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L’Oro di Bankitalia, ossia l’Oro del Reno ma senza Wagner

L’oro di Bankitalia, dunque. Se fosse solo una questione di soldi, vale a dire del desiderio di impossessarsi del tesoro aureo di via Nazionale, che a prezzi 2017 valeva circa 85 miliardi, non sarebbe più di una riga nelle cronache dell’inesauribile fame fiscale del nostro tempo. E invece l’oro di Bankitalia è un capitolo di una saga assai più intricata che gareggia con quella dei Nibelunghi, con i banchieri centrali a recitare il ruolo dei difensori dell’oro del Reno, da cui si può forgiare l’anello per dominare il mondo.

L’oro è denso di significati mitologici, d’altronde. E il suo possesso è sempre stato associato al potere. Perciò ricordare come è stato fatto da uno dei vicepremier che “l’oro di Bankitalia appartiene agli italiani”, col sottotesto che di conseguenza debbano disporne i loro rappresentanti, è solo il modo politico per ribadire un concetto sempre più cliccato dai social-populisti: il governo deve controllare la moneta. E soprattutto deve farlo direttamente. Il principio dell’indipendenza della banca centrale è diventato un orpello. Le sottolineature dei governanti italiani non sono diverse, per vocazione e intenti, da quelle di Trump che strapazza la Fed. Entrambi manifestano ciò che in un intervento del 2014 Salvatore Rossi, direttore generale di Bankitalia, illustrava con dovizia di dettagli: la tentazione della fiscal dominance. In sostanza usare le banche centrali come succursali del Tesoro.

Già Ricardo, agli inizi del XIX secolo, aveva teorizzato il principio dell’indipendenza della banca centrale proprio per scoraggiare questa pratica. Il principio addirittura diventa un obiettivo auspicato dalla Lega delle Nazioni nel 1920 “per garantire la stabilità dei prezzi”. Ma poi finisce nel tritacarne del mito della piena occupazione propugnato nel secondo dopoguerra. In molti paesi si afferma il dominio della politica fiscale su quella monetaria. Le banche centrali agiscono come compratori di ultima istanza dei titoli di Stato sul mercato primario.

Un mondo che finì, devastato dall’inflazione a due cifre e dalla stagnazione, cui oggi molti guardano con crescente nostalgia perché la fiscal dominance viene considerata la migliore delle scorciatoie per coniugare istanze sovrane e sviluppo. Una tentazione assai diffusa. Il caso della Banca del Giappone è eclatante. Formalmente indipendente, ormai è la principale acquirente di titoli del governo e il suo bilancio, imbottito di bond pubblici, ormai supera il 100% del pil giapponese. Le banche centrali, d’altronde, possono pure essere indipendenti, ma non dal principio di realtà. E oggi hanno a che fare con governi divenuti rissosi e mercati in costante debito di ossigeno finanziario. Sarebbe strano il contrario visto che, dal 2008, il debito è cresciuto.

Dal canto loro i banchieri centrali sono probabilmente l’ultima élite internazionale rimasta che condivide una lingua comune. Che non è solo l’inglese, ma comprende il sistema di credenze e di valori che informa il central banking. Non ci sarebbe nulla di strano a leggere che “dovremmo dare al mercato, che ha una profonda saggezza, un ruolo decisivo da svolgere nell’allocazione delle risorse”, salvo per il fatto che a pronunciarle sia stato Yi Gang, governatore della People’s Bank of China. Né dovremo stupirci se un altro sottolinea che “i governi cambiano, ma le banche centrali rimangono”, anche se a dirlo è stato Ariff Ali, governatore della Reserve Bank of Fiji. Sono solo due dei tanti esempi che si potrebbero fare.

Il punto è che posti diversissimi, con culture ancora più diverse convergono su principi simili. Caso più unico che raro. Questo strano circolo Pickwick di banchieri centrali sembra l’ultima ridotta internazionalista che si oppone allo straripare del nazional-populismo. O almeno così quest’ultimo la percepisce e per questo la mal sopporta. Sembra si prepari una tenzone davvero epica fra un’élite sovranazionale e cosmopolita, che ambisce a regolare mercati globali, e una classe politica che ormai propugna social-ismi nazionali, con l’oro a far da controfigura. Peccato non ci sia Wagner a raccontarla.

Il QE europeo, ovvero il trionfo dell’egemonia monetaria

Mi ritrovo a navigare, come voi sperduto, nel vasto mare dell’informazione economica con le correnti che mi spingono a volte verso fiumi impetuosi che mi sovrastano, lasciandomi spossato, tal’altre lungo angusti rigagnoli che però nascondono tesori, piccole perle che hanno il potere di illuminare la mia vista da naufrago, onnubilata dall’acqua.

Mentre nuoto, ancora incerto sulla ragione e soprattutto la destinazione, mi piovono addosso notizie di spread europei che collassano insieme alla quotazione della moneta unica, ormai vicina alla parità col dollaro, mentre dalla terra greca si paventano sconquassi come più o meno accade ormai da un lustro. All’orizzonte vedo sorgere un timido arcobaleno, però, che la decisa azione della Bce ha reso persino più colorato di com’è solitamente in natura, con i telegiornali e gli istituti di statistica a spargere ottimismo, che male non fa, pure se non è detto che faccia bene.

Mi convinco per simpatia che non solo va tutto bene, a parte le bizze dei greci che qualcuno raddrizzerà, ma che soprattutto andrà tutto bene. Il QE di Supermario ha già raggiunto il suo obiettivo evidente: ristabilire la fiducia e svalutare l’euro, che comunque male non fa, come ci ricordano i giornali confindustriali, anche se non è detto che faccia bene.

Decido persino di non scriverne più di QE, atteso che tutto quello che c’era da dire e ricordare credo di averlo già fatto.

Ma poi mi capita sotto gli occhi uno speech di Peter Praet, componente del board della Bce, (“Public sector security purchases and monetary dominance in a monetary union without a fiscal union“) e capisco di essere finito in uno di quei rigagnoli di cui vi dicevo prima. Uno di quei posti angusti da dove però puoi guardare l’insieme, solitamente trascurato dalle cronache.

Le riflessioni di Praet mi fanno tornare in mente un post che avevo scritto tanto tempo fa, nel quale senza saperlo avevo invocato un concetto a che a quanto pare esiste davvero nella teoria del central banking, quello di monetary dominance. Nella mia ignoranza (mai sentito prima) avevo parlato invece di egemonia monetaria, riferendola alla logica dell’agire della nostra banca centrale che, proprio perché priva di uno stato alle spalle, deve far leva sul rispetto di alcuni principi essenzialmente monetari per la sua politica. La logica dell’egemonia monetaria si confronta con quella della moneta egemone che caratterizza ad esempio gli Stati Uniti, dove c’è una perfetta saldatura fra stato e banca centrale pur nella diversità dei ruoli.

Figuratevi la sorpresa quando, leggendo Praet, mi sono accorto che il miglior risultato che il QE ha ottenuto, aldilà degli spread declinanti e della fiducia crescente e al netto della Grecia, è stato sui principi: la Bce di fatto con la sua decisione ha segnato il trionfo del principio della monetary dominance. Quindi il suo personale.

Tale principio si basa sull’assunto che una banca centrale debba prendere le sue decisioni in totale indipendenza senza altro riguardo che al suo mandato, quindi nel caso della Bce legato all’obbiettivo di un’inflazione al 2%, senza curarsi né della financial dominance, ossia delle conseguenze che ciò avrà sulle banche e il sistema finanziario, né tantomeno della fiscal dominance, ossia l’esigenza che può avere uno stato di rivolgersi alla sua banca centrale per finanziarsi, per la semplice ragione che uno stato alle spalle la Bce non ce l’ha.

Il trionfo dell’egemonia monetaria, che è un modo totalmente nuovo (anche se ricorda il vecchio gold standard ottocentesco) di concepire il central banking, conferma che l’eurozona è il luogo dove l’internazionalismo monetario si sta facendo i muscoli, e perciò è assai utile seguire il ragionamento di Praet, pur nella consapevolezza che mai e poi mai la moneta egemone cederà la sua supremazia senza combattere.

Vi riassumo qui i tratti salienti.

L’unione monetaria europea senza unione fiscale è possibile in teoria, dice il banchiere, “ma richiede requisiti che assicurino una monetary dominance più stringente”.

Ciò in quanto in una unione monetaria la politica monetaria, che è a sua volta unica, genera dei link con i budget fiscali dei diversi stati. Il perché è evidente: guadagni o perdite dell’attività della banca centrale vengono distribuiti a tutti governi, pure se in quota parte. Quindi se la Bce comprasse titoli di stato di un paese membro ne condividerebbe il rischio con gli altri paesi, il che è semplicemente vietato dai trattati. Ecco: la monetary dominance implica l’indifferenza dell’autorità monetaria nei confronti dei paesi le cui banche centrali (a loro volta teoricamente indipendenti) sono a loro volta azioniste della Bce. La difesa della moneta è lo scopo principale del gioco.

Perché tale monetary dominance sia effettiva occorre ovviamente che la Bce sia credibile anche e soprattutto nei confronti delle autorità fiscali. E infatti per evitare tentazioni di fiscal dominance, l’Ue ha costruito il suoi vari fiscal compact che di fatto imbrigliano i governi nazionali in una matrice di parametri alla quale non possono sfuggire a pena di sanzioni.

Ma monetary dominance significa anche un’altra cose: significa che la banca centrale può farsi carico della politica monetaria ma non di quella creditizia.

Nella distinzione che ne ha fatto Marvin Goodfriend in uno scritto del 2011 “una autentica politica monetaria esiste solo quando la banca centrale acquista e vende bond governativi. Quando invece la banca centrale si impegna in operazioni che implicano rischi di credito, e quindi coinvolge il settore privato, sta facendo politica creditizia a in ultima analisi fiscale”.

Ma “la nozione che un bond governativo non porti con sé rischio può esistere solo in un contesto in cui ci sia pieno consolidamento fra il bilancio della banca centrale e quello dell’autorità fiscale”. Detto in parole comprensibili, una banca centrale può monetizzare un Treasury, e in questo senso è sicuro.

Il problema è che in una unione monetaria senza unione fiscale, un asset del genere non esiste. Nessun titolo degli stati è risk free perché la Bce non può monetizzarlo e perché, nella logica della monetary dominance, uno stato può tranquillamente fallire. L’unico titolo risk free dell’unione europea sono i debiti della Bce, perché emessi da se stessa e quindi infinitamente monetizzabili. Il che dovrebbe farci capire chi comandi davvero in Europa.

Tali considerazioni, che a molti parranno filosofiche, hanno condotto a decisioni molto concrete sia per l’ideazione che la realizzazione del QE della Bce.

Se vi verrà voglia di leggere Praet scoprirete che la decisione presa dal board è assolutamente coerente con questa visione, dove una banca senza stato, che adesso può anche contare su una unione bancaria e su un sistema coordinato di regole fiscali per gli stati, di fatto surroga l’autorità politica pur dicendo il contrario. Nel senso che la politica dell’Ue è la monetary dominance, innanzitutto.

Vi risparmio i dettagli e salto direttamente alle conclusioni: “La decisione del consiglio dei governatori ha dimostrato che siamo (la Bce, ndr) senza vincoli nella nostra capacità di ottemperare al nostro mandato, potendo far pieno uso di tutti gli strumenti di politica monetaria legali ed efficaci di cui disponiamo”.

“Questa – sottolinea – è un’asserzione di monetary dominance, coerente con i principi del Trattato di Maastricht”.

Ma attenzione, avverte: il successo dell’euroarea dipende dal fatto che tutti gli stakeholder facciano la loro parte.

Ripenso ai politici greci mentre Praet recita le sue ultime parole famose: “La Bce non esiste nel vuoto”.

E sento improvvisamente il vuoto dentro di me.

La banca centrale di MagicWorld

Nel meraviglioso mondo magico in cui viviamo, dove l’economia cresce (o dovrebbe) illimitatamente, generando redditi altrettanto crescenti capaci di sorreggere consumi possibilmente superiori, s’erge, come un castello incantato, l’altrettanto meravigliosa banca centrale che tale mitologia contribuisce a sostenere con la sua bonomia e le sue sempre prodighe elargizioni.

Qui, in Europa, provincia di MagicWorld, ci arrivano purtroppo soltanto gli echi del suo acuto (e astruso) ponderare, dovendoci accontentare, essendo provincia dell’impero, degli aridi resoconti contenuti nei bollettini ufficiali, come quello che ha ispirato questo post e che qui ho pensato di raccontarvi nel caso, come è accaduto a me, non aveste ancora capito che la banca centrale mondiale c’è già da più di cent’anni. La trovate al 20th Street and Constitution Avenue N.W. Washington, D.C, USA. Si chiama Federal Reserve.

Bontà sua, la banca centrale di MagicWorld è estremamente consapevole del suo ruolo globale e quindi prende molto sul serio le sue responsabilità. Stanley Fischer, vice presidente del board dei governatori della banca, lo ha ripetuto più volte nel corso del suo lungo intervento alla Per Jacobsson Foundation (“The Federal Reserve and the global economy”), andato in scena durante l’ultimo meeting annuale del Fmi e della Banca mondiale, l’11 ottobre scorso, sempre a Washington.

Il succo è molto semplice: gli Stati Uniti hanno un evidente ruolo globale, sia perché emettono la moneta internazionale, di fatto se non di diritto, sia perché la loro stazza è capace di riverberare con grande risonanza i propri affari interni all’esterno. La capacità di contagio degli Stati Uniti, stante il combinato disposto delle due caratteristiche, è pressoché infinita.

Al tempo stesso, osserva Fischer, gli Usa sono anch’essi sensibili ai contagi che possono arrivare dai partner esteri, a cominciare da quelli made in Europe, ma senza trascurare quelli che possono scatenarsi dai paesi emergenti.

Perciò il castello incantato deve vigilare sul mondo intero, avendo però un piccolo problema statutario: la missione affidata alla Fed dai politici americani è quella della stabilità dei prezzi e dell’economia, espressa con una serie di indicatori, interni. Quindi la Fed guarda al mondo, ma deve principalmente occuparsi degli americani. Dal che risulta chiaro che ciò che va bene per gli americani deve andar bene al resto del mondo. Gli piaccia o no.

Appartiene d’altronde al retropensiero dell’economia del nostro tempo, dove tutto deve essere pesato per quantità e non contato per sostanza, la conseguenza che il pesce più grosso mangi quelli più piccoli. Con buona pace degli economisti e dei banchieri che si sforzano di celare l’attuale vigenza della legge della giungla su scala globale col miglior birignao di cui dispongano.

Poiché qui si discorre anche di numeri, ossia di quantità, comincerò col dirvi che il commercio, negli ultimi cinquant’anni, ha più che triplicato le sue quantità a livello globale e il rapporto delle esportazioni sul pil globale adesso quota circa il 30%. Negli Usa, tuttavia, tale indicatore quota circa la metà, ossia il 15%. Quindi per quanto sia “importante driver per l’economia”, spiega Fischer, non è certo quello principale.

Peraltro la quota percentuale del pil americano su quello globale è diminuita costantemente dalla metà del XX secolo, ma ciò non ha provocato una relativa diminuzione dell’importanza degli Stati Uniti: al contrario. Nello stesso periodo, infatti, si sono infittiti i legami finanziari fra Usa e resto del mondo. Ed è qui che il nostro castello magico, che genera d’incanto capitali fittizi, ha compiuto il suo miglior capolavoro.

Gli americani possiedono asset all’estero che Fischer quota circa 25 trilioni di dollari, più del 140% del Pil americano, “che riflettono il ruolo di guida dei mercati dei capitali Usa nella finanza internazionale”. Al tempo stesso gli investimenti esteri negli Usa quotano più di 30 trilioni di dollari. “I Treasury americani sono la componente chiave di questi debiti esteri“, ci ricorda Fischer. Malgrado la posizione netta degli investimenti sia pesantemente negativa, questi Treasury, ossia debiti del governo americano, “sono considerati l’asset più sicuro al mondo e sono la forma preferita di collaterale per un vasto range di contratti finanziari, oltre a pesare circa la metà delle riserve estere degli altri paesi”.

Ve la dico come l’ho capita io: il debito pubblico americano, ossia capitale fittizio, che negli ultimi anni ha trovato nella Fed uno dei suoi migliori acquirenti, è, letteralmente, la liquidità che olia l’ingranaggio della finanza globale. Sicché, pure se l’economia americana perde peso relativo, e i suoi commerci di conseguenza, la produzione e spaccio di capitale fittizio è più che sufficiente per consentire agli Usa di regolare l’economia globale, come alla Fed di fare la stessa cosa, ossia regolare la finanza internazionale.

Per comprendere meglio la ragnatela tessuta attorno a Magicworld, è utile sapere che i paesi emergenti pesano il 47% dell’export statunitense, rendendo perciò gli Usa estremamente sensibili all’aria che tira laggiù. Quindi è del tutto evidente che la Fed debba rivolgere a costoro la sua paziente attenzione, visto l’effetto che il loro andamento ha sull’economia interna. Specie adesso che sta decidendo come la politica monetaria debba evolvere nell’immediato futuro. E figuratevi con che patema d’animo la Fed ha osservato la ventennale deflazione giapponese e la crisi del debito scoppiata nell’eurozona, ossia “i nostri più importanti partner, destinatari dei nostri investimenti esteri nonché di una vasta esposizione bancaria”. “Tali effetti pesano sulla crescita globale, dobbiamo tenerne conto quando settiamo la nostra politica monetaria”, spiega Fischer.

Dulcis in fundo, “poiché il dollaro è la moneta più usata al mondo, il nostro interesse nell’assicurare un buon funzionamento del sistema finanziario ha un’inevitabile dimensione internazionale”. Insomma: gli Usa si occupano di noi, degli altri, di tutti. In questo regolare la vita degi altri, tuttavia, non vi è alcun esercizio di volontà di potenza, ma semplicemente un calcolo di convenienza. Che è il modo economico di raccontare la politica, a ben vedere.

Nel dettaglio, la prima considerazione di cui occorre tener conto, spiega Fischer, è che i modelli illustrano con chiarezza che una politica monetaria accomodante negli Usa conduce a un ribasso dei tassi su scala globale. Quindi si può tranquillamente dedurne che vale anche il contrario: quando i tassi americani salgono, il resto del mondo segue, e questo dobbiamo ricordarcelo.

Questi “contagi” internazionali, ricorda Fischer, “sono un problema almeno dal 1920”. Ricordo a tutti che la Fed fu fondata nel 1913. Ma senza bisogno di andar così lontano, è sufficiente ricordare che dal 2008 in poi, dopo che la Fed ha varato il suo quantitative easing, le principali banche centrali del mondo, ognuna a suo modo, si sono adeguate.

Gli effetti di tale straordinario accomodamento monetario hanno generato diverse preoccupazioni. Alcuni emergenti all’inizio paventavano l’improvviso aumento di afflussi di capitali esteri nelle loro economie, forieri di evidenti rischi sulla loro stabilità finanziaria. “Ma allo stesso tempo – osserva – molti di loro sembravano felici di ricevere questi afflussi”. Il denaro facile piace a tutti, d’altronde. Figuratevi a chi fatica a emergere. 

Poi c’è la questione, improvvisamente tornata attuale in questi giorni di correzione borsistica, che “gli acquisti della Fed hanno fatto aumentare i prezzi degli asset acquistati e dei loro succedanei, oltre a quelli degli asset più rischiosi“. E, ancora più importante, “c’è l’evidenza che i mercati valutari esteri sono stati siginficativamente colpiti dagli acquisti di asset della Fed”, innanzitutto diminuendo i tassi sui bond locali e provocando quindi un notevole aumento di emissioni.

Però, ricorda ancora, vengono sottovalutati gli effetti della politica monetaria delle altre banche centrali, e segnatamente la Bce, anche se, ammette, gli effetti delle politiche americane rimangono assai più pronunciati. E ci sarebbe pure da chiedersi se la Bce e le altre (BoJ e BoE) avrebbero iniziato le loro politiche espansive se gli Usa non avessero dato il segnale di partenza.

Ma inutile perdersi in simili pinzillacchere. Quel che conta, sottolinea il nostro banchiere, è che non solo la politica della Fed non ha importato domanda da altre economia, con il classico effetto beggar thy neighbor, ma al contrario ha beneficiato le economie estere che hanno potuto godere del miglioramento dell’economia americana e del miglioramento delle condizioni finanziarie globali. Quindi, ancora una volta, ciò che va bene agli Usa funziona anche per il resto del mondo. La qualcosa contiene anche una pericolosa controindicazione: se va male negli Usa, al resto del mondo andrà peggio.

Soprattutto, “ci aspettiamo effetti esterni – ricorda ancora – una volta che la politica monetaria diverrà più restrittiva“. Poi non dite che non ci hanno avvisato.

Ma tranquilli: la serrata della liquidità non comincerà prima che l’economia americana sia forte abbastanza da sostenerla, e comunque non prima che il tasso di inflazione sia vicino all’obiettivo del 2%. E ciò dovrebbe bastare a rassicurarci, atteso che “un’economia Usa più forte beneficia i nostri partner esteri (ossia tutti, ndr)  e rinforza la fiducia globale”.

Certo, la storia ci racconta altro: ogni volta che la Fed ha invertito la sua politica monetaria, basta ricordare il drastico rialzo dei tassi all’epoca di Volcker, il mondo cambia faccia e scoppiano piccoli cataclismi. Ma il nostro banchiere sono certo che li consideri modesti danni collaterali, di fronte al grande beneficio globale di potersi appoggiare a un’America del Nord più forte.

E poi serve a riassicurarci anche un’altra circostanza: la banca centrale di MagicWolrd ha piena consapevolezza delle sue responsabilità globali.

“La domanda più importante – dice – è in cosa consista la responsabilità della Fed rispetto all’economia globale”. “Il mio maestro, Charles Kindleberger era convinto che la stabilità finanziaria internazionale potesse più facilmente essere supportata di una banca centrale globale o finanziariamente egemone. Ma deve essere chiaro che la Fed non è questa banca. Il nostro mandato è concentrato su obiettivi domestici, e per perseguirli dobbiamo riconoscere gli effetti delle nostre decisioni sull’estero”.

Inoltre, “poiché il dollaro è così prominente nelle transazioni internazionali, dobbiamo ricordare che il nostro mercato si estende al di là dei confini e quindi dobbiamo essere pronti a provvedere la necessaria liquidità”. In sostanza, “noi agiamo nell’interesse degli Stati Uniti prendendo decisioni che beneficiano anche il resto del mondo”.

Insomma: la Fed non è una banca centrale globale. Il problema è che MagicWorld parla americano.

 

C’è del marcio in Danimarca?

Le ultime che arrivano dalla Danimarca ci raccontano dell’intenso dibattito politico, che potrebbe sfociare in un referendum, fra il governo e i partiti euroscettici su una serie di questioni europee: dall’adesione alla normativa Ue sui brevetti, all’Unione bancaria.

A parte provare una sana e benevole invidia – addirittura un paese dove si parla di cose reali – mi sono chiesto come mai la Danimarca, che pure è uno dei paesi creditori del mondo ed è fuori dall’euro (sempre dopo un referendum, lo ricorderete), abbia iniziato a discutere di queste cose, quando il buon senso dovrebbe suggerirle di non mischiarsi con i pasticcioni dell’eurozona, seppure per il tramite dell’adesione indiretta per via bancaria.

Poi mi sono capitati fra le mani un paio di discorsi. Uno del vicegovernatore della banca centrale finlandese Pentti Hakkarainen alla Mansion House di Londra. E l’altro del governatore della banca centrale danese, Lars Rohde, all’associazione della banche danesi che si occupano di mutui.

Il primo ha detto a chiare lettere che la regione nordica, ossia quel gruppo di paesi che vede insieme Svezia, Danimarca, Finlandia e Norvegia, avrebbe tutto da guadagnare se aderisse al meccanismo di supervisione bancaria (SSM) di recente approvato a Strasburgo, che vede la Bce nel ruolo di supervisore di 130 banche dell’area euro.

La ragione è presto detta: l’area nordica, come di recente ha illustrato con chiarezza anche uno staff report del Fondo monetario internazionale, è profondamente interrelata sul versante bancario. Talché una crisi bancaria in uno dei paesi avrebbe conseguenza devastante anche per gli altri, come peraltro dimostra l’esperienza della crisi bancaria di fine anni ’80 che travolse la Svezia.

La Finlandia, in quanto aderente all’euro, nell’Unione bancaria entrerà di diritto. E poiché sul suo territorio ospita diverse filiali di banche degli altri paesi dell’area del Nord, in ogni caso la Bce finirebbe col doversene occupare. Meglio sarebbe, di conseguenza, entrare direttamente nella sorveglianza unificata “per dare coerenza e semplificare la struttura di supervisione”, dice il nostro banchiere. Sarebbe un fatto tecnico, quindi, non eminentemente politico.

Peraltro tale opinione viene condivisa anche da diversi analisti. Una ricerca pubblicata da Bruegel, un think-tank economico, sottolinea che la Danimarca, ma anche la Svezia, “dovrebbero essere pronti a entrare” nel meccanismo SSM, per superare alcuni svantaggi competitivi.

In Svezia il dibattito per ora rimane sullo sfondo. Al contrario di quanto accade in Danimarca. E leggere quello che dice il governatore danese ci aiuta a capire perché.

Alcuni dati evidenziano la sostanza del problema. Con l’esplosione della crisi del 2008 il governo danese dovette mettere sul piatto una quantità ingentissima di risorse per mettere al sicuro il proprio sistema bancario. Il primo Bank reascue package previde garanzie esplicite del governo per 4.200 miliardi di corone per le banche danesi. Con il secondo Bank rescue package, il governo iniettò 46 miliardi di corone nel settore finanziario per evitare potenziali credit crunch, oltre a garantire 194 miliardi di corone di emissioni di debito.

Cinque anni dopo il governo aveva iniettato altri 31 miliardi di corone nelle sue banche. “Finora – dice il governatore – il governo non ha avuto costi diretti che non siano stati coperti, ma i rischi sono stati enormi. In questa prospettiva – conclude, non c’è alcun dubbio che si fosse bisogno di una stretta”.

Ma cosa aveva combinato il settore bancario danese per costringere il governo a farsi carico di questi “rischi enormi”?

Il problema, per la Danimarca come anche per tutta l’area nordica, è innanzitutto il debito privato. Le famiglie danesi sono imbottite di debiti, per lo più contratti per comprare casa, e l’andamento del settore non è rassicurante, con la conseguenza che “la crescita in Danimarca – dice il governatore – sta sotto il suo livello potenziale”, anche a causa dell’andamento piatto del consumo privato, cui certo non giova un alto livello di debiti.

Ad aggravare la situazione l’andamento dei corsi immobiliari, crollati nel biennio 2008-9, e declinati di circa il 10% anche nel 2011. Solo nel 2012 i prezzi sono risaliti, ma in maniera diseguale sul territorio. Nella capitale, l’anno scorso, i prezzi sono saliti del 10%. Ma non è andata così in tutto il paese. E tuttavia il sospetto che ci si possa trovare di fronte a unsettore squilibrato rimane.

Un’indagine svolta dalla banca centrale danese nella sua ultima Monetary review, citata dal governatore, compara i prezzi delle case a Copenhagen con altre capitali europee e sottolinea come 100 metri quadri nella capitale danesi costerebbero 2,3 milioni di corone, il doppio rispetto ad Oslo e Stoccolma e addirittura il triplo rispetto a Parigi, mentre a Berlino il costo sarebbe di circa 1,9 milioni di corone.

Ciò fa dire al nostro banchiere che “il livello dei prezzi a Copenhagen non è particolarmente alto rispetto a una prospettiva internazionale, ma non è probabile che i prezzi continuino a salire al passo che abbiamo visto l’anno scorso e neanche dovrebbero”. I prezzi immobiliari – dice “sono vicini al loro livello di equilibrio” anche se la storia insegna che “ci possono essere rilevanti deviazioni dal trend” anche a causa “della tassazione sulle case che contribuisce all’instabilità del settore”.

La stabilità del settore immobiliare è un pre-requisito della stabilità finanziaria delle banche danesi. E, indirettamente, vista l’esperienza storica, dell’equilibrio fiscale.

A proposito, la politica fiscale, dice il banchiere, “non dovrebbe essere rilassata”. Malgrado il deficit sia intorno al 3% scritto nelle tavole della legge ed è previsto rimanga a quel livello fino al 2015, non ci sono spazi per fare politica espansiva.

Perché? uno dei motivi è che dal lato credito bancario, dal 2008 in poi l’attività di prestito si è rafforzata nel settore delle banche che rilasciano mutui, mentre si è contratta nelle banche tradizionali. Significa che famiglie e imprese hanno acceso mutui invece che prestiti “normali” e le imprese, i particolare, hanno preferito finanziarsi emettendo bond piuttosto che chiedendo un affidamento bancario.

Ma questo significa solo che il rischio si è spostato da un settore bancario all’altro. E stante l’alto livello di indebitamento delle famiglie questo può essere un grave fattore di instabilità con conseguenze, in ultima analisi, anche per i conti dello stato.

A tal proposito è interessante notare che il governatore non crede che l’alto livello di debito privato possa destabilizzare le banche, perché dice, “i cittadini tendono a dare proprità al pagamento del mutuo sopra ogni cosa”, ma certo, ammette, potrebbero esserci effetti indiretti sulla domanda aggregata (già piatta) e quindi sull’equilibrio fiscale (già ai confini del deficit) qualora si verificasse una qualche forma di shock sui tassi d’interessi.

Si capisce perché la banca centrale danese si eserciti in diversi scenari apocalittici, finora più o meno rassicuranti. E anche perché si parli così tanto di Unione bancaria.

Per quanto il governatore sia convinto che “il settore finanziaro danese si è stabilizzato dal collasso della Roskilde bank del 2008”, lui stesso riconosce che ci sono un paio di questioni sul tappeto che suscitano qualche preoccupazione.

La prima è quella dei prestiti chiamati F1, ossia mutui che vengono rifinanziati annualmente. Quindi debito lungo che viene finanziato a breve. Un potente fattore di instabilità.

“Cosa succederebbe – dice – se una banca che opera nei mutui si trovasse nell’impossibilità di venderei suoi bond a breve coi quali finanzia i suoi prestiti a lungo?”

Risposta: “La banca centrale si comporterebbe come prestatore di ultima istanza, sempre che la banca in difficoltà abbia collaterali in quantità e qualità tali da avere credito”. E poiché i bond delle banche che erogano mutui sono entrati nei collaterali accettati dalla banca centrale, il problema sembra di facile soluzione.

Provo a tradurre: in caso queste banche non piazzino i propri bond sul mercato, li comprerà la banca centrale usando come collaterali gli stessi bond che nessuno vuole comprare. Di fatto significa buttare sulle spalle del bilancio dello stato il rischio di questi finanziamenti. 

Ti credo che “non c’è rischio per la stabilità finanziaria”. Anche se “è importante trovare una soluzione di lungo termine”.

La seconda questione riguarda proprio la regolazione. “La crisi ha rivelato molte debolezze e le regole sono state rinforzate” dice, “ma adesso sembra che la crisi finanziaria sia stata già dimenticata e, come abbiamo già visto in passato, ci saranno pressioni per allentare le regole”.

Meglio mettersi sotto l’ala della Bce e tenere le dita incrociate.

Evidentemente c’è del marcio in Danimarcia.

Ops, Danimarca.

Ue, Usa e Giappone: l’orso, il cavallo e il somaro

La giornata comincia con due notizie che ormai non lo sono neanche più. Il presidente delle Fed Bernanke ha ripetuto di non aver nessuna intenzione di abbandonare le misure non convenzionali adottate per sostenere la ripresa americana, aggiungendo che “c’è molto da fare”. Evidentemente gli 85 miliardi di dollari al mese (fra acquisto di obbligazioni garantite dal mattone e di bond pubblici) che la Fed garantisce al sistema finanziario Usa non bastano. Il cavallo americano dovrà bere almeno fino a quando la disoccupazione non scenderà.

La seconda notizia riguarda il Giappone. La banca centrale ha ripetuto che continuerà a perseguire una politica “aggressiva”, visto che export e produzioni industriale sono in calo e il nuovo premier Abe ha annunciato armi non convenzionali contro l’annosa deflazione, fra stimoli fiscali e target inflazionistici da raggiungere. Peraltro la BoJ ha anche tagliato le stime di crescita per otto delle nove regioni economiche monitorate. Il somaro giapponese dovrà convincersi a diventare un cavallo a suon di sganassoni monetari.

Due non notizie, quindi, che hanno soltanto lo scopo di mandare chiari segnali agli investitori. Infatti in America il mercato immobiliare è in crescita per la prima volta dal 2008 (+6,6% in Florida nel 2012) e si torna a riparlare di imminente boom di borsa. Quanto al Giappone lo Yen ha toccato il minimo sull’oro dal 1980. Questo tanto per dire che le parole hanno sempre conseguenze.

La terza notizia è arrivata dall’Ocse. Nell’ultimo quarto del 2012 il Pil dell’area è cresciuto dello 0,3%, trainato per due terzi dai consumi privati, e per un terzo dalle esportazioni. Con una importante notazione: i campioni dell’export sono Francia, Germania, Italia e Gran Bretagna; i campioni dei consumi, sia pubblici che privati, sono gli americani. In Giappone sono crollati sia i consumi che l’export. All’interno dei paesi europei considerati, si segnala la buona performance dell’export italiano (+0,6 punti), la migliore fra i paesi europei in termini percentuali, del tutto oscurata dal crollo dei consumi (-0,6 punti). Siamo una via di mezzo fra la Germania (per l’export) e il Giappone (per i consumi interni).

Ma un po’ tutti gli stati europei hanno un passo simile. Con l’eccezione della Gran Bretagna, “rappresentante” europea della politica espansiva giappo-americana. La GB ha avuto un incremento dei consumi privati assimilabile a quello americano, e lo stesso vale per la spesa pubblica. La Germania ha visto un leggero aumento dei consumi privati (da 0,1 a 0,2 punti fra il secondo e il terzo quarto), mentre la spesa pubblica ha fornito un modesto 0,1 (dopo lo 0 del secondo quarto). In Francia i consumi privati sono cresciuti di 0,1 punti e la spesa pubblica altrettanto. In Italia, al crollo dei consumi privati (-0,6) si è aggiunto il calo della spesa pubblica (-0,1). L’immagine complessiva che viene fuori dall’Europa (continentale) è quella di orso in letargo che aspetta la primavera e intanto consuma il grasso in eccesso o mangiuncchia quello che trova (l’export).

Il problema è che la primavera in Europa, continuando così, sorgerà solo quando spunterà l’estate in America, visto l’andamento dei consumi privati e della spesa pubblica.

I giapponesi invece hanno già detto che serviranno almeno tre anni per battere la deflazione. D’altronde la loro economia è basata sull’export, e l’Europa si avvia pericolosamente a somigliarle, dovendo peraltro competere con la tigre cinese, il quarto animale della nostra storiella di cui ci occuperemo un’altra volta.

Può farcela il cavallo americano, abbondantemente abbeverato dalla Fed, a trainare la carretta del mondo ancora una volta, o rischia di finire schiantato (per non dire annegato) dalla troppa liquidità? Negli anni ’90 abbiamo già visto il cavallo giapponese diventare un somaro. Cosa impedisce agli Usa di fare la stessa fine? La risposta a questa domanda scomoda categorie che appartengono alla politica, più che all’economia, le cui cosiddette leggi hanno un grado di elasticità direttamente proporzionale al potere dei soggetti ai quali si rivolgono.

Il futuro è quantomai incerto anche per i giapponesi. In un recente report S&P ha riconosciuto che il processo reflazionario è partito in Giappone (reflazione=moderata nuova inflazione successiva alla deflazione innescata dalla iniezione di una maggior quantità di moneta), ma sul paese gravano notevoli ostacoli. A cominciare dall’esorbitante debito pubblico  e dai problemi di export. Il somaro giapponese, gravato da debito pubblico e avanzo commerciale in calo, rischia di schiantarsi ancor prima di muovere un passo se produzione industriale e consumi interni non ripartono. Per questo il governo ha varato misure di stimolo. Ma fra i motivi di scetticismo di S&P c’è anche la circostanza che il Giappone c’è già passato, senza successo, da politiche reflazionistiche, lungo i primi anni 2000.

L’orso europeo intanto si gode il suo letargo, appena infastidito dai rumori delle folle di cittadini del sud Europa infuriati. La bufera valutaria innescata da Giappone e Usa per il momento non lo inquieta (l’euro è ancora lontano dai massimi di 1,46 sul dollaro di un anno fa) e ha ancora abbastanza grasso addosso da predicare l’austerità (la contrazione tedesca di fine 2012 non preoccupa finora la Germania).

Il retropensiero è che il lavoro sporco (inflazionare il debito e, in generale, i vari mercati, dai titoli alle commodity) lo faranno gli altri.