata da una rigida pianificazione del credito a un modo di controllo più somigliante a quello occidentale.

Questa evoluzione si è consumata fra il 1984, quando la People Bank of China (PBC) iniziò a funzionare come una banca centrale, e il 2009, quando la Banca iniziò a impostare una politica monetaria basata su tassi di interesse orientati al mercato.

“Attualmente, – scrivono gli autori del paper – la PBC utilizza una combinazione di strumenti di politica monetaria basati sul prezzo e sulla quantità, nonché strumenti macroprudenziali. Questa combinazione si è dimostrata efficace nel raggiungere gli obiettivi chiave della PBC di garantire la stabilità dei prezzi e promuovere la crescita economica”. La PBC è ancora impegnata nella modernizzazione dei propri strumenti in chiave “mercatistica”. Nel 2019, ad esempio, ha riformato il Loan Prime Rate (LPR) per orientarlo maggiormente alla logica del mercato.

Questi cambiamenti hanno avuto chiari effetti sull’andamento del tasso naturale stimato dagli autori del paper. I grafici sotto riepilogano le variabili prese in considerazione.

Le conclusioni sono invece osservabili dal grafico sotto.

In sostanza, “il calo tendenziale stimato del tasso di interesse naturale cinese rispecchia quello osservato in altre economie”.

Il tasso naturale cinese ha avuto una media del 3-5% fra il 1995 e il 2010 per poi declinare fino al 2% a fine 2019, che con un’inflazione al 2-3% implica un tasso nominale del 4-5%. La globalizzazione dei tassi bassi, insomma, non risparmia la Cina. O, per meglio dire, la globalizzazione tout court.

Cartolina. Il tasso innaturale di interesse


Sarà pur vero, come ha detto di recente il governatore della Fed Jerome Powell, che l’r-star, ossia il tasso reale di equilibrio, o tasso naturale, non dipende dalla politica monetaria ma dalle condizioni generali dell’economia. Sarà vero ma ci credo poco, visto che i fatti mostrano con chiarezza che l’inabissarsi del tasso avviene nella seconda metà del primo decennio del XXI secolo, quando la Fed, che pure dice di non poter influenzare questa grandezza economica, ha azzerato i tassi di riferimento e iniziato ad acquistare asset con manica larghissima. E poiché non convince l’idea che la demografia, la globalizzazione, o la stagnazione secolare abbiano iniziato a farsi sentire nell’ultimo decennio, dopo che nei trent’anni precendenti hanno dormicchiato, rimane il sospetto che la Fed, che pure dice di non entrarci, alla fin fine c’entri e che la caduta dei tassi abbia ben poco di naturale. Forse lo pensa anche Powell. Ma di ciò di cui non si può parlare, diceva il filosofo, si deve tacere. Aiuta a crederci.

L’inflazione non è morta. Si adegua


L’inflazione è morta, viva l’inflazione, si potrebbe dire a commento di un pezzo dell’Economist dedicato al grande mistero economico di inizio secolo: la sostanziale scomparsa dell’inflazione. Una sorta di Eldorado per un banchiere centrale degli anni ’70. Una specie di inferno per il banchiere centrale di oggi, che sin dai tempi della deflazione giapponese degli anni ’90 prova in tutti i modi a far accelerare i prezzi. Con poco successo, peraltro. L’inflazione s’impigrisce, con ciò suscitando dubbi crescenti sull’efficacia del central banking.

Ma quanto sia problematico oggi il lavoro di banchiere centrale lo spiegato un paio di anni fa Claudio Borio, capo del Dipartimento economico e monetario della Bri di Basilea. Le banche centrali devono provare a guidare i tassi di interessi verso il tasso naturale – una delle tante astrazioni del pensiero economico – usando come bussola i segnali che provengono dalla curva di Phillips. Ossia la relazione che lega il livello dell’occupazione con quello dell’inflazione. Situazioni di piena occupazione si associano solitamente a livelli più elevati di inflazione e viceversa.

Senonché la curva sembra abbia smesso di funzionare. Abbiamo economie in sostanziale piena occupazione – sempre il Giappone ad esempio – dove i prezzi rallentano. Si può ipotizzare lo sprofondamento del tasso naturale – uno dei fondamenti della teoria della stagnazione secolare – che rende necessario azzerare i tassi di riferimento. Oppure, come suggerisce Borio, guardare ad altri fattori: la tecnologia e la globalizzazione.

Quest’ultima ha aggiunto circa 1,6 miliardi di persone al mercato del lavoro mondiale e insieme ridotto il peso specifico dei “nostri” mercati del lavoro. Molti studi mostrano che la componente “globale” che determina il livello generale dei prezzi pesa sempre di più sui costi unitari del lavoro. In sostanza “importiamo” deflazione. E il progresso tecnico – si pensi al crescente utilizzo dei robot – ha fatto il resto. Forse l’inflazione non è morta. Si sta adeguando.

Miti del nostro tempo: La curva di Phillips fuorimoda


Comprendere la mitologia del tasso naturale di interesse, lo abbiamo visto, serve a capire meglio il lavoro delle banche centrali che usano la manovra dei tassi per raggiungere un target di inflazione, nell’ipotesi che nel lungo periodo il tasso reale finirà col seguire quello naturale. Ipotesi alquanto ardita, che ne presuppone un’altra, ossia che nel lungo periodo la moneta sia neutrale rispetto all’andamento dell’economia reale. L’inflazione “è la bussola”, per citare un recente intervento di Claudio Borio, capo del dipartimento economico e monetario della Bis, “che dovrebbe dirci dove si trova il tasso naturale di interesse”. Senonché il tasso di inflazione riferisce a un’altra mitologia, collegata stavolta a quella dell’occupazione e quindi dell’output, che dura da diversi decenni e che ancora informa la modellistica delle banche centrali (e non solo), quella della curva di Phillips. Si tratta come molti sanno di uno strumento statistico che incorpora la teoria secondo la quale esiste una correlazione fra il livello dell’occupazione e quello dell’inflazione. Situazioni di piena occupazione, determinando tensioni sul livello dei salari e quindi sulla domanda finale, si associano solitamente a livelli più elevati di inflazione, e viceversa. Questo ricamino logico ha abbellito il nostro dibattere pubblico per un cinquantennio abbondante, sin dai tempi in cui i governi erano ben lieti di pagare con l’inflazione la loro promessa della piena occupazione, uno dei cardini del patto sociale siglato con le popolazioni nel secondo dopoguerra. I modellini econometrici costruiti sulla base dell’ipotesi della curva di Phillips arrivano a dire che grado di inflazione puoi aspettarti con un tot di disoccupazione e quindi calcolare anche il prezzo della piena occupazione in termini di inflazione. Un vero bengodi per gli economisti e i governi.

Come tutte le mitologie, però, anche quella della curva di Phillips è entrata lentamente in crisi, una volta che qualcuno ha iniziato ad osservare che forse sull’inflazione sappiamo meno di quello che siamo abituati a credere. Nel suo speech, Borio solleva un paio di questioni che non possono essere ignorate e che si sostanziano nell’ipotesi che “stiamo sottostimando l’influenza che i fattori reali hanno sull’inflazione, anche su orizzonti lunghi”. Tale atteggiamento mentale è il frutto di un’altra mitologia che ha informato le nostre credenze economiche, frutto di un’altra moda culturale seguita a quella della curva di Phillips: il monetarismo di Milton Friedman. La famosa affermazione di quest’ultimo, secondo la quale l’inflazione è sempre un fenomeno monetario, sottolinea Borio, “dovrebbe essere più sfumata”.

Perché? “Il comportamento dell’inflazione è sta diventando sempre più difficile da capire – dice Borio – Se si è completamente onesti, è difficile evitare la domanda: quanto davvero sappiamo del processo inflazionistico?”. Perché è evidente che mentre tutti sanno cosa sia l’inflazione – la crescita dei prezzi – oggi assai meno sono sicuri di sapere cosa la determini. “Dopotutto – aggiunge Borio – dall’inizio della crisi finanziaria i policy maker sono stati ripetutamente sorpresi. Nella fase di recessione, l’inflazione è stata maggiore del previsto, considerando la profondità del crollo. Durante la successiva ripresa, in generale, è stata inferiore al previsto. E nonostante gli enormi sforzi per farla risalire, è rimasta ostinatamente bassa”. I dispetti dell’inflazione, insomma, hanno provocato la crisi di gran parte dei modelli interpretativi usati dagli osservatori per comprendere la realtà. La curva di Phillips si è appiattita, ha detto qualche economista, forse l’inflazione non dipende solo dalla moneta. Conclusione: boh.

Una buona spiegazione forse la troviamo se guardiamo la storia. Borio ricorda che la comprensione dell’inflazione è stato sempre uno dei compiti più difficile della professione degli economisti e ricorda il lavoro di Charles Goodhart che di recente ha isolato le tre “mode” che dagli anni ’50 ad oggi hanno convinto di volta in volta tutti di aver finalmente capito l’inflazione. Fra gli anni ’50 e i ’70 il focus era sul mercato del lavoro e il relativi accordi contrattuali, con pochi riferimenti alla domanda aggregata. Dalla fine degli anni ’70 ai primi anni ’90 divennero di moda la moneta e gli aggregati monetari. Dall’inizio dei ’90 sono diventati celebri il NAIRU (non-accelerating inflation rate of unemployment) e il ruolo delle aspettative, che si hanno condotto alla “prominenza nelle previsioni della curva di Phillips nei quadri analiti predominanti di oggi”. Ma “potrebbe essere che sappiamo meno di quello che pensiamo? Possiamo aver sovrastimato la nostra capacità di controllare l’inflazione, o almeno di cosa servirebbe per farlo?”. Detto in altre parole, per cominciare a capire bisogna partire da un sacrosanto bagno di umiltà. E da osservazioni non viziate dalla mitologia.

La prima di queste osservazioni che Borio propone è che il collegamento fra le risorse inutilizzate domestiche e l’inflazione “si è dimostrato piuttosto debole almeno per un paio di decenni”. O meglio “se uno si sforza abbastanza si può anche trovare, ma non è quel tipo di relazione che si può definire robusta”. Si può piegare la realtà alla mitologia, ma poi si finisce con non capirci niente, questo è il punto. Infatti le osservazioni statistiche mostrano che “la risposta all’inflazione come misura delle sottoutilizzazioni nel mercato del lavoro tende a declinare nel tempo fino a diventare statisticamente indistinguibile da zero”. Eccola qui la curva che si appiattisce. Come si può osservare, l’appiattimento della curva inizia dagli anni ’90. “Sorprendentemente, una risposta debole dei salari alle condizioni economiche è risultata in grande evidenza recentemente in molte economie avanzate. I mercati dei lavoro sono risultati molto tesi secondo gli indicatori tradizionali, ma la crescita dei salari è rimasta anemica. Come possiamo spiegare questi andamenti?”. Di recente ci ha provato anche il Fmi, notando come alla crescita degli indici di occupazione abbia corrisposto un aumento delle forme contrattuali atipiche. E questa può essere una pista interessante da seguire. Ma anche il seguito del discorso di Borio lo è.

La spiegazione più popolare, ricorda, è che la grande credibilità anti inflazione guadagnata dalle banche centrali, di recente la BoE ha festeggiato i vent’anni della sua indipendenza, ha contribuito ad “ancorare” le aspettative dell’inflazione al ribasso, staccandole dalla relazione salari/prezzi. Ma forse anche altre ipotesi andrebbero considerate. “È ragionevole – si chiede Borio – credere che il processo di inflazione sia rimasto immune all’entrata nell’economia globale dell’ex blocco sovietico e della Cina e all’apertura delle altre economie di mercato emergenti?” Stiamo parlando di circa 1,6 miliardi di persone che si sono aggiunte alla forza lavoro globale col risultato che il peso specifico della forza lavoro nelle economie avanzate si è ridotto notevolmente, addirittura a metà di quello che era prima nel 2015. Ciò significa che, su scala globale, i “nostri” mercati del lavoro pesano di meno sulle dinamiche globali. “Allo stesso modo, possiamo essere rimasti immuni agli sviluppi tecnologici che hanno consentito la delocalizzazione della produzioni di beni e servizi in tutto il mondo?”. Ed eccoli due possibili candidati che hanno fatto finire fuori moda la curva di Phillips: la globalizzazione dei mercati del lavoro e la tecnologia. “Sappiano che i lavoratori non devono più soltanto competere con chi è più vicino a loro, ma anche con i lavoratori all’estero”. Detto altrimenti, l’influenza degli effetti della globalizzazione potrebbero essere di tipo simmetrico e asimmetrico insieme sull’inflazione. Nel primo caso, “ipotizzando una curva di Phillips globale, ci si potrebbe aspettare che eventuali risorse inutilizzate a livello domestico siano una misura insufficiente delle pressioni inflazionistiche o disinflazionistiche: conterebbero pure le risorse inutilizzate a livello globale”. Nel secondo caso “si potrebbe ipotizzare che l’ingresso nel mercato di produttori e lavoratori a basso costo generi una pressione persistente al ribasso sull’inflazione, specialmente nelle economie avanzate almeno finché i costi non convergano”.

Fin qui la teoria. Ma che dice la prassi? “Molti studi hanno mostrato che la componente globale dell’inflazione è cresciuta costantemente nel tempo”. Le ragioni possono essere diverse “incluse la diffusione dell’inflation targeting, un ovvio candidato”. Questo grafico mostra come sia cresciuta l ‘influenza dei fenomeni globali sull’andamento del costo unitario del lavoro dagli anni ’80 ad oggi. Altri studi, fondati sull’analisi della catene globali di valore mostrano un meccanismo simile all’opera. Ma non è l’unico. Sono stati svolti diversi studi e i risultati mostrano che il grande shock della globalizzazione, iniziato all’incirca nei primi anni del ’90 ha contribuito in grande misura a far finire fuori moda la vecchia curva di Phillips. Altre dinamiche sono all’opera e molte sono quelle che conosciamo poco, a cominciare dall’influenza che il progresso tecnologico avrà sull’economia. Si pensi alle polemiche e alle paure che solleva il tema dello sviluppo dei robot. Una cosa però dovremmo darla per intesa: i fatti dell’economia reale, un’economia che si sviluppa su scala globale ed è caratterizzata da una forte componente tecnologica, pesano eccome sugli andamenti dell’inflazione. In fondo il bravo Phillips scriveva negli anni ’50. E’ tempo di farlo riposare in pace.

(2/fine)

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