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Le banche centrali fanno aumentare la disuguaglianza
Poiché la disuguaglianza è tornata di moda, forse perché aumenta, molti ne scrivono e ancor di più si interrogano sul perché e sul percome tale sgradevole controindicazione continui ad abitare il meraviglioso mondo magico che ci ostiniamo a credere sia, o dovrebbe essere, il nostro.
Nulla di strano che tale arrovellarsi finisca col coinvolgere anche i nostri banchieri centrali, ormai veri e propri virgilii nell’inferno della contemporaneità, che adesso si chiedono se, hai visto mai, la loro dissennata politica dei tassi a zero, e anzi negativi, non finisca per avere effetti redistribuitivi che sono del tutto esorbitanti rispetto ai compiti di una banca centrale. che dovrebbero limitarsi alla stabilità dei prezzi, come è il caso della Bce, o al più alla stabilità finanziaria e del mercato interno, come si spingono a fare la Fed e la Boj.
L’ultimo ad arrovellarsi sul tema Banche centrali&disuguaglianza è stato Yves Mersch, componente del board della Bce, ultima arrivata, ma non per questo meno espansiva, fra le banche centrali che hanno deciso/dovuto fare uno straordinario allentamento monetario per provare a rimettere in equilibrio le stanche economie dei loro paesi, pigre e deflazionarie come mai negli ultimi anni.
Il tema della disuguaglianza si collega proprio a questo. O meglio alla risposta alla domanda se la politica monetaria abbia o no effetti redistributivi. La qualcosa parrà quantomeno astrusa a quelli come noi, che usano il buon senso del padre di famiglia, mentre è di primissimo interesse per i nostri banchieri centrali che, sbirciando fuori dalla loro torre eburnea si accorgono adesso che effettivamente mettere i tassi in territorio negativo, far gonfiare i prezzi degli asset e compagnia cantante, è molto probabile interferisca sulla distribuzione della ricchezza.
Ma per comprendere il punto di vista di Mersch bisogna provare a mettersi nei panni di un banchiere centrale. “Finora – spiega – il tema della disuguaglianza non ha fatto parte dell’analisi della politiche monetaria. Ma questo può cambiare”.
E le ragioni son presto dette. “L’aumento della disuguaglianza ha impatto sulla stabilità finanziaria”, sottolinea, e alcune evidenze fattuali mostrano come sia possibile un collegamento fra disuguaglianza e crisi finanziarie. Ma soprattutto, Mersch riconosce l’evidenza che agire sui tassi di interesse ha di per sé effetti redistributivi.
Abbassare i tassi può essere un vantaggio per i debitori, che pagano meno interessi, ma altrettanto per i creditori, che vedono salire i prezzi degli asset. Costoro d’altronde, se hanno investito in asset “sicuri” quanto possono esserlo oggi gli asset, ad esempio depositi od obbligazioni, rischiano di essere penalizzati da una politica di tassi bassi, esattamente come può succedere ai debitori, specie quelli che appartengono alla fascia più povera della popolazione, che magari a causa delle frizioni economiche che rendono necessaria tale politica, perdono il lavoro.
Uno studio del Nber di qualche anno ricordato da Mersch fa individua almeno cinque canali attraverso i quali la politica monetaria impatta sulla distribuzione del reddito. Una politica monetaria espansiva che faccia salire i profitti più dei salari, ad esempio, avvantaggia quelle persone che ricevono i loro guadagni dagli affari o dalla finanza, che evidentemente sono già i più ricchi della popolazione e che perciò lo diventano ancor di più.
Al tempo stesso tale politica avvantaggia i cittadini più a loro agio con i mercati finanziari, che, incidentalmente, sono sempre i più ricchi. Inoltre, poiché i cittadini a più basso reddito hanno generalmente la tendenza a accumulare la poca liquidità che hanno, magari tendendola in banca, i potenziali effetti inflazionistici originati dall’azione delle banche centrali rischiano di tradursi in un effettivo trasferimento di ricchezza da loro ai più ricchi. Senza contare che una politica di tassi bassi colpirà anche il rendimento dei loro conti correnti.
Tali assunzioni teoriche hanno trovato una prima conferma sperimentale stimando gli effetti della politica monetaria sulla redistribuzione negli Usa a partire dal 1980. L’analisi ha mostrato una certa sensitività della disuguaglianza alle politiche a tasso zero che, addirittura, hanno effetti simili, quando l’economia richiederebbe tassi negativi, a quando si adottino politiche restrittive.
Un rapporto del McKinsey global institute di un anno fa ha stimato che l’ambiente di tassi bassi nelle principali economia globali (Usa, Uk e EZ) ha determinato minori incassi per 630 miliardi per i depositanti e gli obbligazionisti. A tali perdite, corrispondono evidenti guadagni per le banche, che su tali conti correnti hanno risparmiato, e per chi emette obbligazioni, stati in testa. Ma tali perdite, avvisa Mersch, possono essere annullate dall’aumento del prezzo degli asset che la politica monetaria porta con sé.
Un altro studio di James Bullard, presidente della Fed di San Louis, è arrivato alla conclusione che la politica di quantitative easing della Fed ha depresso i rendimento degli asset sicuri, spingendo quindi i cittadini verso gli asset più rischiosi, ossia tutto il contrario della stabilità finanziaria che pure le banche centrali dovrebbero monitorare. E poiché le azioni sono possedute soltanto da metà della popolazione, e sono concentrate fra i più ricchi, il QE ha finito col migliorare la loro posizione relativa.
Se guardiamo al Giappone, che da un ventennio prova a uscire dalla deflazione pompando liquidità nel sistema finanziario, quello che se ne trae è un’altra conferma. Una ricerca di Ayako Saiki e Jon Frost alla De Nederlandsche Bank ha evidenziato come queste politiche non convenzionali siano servite allo scopo di far ripartire l’economia, ma al prezzo però di un più elevata disuguaglianza tramite il cosiddetto “canale di portafoglio”, ossia il meccanismo che abbiamo visto agisce quando l’aumento della base monetaria tende ad aumentare il valore degli asset. I soldi fanno soldi, dicevano gli antichi. Con l’avvertenza che tali effetti potrebbero essere ancora più grandi in Europa, Usa e Gran Bretagna, dove le famiglie hanno attivi di portafoglio in azioni e bond anche maggiori rispetto al Giappone.
A proposito. Nell’eurozona la Bce ha messo in piedi una database con i dati di 62.000 famiglie di 15 paesi. Le prime analisi mostrano che fra il 2008 e il 2013 le famiglie a maggior reddito sono quelle che hanno sofferto le maggiori perdite di ricchezza, ma al tempo stesso le famiglie più povere sono state penalizzate dal notevole aumento della disoccupazione, che ha abbattuto anche indirettamente i loro redditi. Insomma; se i ricchi perdono capitale, ma i poveri il lavoro, il risultato finale è comunque un aumento della disuguaglianza, atteso che è più facile recuperare una perdita sulle azioni, tramite il canale del portafoglio, piuttosto che ritrovare un lavoro.
La disarmante conclusione di Mersch è che le banche centrali devono essere consapevoli che provocano conseguenze distributive con le loro politiche monetarie che, di recente, hanno sortito come conseguenza l’aver fatto aumentare la diseguaglianza, anche se lui dice che questa conclusione “non ha ancora una chiara evidenza”. “Tuttavia – aggiunge – le politiche non convenzionali, e in particolare il largo acquisto di asset, sembrano aumentare la diseguaglianza, anche se è difficile stabilire in che quantità”. Questa “controindicazione distributiva deve essere tollerata”, aggiunge, “ma chiaramente non deve durare e questa deve essere un’altra ragione per riconoscere che queste misure di politica monetaria non standard devono essere temporanee”.
Insomma; le banche centrali stanno contribuendo all’aumento della disuglianza, ma vorrebbero tanto non farlo.
Notoriamente, di buone intenzioni è lastricato l’inferno.
Cingolati valutari per l’avanzata cinese
Tutto il mondo conosce la capienza delle riserve valutarie cinesi, che a fine 2011 quotavano circa 3.200 miliardi di dollari, in larga parte espresse in valuta estera. Di meno si sa del grande flusso di investimenti esteri che la Repubblica popolare ha disseminato in mezzo mondo.
Eppure il tema è assai rilevante, visto che è chiaro a tutti che le politiche di investimento hanno molto più a che fare con la geopolitica che con la ricerca di rendimenti soddisfacenti. Se un paese investe in un altro, difficilmente lo farà per spuntare solo un buon rendimento. Era già così ai tempi della prima grande globalizzazione, fra il 1870 e il 1914, quando il flusso globale degli investimenti esteri, che era ben poca cosa rispetto ad oggi (circa il 55% del Pil delle maggiori economie, rispetto al 160% raggiunto ai nostri giorni), orientava politiche di alleanze e partnership commerciali.
A fare i conti in tasca agli investitori cinesi ci ha pensato il McKinsey Global Institute che al tema ha dedicato un capitolo del suo corposo rapporto sul futuro della globalizzazione finanziaria presentato qualche giorno fa.
Viene fuori che, sempre fine 2011, il governo cinese aveva asset esteri per circa 1.500 miliardi. Il dato interessante è che la gran parte di questi asset sono detenuti nei paesi sviluppati, mentre la gran parte dei prestiti concessi, circa 838 miliardi di dollari, sono impegnati nei paesi in via di sviluppo.
Quindi i cinesi “comprano” asset nei paesi sviluppati, e prestano risorse ai paesi in via di sviluppo.
Questa strategia a tenaglia ha il doppio vantaggio, da un parte, di assicurarsi partecipazioni in settori strategici dei paesi sviluppati, e di orientare le politiche economiche nei paesi in via di sviluppo.
Per dare un’idea come l’avanzata delle armate cinesi, condotta con carri armati gonfi di dollari, sia cresciuta esponenzialmente negli ultimi anni, basta solo un dato: le aziende cinesi avevano investimenti all’estero per appena 33 miliardi nel 2000. A fine 2011 erano già 364 miliardi, oltre dieci volte tanto.
Interessante anche capire quali siano i paesi destinatari di tanta generosità. Il primo della lista è il Venezuela, che fra il 2005 e il 2011 ha assorbito il 38,5% dei prestiti cinesi. Secondo, il Brasile, con l’11,5%. In questo caso la scelta è facilmente comprensibile, visto che sono paesi esportatori di quelle materie prime di cui la Cina ha un disperato bisogno.
Ma il fatto si fa ancor più curioso se si osserva come la Cina abbia proprio un debole per l’America Latina, che con il 13% del totale dei prestiti riscossi guadagna il secondo posto fra i destinatari dei prestiti cinesi (al primo ci sono i paesi emergenti dell’area asiatica con il 15%).
Dopo il Brasile, infatti, nella classifica c’è l’Argentina, con il 10% del totale dei prestiti cinesi. Poi l’Ecuador (6,3%), il Perù (2,2%), il Messico (1%). Qualcosina è andato anche alle Bahamas (2,2%). Da un punto di vista strategico è come se la Cina avesse piazzato i suoi carri armati di dollari proprio ai confini dell’impero americano.
Il dettaglio non è sfuggito ai tecnici del McKinsey, che infatti notano come il totale degli investimenti cinesi nell’area latinoamericana abbia superato di gran lunga quelli della Banca Mondiale e persino quelli della Banca dello sviluppo Inter-americana. Con un picco, per giunta, proprio a partire dal 2007, quando gli investimenti nell’area aumentano del 350%.
Dopo, con l’11% del totale dei prestiti, viene l’Africa, con preferenza anche qui per i paesi che hanno a che fare con le commodity, petrolio in testa.
Che la strategia cinese corrisponda a un preciso posizionamento geopolitico, lo dimostra anche il confronto con quello che fanno gli altri paesi gonfi di riserve, ad esempio quelli mediorientali. Questi ultimi limitano la loro attività “filantropica” ai paesi vicini, o, al limite al Nord Africa. Un emiro si guarda bene di prestare soldi ai satelliti americani.
Al contrario dei cinesi.
C’era un volta la globalizzazione finanziaria
Siamo a un bivio, evidentemente. Da una parte una fame crescente di risorse da parte di entità pubbliche e private (stati, famiglie, corporation), alle prese con il necessario rifinanziamento del proprio debito, dall’altra una paura crescente di prestare. Il mercato finanziario globale assomiglia, dal 2007 in poi, a una vecchia carriola arrugginita che se pure si carica sulle proprie ruote montagne di dollari di asset, sembra fatichi sempre più a camminare.
Fra il 2007 e il 2012 la crescita di tali asset, quindi degli scambi di capitale che essi sottintendono, è stata di appena l’1,9%, quando fra il 2000 e il 2007 gli asset crescevano al ritmo dell’8,1%, addirittura più di quanto erano cresciuti fra il 1990 e il 2000 (7,8%).
A metà del 2012, scrive il McKinsey Global Institute, che al tema ha dedicato un ampio e approfondito studio, gli asset finanziari globali ammontavano a 225 trilioni di dollari (225.000 miliardi). Tali asset comprendono le capitalizzazioni di borsa, i titoli di debito (bond) statali o aziendali e i prestiti. Nel 1980 erano appena 12 trilioni. Quindi gli asset si sono moltiplicati quasi per venti. Cosa è successo nel frattempo?
Sostanzialmente sono stati liberalizzati i mercati dei capitali. Le politiche reaganiane dell’inizio degli anni ’80 negli Usa, i primi faticosi passi nell’Eurozona per l’unificazione monetaria che culmineranno nello Sme, l’euforia bancaria nella moltiplicazione del credito. Flussi imponenti di capitali iniziano a muoversi da e verso paesi esportatori e importatori, sorretti dal progresso tecnologico, che facilita le transazioni, e dalla generosità dei mercati.
E’ interessante anche vedere come si è evoluta la composione di tali asset. Nel 1990 il totale era già arrivati a quota 56 trilioni, pari al 263% del Pil mondiale dell’epoca. Di questi, 23 trilioni, ossia il 41,1% erano prestiti; 5 trilioni, ossia l’8,9% erano bond corporate; 8 trilioni, ossia il 14,2%, erano bond di istituzioni finanziarie; 9 trilioni, il 16%, erano bond governativi; 11 trilioni, il 19,64%, era il valore della capitalizzazione di borsa.
Al culmine della lunga cavalcata del credito (o debito che dir si voglia), quindi nel 2007, il totale degli asset era praticamente quadruplicato: 206 trilioni di dollari, pari al 355% del Pil mondiale di quell’anno. In pratica la finanza, nel 2007, valeva tre volte e mezzo l’economia reale.
Ma come erano composti questi asset? 50 trilioni, il 24,2% del totale, erano prestiti non cartolarizzati; 21 trilioni, ossia il 10,1% erano bond del settore privato; 39 trilioni, ossia il 18,9% erano bond di istituzioni finanziarie; 32 trilioni, ossia il 15,5% erano bond statali; 64 trilioni, il 31%, era la capitalizzazione globale di borsa.
Quindi fra il 1990 e il 2007 diminuisce notevolmente incidenza dei prestiti, aumenta il peso relativo dei bond corporate e finanziari, rimane stabile la percentuale dei bond sovrani, aumenta la capitalizzazione di borsa.
La crisi cambia radicalmente questo stato di cose. Gli asset, a metà del 2012, arrivano a 225 trilioni, ma la loro incidenza sul Pil mondiale crolla al 312%, il 43% in meno. Muta anche la composizione degli asset. La capitalizzazione di borsa perde 14 trilioni, da 64 a 50, quotandosi al 22,2% del totale, quasi nove punti in meno rispetto al 2007. I bond governativi passano da 32 trilioni a 47, il 20,8% del totale, ossia il 5,3% in più in cinque anni. Aumentano significativamente anche i prestiti non cartolarizzati, che passano da 50 trilioni a 62, il 27,5% del totale, 3,3% in più rispetto al 2007. Rimangono stabili i bond corporate e quelli finanziari.
Quindi la crescita degli asset, durante la crisi, è dovuta all’aumento di debito pubblico e in larga parte privato.
Ma ciò che preoccupa gli analisti è il tasso di crescita degli asset. Nel quinquennio considerato non è andato oltre un anemico 1,9%. E’ la fine di un’epoca?
Mckinsey non si sbilancia. Si limita a osservare che anche il cross-border capital flows, che misura il grado di integrazione nel sistema finanziario globale, è in declino. Nel 1980 tale flusso pesava 0,5 trilioni. Nel 2007 ben 11,8 trilioni, a metà 2012 appena 4,6, e solo grazie al super lavoro delle banche centrali che con la loro generosità lo hanno tirato su dal livello di 1,7 dove era finito nel 2009. In pratica siamo ancora il 60% sotto l’apice pre crisi.
Insomma, il valore degli asset è cresciuto perché stati e famiglie hanno aumentato il proprio livello di indebitamento, grazie al credito facilitato reso possibile dalle banche centrali, ma i flussi di capitale circolano sempre più al rallentatore.
C’è più debito, ma anche più timore che non venga ripagato.
C’era una volta la globalizzazione.