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Il QE “regala” al Tesoro Usa oltre 580 miliardi
Fra gli svariati motivi per i quali il Tesoro americano nutre una sicura gratitudine verso la sua banca centrale ce n’è uno solitamente poco osservato ma senza dubbio degno di cronaca. Mi riferisco ai corposi trasferimenti che la Fed gira al Tesoro dopo aver chiuso ogni anno il suo bilancio di esercizio che, nel 2015, si stima abbiano superato i 110 miliardi di dollari, un vero record.
Nella release diffusa dalla banca centrale un grafico mostra l’evoluzione di tali trasferimenti negli ultimi anni. Si osserva che la Fed ha trasferito al Tesoro 97,7 miliardi di dollari, cui si sono aggiunti altri 19,3 miliardi derivanti dal surplus di riserve, in ossequio a una legge del 4 dicembre scorso, il Fixing America’s Surface Transportation Act (FAST Act), che ha limitato a 10 miliardi di dollari il surplus di riserve consentito al sistema della Riserva federale.
Il totale, peraltro soggetto a revisione nei prossimi mesi, fa un bel 117 miliardi tondi solo per il 2015. Dal 2009 in poi, ossia da quando la Fed ha iniziato la sua politica di quantitative easing, la banca centrale ha trasferito al Tesoro la bellezza di 584 miliardi, la gran parte dei quali frutto del reddito derivante da interessi sui titoli che la Fed ha acquistato alla scopo di dare ossigeno ai mercati finanziari e, insieme, abbassare i tasso di lungo termine, dando un altro evidente sollievo alla spesa per interessi del governo americano che, in una meravigliosa partita di giro, li paga alla paga centrale solo per farseli restituire in larga parte a fine anno.
Qualcuno si stupirà nel notare questa consuetudine, ma in realtà è perfettamente logica e prevista. Pressoché in tutti i paesi che hanno una banca centrale è consuetudine che quest’ultima giri al governo i proventi della sua azione di politica monetaria, che si sostanzia anche nelle operazione di mercato aperto, ossia nell’acquisto e nella vendita, fra gli altri, di titoli di stato. Al tempo stesso la Fed ha sostenuto una spesa per interessi da 6,9 miliardi pagati sulle riserve ai titolari dei depositi delle banche che costituiscono il sistema federale. E anche questa, a ben vedere, è un’altra partita di giro.
Tutto ciò dovrebbe servire a ricordare, a chi l’ha dimenticato, il senso e l’utilità pratica del Grande Accordo Monetario fra stato e banchieri che ha dato origine più di 300 anni fa alla prima banca centrale, in Inghilterra. In pratica, si è venuto a creare un simpatico corto circuito grazie al quale il governo, coi soldi dei contribuenti, paga alla Fed gli interessi sui titoli pubblici che la Fed, a sua volta, ha comprato con la sua fiat money, salvo poi restituire al governo gran parte dei suoi guadagni. Una perfetta situazione win win, che spiega meglio di ogni altro ragionamento perché le banche centrali siano state inventate, e la loro autentica natura di entità pubbliche.
Unire la potenza della moneta sovrana all’efficacia delle tecniche bancarie, creando l’ircocervo delle banche centrali, è stata, da questo punto di vista, l’innovazione più rilevante nella storia della finanza. Finché dura.
Le banche centrali fanno esplodere i debiti delle famiglie
Nella forsennata crescita del credito, che ha finito col rinchiudere il mondo nella trappola del debito, le banche centrali del mondo giocano un ruolo rilevante, per non dire che ne sono direttamente responsabili.
Queste entità, che dall’esplodere della Grande Crisi hanno assurto al ruolo di demiurghi delle nostre società, hanno insieme il merito di aver evitato il tracollo – il redde rationem – e dall’altro di aver creato le premesse per il prossimo, che quando si presenterà sarà assai più problematico (e costoso) da gestire.
A ciò si aggiunganol’effetto disastroso che ha sugli animal spirit dei capitalisti l’idea che il denaro sia gratis – anzi a tassi negativi – e che le banche centrali siano diventati contenitori inesauribili di asset, laddove bilanci ormai tesi all’inverosimile non si sa più bene come né quando potranno tornare alla normalità.
La Bis ha gioco facile, nella sua ultima relazione annuale, a rilevare come dal 2007 al 2013 i bilanci delle banche centrali siano più che raddoppiati, superando quota 20 trilioni di euro a furia di riempirsi di obbligazioni, necessarie sostenere alcuni bilanci pubblici, e riserve. E ha gioco altrettanto facile nel notare che tanta fatica, che pure tutti dicono necessaria a fronteggiare il crack post Leham, ci abbia oggi condotti a vivere in un mondo assai più pericoloso di prima, dove il minimo timore di un aumento dei tassi fa esplodere la paura.
Ma ancor peggio, il gioco del credito facile ha sortito l’effetto opposto a quello che sarebbe stato utile per fronteggiare la drammatica crisi da debito privato che ha distrutto i bilanci pubblici di mezzo mondo: il debito privato, infatti, rimane intollerabilmente alto, quando non sia aumentato proprio in conseguenza dell’azione delle banche centrali, che hanno fatto sprofondare i tassi in territorio negativo in tutte le principali economie.
La normalizzazione, perciò, nessuno sa più bene cosa significhi. Cosa farne di questi 20 trilioni e oltre che gli stati hanno accumulato, e che ormai assomigliano a un gigantesco debito fuori bilancio, è mistero gioioso. E ancor più misterioso è capire come faranno a uscire dalla secca dei tassi a zero, che ormai fa scricchiolare la loro presunta indipendenza e, di conseguenza, la loro credibilità.
Sappiamo però alcune cose, che la Bis molto graziosamente ci comunica: “Un basso livello dei tassi di interesse non risolve il problema di un debito elevato. Può contenere i costi per il servizio del debito per qualche tempo, ma poiché incoraggia, anziché scoraggiare, l’accumulo di debito, amplifica l’effetto dell’eventuale normalizzazione”.
In pratica, quando e se le BC aumenteranno i tassi, poiché nel frattempo i privati si saranno riempiti di debiti a basso costo, l’effetto sulla sostenibilità di questi debiti sarà drammatico. E stavolta gli stati non potranno più metterci una pezza, atteso che devono già fare i conti con la sostenibilità fiscale dei loro bilanci.
Come se non bastasse, complice l’economia asfittica nella quale ci arrabbattiamo tutti, sono spuntate pure “pressioni disinflazionistiche impreviste, che rappresentano una sorpresa negativa per i soggetti indebitati ed evocano lo spettro della deflazione”. Il che costringe i banchieri centrali, BCE in testa, ad inventarsi nuovi strumenti per dare ossigeno ai prezzi, quindi espandendo ulteriormente il credito, ammesso che qualcuno lo voglia.
Quo usque tandem abutere, patientia nostra? direbbe Cicerone.
“Per tutto il tempo che sarà necessario”, potrebbe rispondere un banchiere centrale parafrasando il celebre detto di Mario Draghi.
E infatti le varie forward guidance dicono tutte la stessa cosa: la politica monetaria accomodante durerà finché serve.
Peccato che la Bis non abbia dubbi quando afferma che “l’efficacia della forward guidance in presenza di tassi ufficiali alla soglia zero appare limitata”. Si fa per dire, insomma, piuttosto che dire per fare.
La verità, però, che la Bis teme anche se non lo dice, è che neppure i banchieri sanno come uscire dal cul de sac nel quale si sono infilati. “La transizione sarà probabilmente un percorso complicato e accidentato, indipendentemente da come verrà comunicata; in parte per questi motivi, non va sottostimato il rischio di una normalizzazione troppo tardiva e troppo graduale”.
Come prima e peggio di prima, insomma: questo è il rischio che sta montando sotto i nostri piedi e i cui segnali s’intravedono ormai troppo numerosi per ignorarli. E i paesi anglosassoni, che prima e più degli altri hanno iniziato questa contraddanza, sono i primi che dovranno farci i conti.
Prendete gli Usa. Gli ultimi dati sulla disoccupazione dicono che è diminuita al 6,1%, a fronte di un 6,3%, ben al di sotto del 6,5 che l’ex boss Bernanke aveva indicato come soglia per iniziare il tapering. Ricordiamo tutti il caos che scoppiò a maggio 2013 sui mercati internazionali. Tanto che la Fed si premurò di spiegare che avrebbe tenuto conto di altre variabili, preferibilmente fumose, e lo stesso ha fatto la Banca d’Inghilterra, che ormai parla genericamente di quadro macroeconomico.
Fatto sta che ormai i mercati si aspettano che la Fed inizi a far salire i tassi nel 2015. Ma una cosa è aspettarselo, un’altra è vederlo accadere.
Anche perché nel frattempo la Banca del Giappone ha lanciato la sua personalissima riscossa contro la ventennale deflazione, promettendo urbi et orbi che inonderà il mondo di yen. La conseguenza è stata che la BoJ ha già accumulato asset nel suo bilancio equivalenti al 50% del Pil giapponese, di fronte ai quali il “misero” 20% di Fed, BoE e Bce sembra persino poca cosa.
E parliamo solo delle banche centrali principali, ossai di quelle che dettano la linea.
Se andiamo a vedere in alcuni paesi meno rilevanti, ma non per questo meno sistemici, scopriamo nei numeri l’effetto che queste politiche hanno avuto nei bilanci delle famiglie. Vale a dire coloro che con questi disastri dovranno farci i conti, qualora gli dèi della finanza dovessero nuovamente cadere nel baratro di una crisi di fiducia.
Anche in quest’analisi ci soccorre la Bis. La Banca ha preso in esame alcune economie avanzate, anche se di stazza minore rispetto ai colossi. In particolare: Australia, Canada, Nuova Zelanda, Norvegia, Svezia e Svizzera.
Tutte costoro condividono la circostanza di avere un elevato debito privato e un’inflazione più bassa dell’obiettivo, malgrado tassi nominali che in alcuni casi, come la Svizzera, sono praticamente a zero.
Ebbene, dal 2007 al 2014, il debito delle famiglie, in percentuale del reddito disponibile, è passato dal 155% a oltre il 175%, incoraggiato dai tassi negativi e dal costante aumento del mattone.
Cosa succederà a questi debiti quando i tassi americani cominceranno a salire?
Tutti conoscono la risposta.
Ma nessuno la dice.
La leggenda del Re Debitore
C’era una volta, in un paese lontano, un Re che doveva muover guerra a nemici ricchi e potenti che insidiavano il suo dominio sui mari del mondo.
Il Re chiamò il suo ministro e gli chiese se fra gli anfratti del castello fosse rimasto qualcosa del tesoro di guerra che sempre i regnanti stipavano per far fronte a improvvisi torbidi internazionali. Ma il ministro nicchiò: “Le casse sono vuote, vostra Maestà, tutto è stato speso per altre importanti campagne”.
Il Re si turbò non poco. Vide la sua grandezza futura sfumare d’improvviso per una misera questione di denaro.
Il vile metallo.
Le migliori menti del regno si misero all’opera. Studiarono metodi e sistemi, matematiche e filosofie. Finché un giorno qualcuno gridò eureka: “Maestà, disse una voce, ho la soluzione”.
“E sarebbe?” chiese il Re.
“Vostra Maestà deve chiedere un prestito. Deve indebitarsi”.
Il Re s’infuriò: “E qual è la novità, i Re si sono sempre indebitati. E poi noi neanche possiamo: dobbiamo chiedere l’autorizzazione al Parlamento e figuriamoci se..”.
“Vero”, rispose la voce, “ma stavolta…”
Stavolta il prestito non l’avrebbe chiesto il Re, ma una banca. Una banca nuova nuova, fresca di costituzione. La Banca avrebbe raccolto il capitale, addirittura 1.200.000 monete dai privati cittadini. Una volta sottoscritto e raccolto il capitale, la Banca lo avrebbe prestato a Sua Maestà all’8% di interesse. Sarebbe stata non una banca pubblica, ma una banca d’interesse pubblico, “Una finezza, Vostra Maestà”.
Il sovrano non comprese: non era versato nella materia dei mercanti di capitali, ma ad essi si affidò anima e cuore. L’urgenza della guerra giustificava il sodalizio. Anche perché, si disse, era un matrimonio a tempo: appena dodici anni, trascorsi i quali il debito sarebbe stato ripagato dal Sovrano alla Banca, che avrebbe restituito ai sottoscrittori quanto da loro versato e l’operazione si sarebbe conclusa.
I privati cittadini aderirono con entusiasmo. Il guadagno era certo e pure succulento, e la garanzia sicura. Anzi sicurissima: addirittura una Banca sposata col Sovrano.
Poi però una sera, ritornando a casa, uno cittadino, che aveva appena versato la sua quota di 10.000 monete, si accorse di avere la scarsella desolantemente vuota. Avrebbe dovuto pagare i suoi manovali, comprare le scorte per il suo commercio, riempire la sua dispensa. Si accorse, poveretto, che non aveva più abbastanza denaro per fare ciò che doveva, una volto prestato il valsente alla Banca.
Che fare?
Tale dilemma afflisse molti, anche perché allora, a differenza dei giorni nostri, le monete erano scarse e limitate.
I cittadini allora tornarono alla Banca e dissero: “Cara Banca, ti abbiamo presto i nostri soldi e buon pro’ ti facciano, ma adesso noi come facciamo a far girare i nostri commerci? Ci vengono a mancare ben 1.200.000 monete, senza le quali assai meno di prima potremo prosperare”.
La Banca li rassicurò. “Invece del vostro denaro, che rivedrete alla fine del prestito, io vi fornirò delle Note di Banca che testimoniano del debito che io Banca ho verso di voi. Tali biglietti potrete utilizzare per i vostri commerci, forti della garanzia della Banca sposata col Sovrano. E state pur certi che, una volta chiuso il prestito e le monete restituite, tali biglietti potranno essere distrutti”.
La Nota di Banca era un bel documento scritto con grafia araldica. C’era scritto che la Banca garantiva il pagamento della somma iscritta sopra e la firma del capo della Banca, persona degnissima e illustrissima di cui nessuno avrebbe mai dubitato. Quel debito, della Nota di Banca, sarebbe sicuramente stato ripagato.
Il tempo trascorse, ma solo pochi si accorsero che intanto era accaduto un miracolo. Il debito del Sovrano era diventato strumento di pagamento a disposizione del popolo.
Il debito pubblico una ricchezza privata.
Sorsero mercanti e cambiavalute che commerciavano le Note di Banco, che ormai tutti chiamavano Banconote. Nacquero i mercati di capitale. Le Borse.
Più felice di tutti era la Banca sposa del Sovrano, che emetteva Banconote, ossia suoi debiti, senza neanche dover pagare interessi su tali debiti che circolavano freneticamente, ma anzi guadagnando ogni volta che qualcuno gliene chiedeva, magari per fruire di un’anticipazione.
La Banca era divenuta una cornucopia. La personificazione giuridica di Re Mida. L’unico limite era il cielo.
Trascorsero i dodici anni previsti. Il Sovrano distratto da altre guerre che andava a combattere, e dalle promesse di un impero che andava a costituirsi, si dimenticò della scandenza del prestito, come accade a tutti i Sovrani che dimenticano i debiti, e la Banca non glielo ricordò, per una questione di riguardo. Neanche glielo ricordarono i sottoscrittori, che si erano visti restituire, oltre agli interessi, quote sembre crescenti di banconote, visto che la Banca non smetteva di produrne, che li avevano arricchiti oltremodo, visto che bastava passare in Banca, lasciare un credito, anche incerto, per avere in cambio fruscianti banconote al prezzo di un piccolo sconto.
Trascorsero i dodici anni, e nessuno fiatò. Che motivo c’era? Il Sovrano finalmente avrebbe potuto finanziare tutte le sue guerre senza bisogno di avere un tesoro. La Banca continuava a guadagnare scrivendo Banconote. I cittadini non vedevano più limiti alla crescita impetuosa di una risorsa che era sempre stata scarsa: la liquidità.
Da allora non sarebbe più mancata. Avrebbe garantito ricchezza e benessere a tutti, solo che si fosse lasciato sviluppare senza lacci e lacciuoli il meraviglioso mondo della finanza. E a patto che a nessuno,mai e poi mai, fosse venuto in mente di saldare i debiti. La congiura del silenziò segno il futuro di questo paese lontano.
E tutti vissero felici e contenti.
Come ogni leggenda, quella del Re Debitore nasce da una storia vera. La nostra risale al 1694, quando nel Regno Unito fu fondata la Banca d’Inghilterra, la prima Banca centrale del mondo. Raccolse 1.200.000 steriline in oro, all’8% per dodici anni che prestò al Sovrano che doveva muovere guerra alla Spagna e stampò una somma equivalente di banconote per il mercato interno.
Il resto lo sapete già