Se l’espansione del debito indebolisce la domanda

Poiché stiamo vivendo in un’epoca di incantamento, nella quale alcune magie, nella forma di narrazioni, ci tengono avvinti a una realtà immaginaria densa di mitologie, vale la pena leggere contro-narrazioni che hanno il pregio di farci dubitare di alcuni luoghi comuni, pure se magari al prezzo di altri. E il fatto che tali prodotti condividano con quelli che questionano l’ipoteca della scientificità, almeno nel senso che può avere tale qualità riferita al discorso sociale, li rende ancora più interessanti.

Perciò ci siamo appassionati alla lettura di un paper recente pubblicato dalla Bis di Basilea, che già dal titolo mette in dubbio uno dei pensieri magici più consolidati del nostro tempo. Ossia che di fronte a una crisi occorra spingere sul pedale del debito per non lasciarsi travolgere dal panico. Meccanismo che vediamo all’opera ormai da decenni.

L’argomento dei ricercatori l’abbiamo già incontrato altrove. Ma il pregio di questo studio è che guarda alla questione della trappola del debito partendo dalle condizioni di partenza che la motivano. Un altro pensiero magico ormai gettonatissimo: la diseguaglianza.

Proviamo a riepilogare, salvo poi guardare qualche dettaglio. Il punto saliente è che una quantità eccessiva di debito rischia di intrappolare una società in un (dis)equilibrio dove una domanda aggregata più bassa, proprio a causa dell’eccesso di indebitamento, porta al calo del tasso naturale di interesse, altra grandezza mitologica. Questo eccesso di debito, e questo è il punto centrale, è una conseguenza del fatto che chi prende a prestito e chi dà a prestito hanno una propensione al risparmio molto differente, che dipende dalla diseguaglianza di reddito.

Dalle loro osservazioni gli autori hanno dedotto che “le recenti tendenze nella disuguaglianza di reddito e nella deregolamentazione finanziaria portano alla domanda delle famiglie indebitate, abbassando il tasso di interesse naturale”. Come se non bastasse, “le popolari politiche di espansione monetaria generano boom di breve periodo finanziati a debito al costo però della domanda futura”. Questo a lungo andare fa scattare la trappola del debito: le economie sono costrette a convivere con una liquidità abbondante “intrappolata” nel senso che non dà più ossigeno al ciclo economico. L’eccesso di debito, inficiando la produttività, “mangia” la crescita.

Per uscire da questa trappola, spiegano, bisognerebbe puntare su politiche mirate meno convenzionali “come quelle mirate alla redistribuzione o quelle che riducono le fonti strutturali delle elevata diseguaglianza”: E questo ci riporta al terreno comune, per non dire luogo comune, che ormai affligge il nostro dibattito pubblico. Più redistribuzione (ossia riforma fiscale) implica meno diseguaglianza e quindi meno differenza fra prenditori e prestatori che riduce la necessità di indebitarsi troppo, e tutti vissero felici e contenti.

Le conclusioni, ovviamente, possono convincere o meno. Ma quel che conta è l’accuratezza dell’analisi, che contiene molti punti interessanti. Il primo dei quali è l’andamento indiretto fra debito e rendimento, ormai conclamato.

Negli Usa il debito complessivo delle famiglie e del governo è cresciuto di quasi il 100% del pil dal 1980 e i tassi reali pagati per questo debito sono diminuiti dal 3 al 5%. In pratica indebitarsi conviene sempre di più. Gli autori sono convinti che questo ambiente economico, vagamente tossico, sia stato determinato dalle diseguaglianza di reddito e della deregolamentazione finanziaria. Come che sia, rimane il fatto che questo in queste circostanze le politiche macroeconomiche tradizione, sia fiscali che monetarie (leggi: espansioni) sono meno efficaci. Al contrario quelle basate su redistribuzione, regolazione finanziaria, risoluzione delle questioni di fondo che originano diseguaglianza.

Perché, come abbiamo già osservato, alla base del modello sviluppato c’è l’idea che i risparmiatori mettano da parte nel corso della loro vita una quota molto maggiore del loro reddito rispetto ai debitori. “Questa non è un’idea nuova in economia. In effetti, è pervasiva in il lavoro di luminari come John Atkinson Hobson, Eugen von Bohm-Bawerk, Irving Fisher, e John Maynard Keynes”. Il problema, come diceva sempre Keynes, è che “la difficoltà non sta nelle idee nuove, ma nell’evadere dalle idee vecchie”. E a quanto pare non ne siamo ancora capaci.

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