Etichettato: relazione annuale bis 2014
L’età della Grande Stagnazione
Euforico e insieme depresso, il mondo sta sperimentando l’inedito effetto della recessione patrimoniale che ne ha devastato le economie, interrogandosi sul punto dirimente di così tante analisi astruse. Vale a dire: da dove arriverà la crescita che tutti attendono come unico rimedio contro il male dell’indebitamento crescente?
Perché una cosa la crisi ce l’ha insegnata: è impensabile, e vagamente suicida, continuare a pensare di diminuire la massa debitoria contraendo semplicemente la spesa.
I dati mostrano con chiarezza che nei paesi in crisi laddove si è provveduto a diminuire la spesa, a livello pubblico o privato, i debiti sono ancora alti, sia in valore assoluto che in rapporto al Pil, deprimendosi quest’ultimo per via di un’austerità che ha provocato anche gravi danni al mercato del lavoro. Sicchè i vari soloni che almanaccano le masse con l’elencazione dei propri rimedi, alla fin fine concordano: bisogna tornare a crescere.
Ma è sul come che c’è poca chiarezza.
La Bis, nella sua relazione annuale, lo ripete ad ogni dove, ma poi alla fine concede che l’unico rimedio sono le mitiche riforme strutturali, e confessa che il mondo, ormai privo di una bussola efficiente, rischia una stagnazione secolare, pressato com’è dalla montagna di debiti, laddove i crediti corrispondenti sono impegnati in una costante ricerca di rendimenti, suicida anch’essa, e dalle urgenze demografiche, che prefigurano un deciso cambio di paradigma fra i cosìddetti scienziati economici.
Solo che di questo nuovo paradigma ancora non si scorge fisionomia alcuna che non sia stanca riproposizione di formule vuote. Con la conseguenza che ci sono rimaste solo le banche centrali a tenere in vita il moribondo, con massicce flebo monetarie che rischiano, laddove ripetute e insistenti, di far più danni del male alla prossima crisi del paziente.
Da dove ripartire, quindi?
“Il ripristino di una crescita mondiale sostenibile – scrive la Bis – pone sfide considerevoli. Nei paesi colpiti dalla crisi non è realistico attendersi che il livello del prodotto ritorni al trend pre-crisi”. Ciò in quanto “varie economie avanzate stanno ancora riprendendosi da una recessione patrimoniale. Le famiglie, le banche e, in misura minore, le imprese non finanziarie stanno risanando i propri bilanci e riducendo il debito eccessivo”.
Tale processo “è particolarmente avanzato negli Stati Uniti, mentre è ancora a uno stadio precoce altrove, compreso in un’ampia parte dell’area dell’euro. Le risorse devono inoltre essere destinate a nuovi impieghi più produttivi. Al contempo, molte EME (economie emergenti, ndr) si trovano nella fase finale di un boom finanziario, lasciando presagire per il futuro un possibile effetto di freno sulla crescita”.
Per avere un qualche elemento sui cui riflettere, è utile sottolineare che il divario fra prodotto pre-crisi e post-crisi è pari ad esempio al 12,5% circa negli Stati Uniti e al 18,5% nel Regno Unito, mentre è addirittura più ampio per la Spagna, al 29%.
L’esperienza insegna che tornare a vedere il prodotto crescere almeno quanto prima “accade raramente”, dopo una recessione patrimoniale, ossia dopo una crisi che accoppia una crisi finanziaria o bancaria a una crisi congiunturale. E basterebbe ricordare il caso del Giappone degli anni ’90, per averne contezza.
“Nemmeno le prospettive di ripristinare la crescita tendenziale sono brillanti”, avverte la Bis. Anche perché “la crescita della produttività nelle economie avanzate era già in calo prima della crisi e in diversi paesi le forze di lavoro si stanno già contraendo per effetto dell’invecchiamento della popolazione”.
Per capire le implicazioni delle osservazioni della Bis, dobbiamo ricordarci che il prodotto si compone di consumi, privati e pubblici, investimenti, scorte ed export netto. Atteso che la crescita dei consumi è limitata dai debiti, privati e pubblici, e dall’andamento non entusiasmante dei redditi, deflazionati dalla disoccupazione, bisognerebbe spingere sul pedale degli investimenti o delle esportazioni.
Queste ultime, a loro volta, incontrano un limite nella capacità dei consumi esteri, che non sfuggono alla generale stitichezza che affligge il mondo dei consumi, atteso che per vendere la mia merce devo pur sempre trovare qualcuno all’estero disposto a comprarla. Sicché rimangono gli investimenti, che sono veicolo di spesa, per cominciare, e, soprattutto, di occupazione, e quindi, indirettamente, di nuova domanda.
Giocoforza perciò interrogarsi sullo stato di salute degli investimenti internazionali.
A tal proposito la Bis ci ricorda che “gli investimenti sono tuttora inferiori ai livelli pre-crisi in numerose economie avanzate”, anche se ciò “non dovrebbe rappresentare un’importante zavorra per la crescita tendenziale”.
Il deficit degli investimenti è vieppiù elevato nel settore delle costruzioni, specie nei paesi che hanno registrato forti boom immobiliari “e quindi costituisce una correzione necessaria”. E tuttavia “anche la spesa per attrezzature è inferiore alla media pre-crisi”.
Tale andamento, nelle economie avanzate, è stato compensato dall’aumento tendenziale degli investimenti nelle economie emergenti che però, così investendo, si sono infilate in una situazione densa di complessità, legate come sono alla politica monetaria della Fed e ad alcune specificità locali, come quella cinese, a dir poco inquietanti. Basti ricordare che “gli investimenti in Cina” si collocano su livelli prossimi al 45% del Pil, quindi “insostenibilmente elevati”.
Ma in generale è la prospettiva di lungo periodo degli investimenti globali che solleva parecchi interrogativi.
La crescita degli investimenti fissi lordi rimane anemica, specie nei paesi colpiti più duramente. Il gap fra prima e dopo il bust è pari a 14 punti percentuali in Irlanda, 9 in Spagna, 4 negli Stati Uniti e 3 nel Regno Unito. E poiché “è irrealistico attendersi che gli investimenti in rapporto al PIL tornino sui livelli antecedenti la crisi nelle economie avanzate”, rimane da chiedersi la solita domanda: cosa dovremmo fare?
“Poiché i finanziamenti per le imprese non rappresentano un vincolo”, grazie alla inusitata disponibilità di capitali assai ben disposti a essere concessi in prestito, “appare più appropriato ricondurre la debolezza degli investimenti alla lente ripresa della domanda aggregata”.
E quindi il cerchio si chiude. La domanda non tira, appesantita dagli eccessi del debito e dalla paura del futuro, e gli investimenti, malgrado l’abbondante liquidità messa a disposizione dai mercanti del capitale, di conseguenza. E così, girando in tondo torniamo al punto di partenza: cosa dovrebbero fare i cervelloni che governano?
La Bis osserva che la risposta, o almeno una risposta, potrebbe essere su un migliorato aumento di produttività, capace di indebolire quell'”indebolimento tendenziale” che ormai va avanti da un decennio. E quindi, di nuovo, le famose riforme strutturali.
Senonché le politiche dal lato dell’offerta, chiamiamole così, portano con loro il fastidioso dettaglio che comunque serve anche una domanda capace di incontrarla, questa offerta. E così a naso, l’unico risultato plausibile di un così deciso riformarsi strutturalmente altro non pare possa essere che una gigantesca redistribuzione del reddito a favore dei produttori. Quindi una restrizione della labor share, che peraltro sembra assolutamente coerente con lo spirito del tempo. E d’altronde ha anche un senso: in un mondo in cui aumenta la popolazione, diventa più semplice trovare lavoro a basso costo.
E’ questo quel che ci aspetta? Riportare l’orologio della storia agli anni ’50, con un’Europa che replica le politiche migratorie e retributive dell’Italia di quel tempo?
Nessuno ha la risposta, ovviamente. Eppure la domanda insiste a presentarsi, sicché è opportuno darvene conto.
Anche perché l’alternativa, quella che più di tutte molti osservatori usano a mo’ di spauracchio, è quella di una “secolare stagnazione”. Quindi prodotto al lumicino bastante appena a pagare gli interessi su debiti divenuti ormai eterni, con gli spietati ragionieri europei a sforbiciare ogni anno qualcosa per garantire ai creditori il pagamento di quanto è loro dovuto grazie all’improntitudine degli stati.
Redistribuzione o stagnazione.
Ai posteri l’ardua sentenza, diceva il poeta.
L’ascesa dei merca(n)ti dei capitali
Mentre le banche, rese ormai timorose dai rimbrotti e addomesticate dai regolatori, retrocedono, la seconda decade del XXI secolo si segnala per un’altra circostanza storica, fra le tante che contribuiscono a fare del nostro un tempo meraviglioso: l’ascesa dei mercati del capitale. O dei mercanti, sarebbe più giusto dire, visto che costoro altro non fanno che collocare denaro laddove conviene per estrarne altro.
Lo fanno anche le banche, certo, e in particolare quelle che basano sul trading la loro attività di business. Ma la banca, vocazionalmente, è un intermediario che dà credito anche alla sedicente economia reale. I mercati dei capitali, al contrario, vocazionalmente, fanno semplicemente girare i soldi e così facendo hanno ampliato, pur replicandola, la funzione bancaria dell’intermediazione creditizia. E per di più lo fanno senza esser soggetti ai sempre più stringenti controlli regolamentari e seguendo come unica bussola l’interesse dei creditori, che loro affidano le risorse chiedendo sempre più rendimenti in cambio.
E poiché i debiti sono tanti nel mondo, e quindi anche i crediti, ecco che gli asset manager, ossia i mercanti dei capitali, sono diventati una delle categorie più sistemiche delle nostre economie. Tanto che la Bis, nella sua ultima relazione annuale, li ha giudicati meritevoli di un approfondimento che trovo interessante condividere con voi quale utile stimolo di riflessione, oltre che di informazione.
La premessa è che che le banche, dopo la grande paura seguita al 2008, hanno notevolmente ridimensionato la loro attività sul mercato dei capitali. Alcune hanno deciso di tornare a concentrarsi sul settore retail. Altre, dovendosi ricapitalizzare sulla spinta dell’irrigidimento regolamentare, hanno capitalizzato gli utili e quindi ridotto i prestiti. Altre ancora hanno trovato più conveniente dedicarsi ad attività core.
La conseguenza è stata che “l’intermediazione finanziaria per il tramite dei mercati ha guadagnato terreno. La crescita del settore del risparmio gestito ne è un esempio lampante”.
Metteteci pure che molte imprese hanno trovato più conveniente chiedere soldi al mercato, tramite prestiti obbligazionari, piuttosto che alle banche, le quali, oltre ad essere alquanto restie, non riuscivano a collocare i prestiti a un prezzo conveniente per il sottoscrittore, avendo una struttura dei costi di sicuro meno efficiente rispetto ai mercanti dei capitali.
Sia come sia, il fatto è che gli asset manager sono diventati dei pezzi grossi. “Poiché sono responsabili dell’investimento di ampi portafogli mobiliari, gli asset manager possono avere un impatto significativo sul funzionamento del mercato, sulle dinamiche dei prezzi delle attività e, in definitiva, sui costi di finanziamento di amministrazioni pubbliche, imprese e famiglie”.
Sono diventati i nuovi dèi che arbitrano (nel senso di arbitraggio) le nostre sorti. Quindi dovremmo amarli e rispettarli, come insegna la libretta.
Qui ci accontentiamo di conoscerli.
“Le società di asset management (asset management companies, AMC) – spiega la Bis – gestiscono portafogli di titoli per conto degli investitori finali, sia al dettaglio sia
all’ingrosso. Esse investono il risparmio delle famiglie e le eccedenze di liquidità delle piccole imprese, ma anche somme ingenti per conto di investitori istituzionali,
come fondi pensione pubblici e privati, compagnie di assicurazione, tesorerie aziendali e fondi di ricchezza sovrani”.
Nella estrema diversità delle forme contrattuali che legano gli asset manager con i loro clienti, tutte le AMC hanno una caratteristica pressoché comune: “Nella maggior parte dei casi, le AMC non mettono a rischio il proprio bilancio nella gestione di detti patrimoni. Offrono invece, a fronte di una commissione, economie di scala e di scopo sotto forma di competenze nella selezione dei titoli, nell’esecuzione e nel timing delle transazioni, nonché nell’amministrazione dei portafogli”.
Traducendo, si potrebbe dire che non rischiano nulla. Si limitano a far girare i soldi degli altri, a guadagnarci (e a far guadagnare) quando va bene e far perdere (i clienti) quando va male, ma spuntandoci comunque le loro brave commissioni.
Vi sono tuttavia alcune eccezioni che la Bis molto opportunamente ci ricorda.
Quella più vistosa è quella degli hedge fund, che investono assai rischiosamente (promettendo rendimenti adeguati) ma rischiando anche di proprio ed ottenendo remunerazioni sulla base delle performance.
“Una forma nascosta di leva finanziaria riguarda in maniera analoga le rassicurazioni implicite fornite dai fondi monetari sulla preservazione del capitale”. I fondi monetari, per chi non lo ricordasse, sono entità dove usualmente viene parcheggiata la liquidità e una delle componenti più rilevanti del mercato dei finanziamento all’ingrosso (wholesale funding) dove attingono a piene mani i vari sistemi bancari-ombra grazie ai quali i mercanti dei capitali prosperano. Questi fondi monetari vengono percepiti come parcheggi sicuri, e infatti offrono rendimenti assai contenuti. Peccato che l’esperienza abbia insegnato il contrario.
Questo scenario ci aiuta a contestualizzare i dati, che mostrano come dal 2002 al 2012, dove si ferma la seria della Bis, gli attivi del settore (che contempla 500 gestori aggregati) sono quasi raddoppiati, collocando ormai intorno ai 70 trilioni di dollari, un po’ sotto il livello raggiunto nel 2007, prima dell’armageddon, quando crollarono poco sopra i 50 trilioni. La crisi ovviamente non poteva risparmiare questi soggetti che alimentano e nuotano nel mare della liquidità.
A differenza delle banche, però, già dal 2009 le AMC si erano riprese. Le masse gestite avevano già superato i 60 trilioni e da lì hanno continuato a crescere. E soprattutto, è cresciuta la concentrazione di questi soggetti.
La Bis ha calcolato che i primi 20 gestori gestiscono quasi il 30% di questa montagna di soldi. Parliamo quindi di oltre 20 trilioni di dollari nella disponibilità di 20 società private.
“La concentrazione è massima al vertice, dove un ristretto gruppo di operatori domina le classifiche. Molte di queste AMC sono affiliate e/od operano all’interno dello stesso gruppo di grandi istituzioni finanziarie di rilevanza sistemica”. Ossia hanno dietro grosse banche che, improvvisamente, rispuntano come funghi. Lo shadow banking ha sempre bisogno del banking per funzionare, questo è chiaro.
Capite bene che razza di potere rappresentino questi gestori, in un mondo affollato di debitori in costante ansia da roll over come il nostro. E tuttavia, tale potere è ignoto al grande pubblico, come ben si addice una divinità, che si manifesta celandosi.
La Bis sottolinea come tale ascesa presenti vantaggi e svantaggi. Fra i primi la possibilità per chi cerchi credito di disporre di un canale alternativo a quello bancario, e ciò spiega perché il peso relativo dei mercanti di capitale sia cresciuto rispetto alle banche, e poi la circostanza che gli AMC attingano da varie fonti, e non soltanto ai risparmiatori, li espone a minori rischi di rimanere a secco.
Ma lo svantaggio è altrettanto evidente: “Il nesso fra incentivi e obiettivi che influenza le scelte delle AMC può incidere negativamente sulle dinamiche del mercato e sui costi di finanziamento dell’economia reale. I gestori di portafogli sono valutati sulla base dei risultati di breve periodo, e i ricavi sono legati alle oscillazioni dei flussi di
capitali dei clienti”.
Detto in altre parole, i mercanti di capitali esacerbano e aggravano il difetto principale della finanza contemporanea: la visione focalizzata sul breve e brevissimo periodo, oltre ad essere ostaggio di se stessi, come si è visto nel 2008.
Ma sarebbe strano il contrario. Se, vale a dire, un tempo di corto respiro come quello che stiamo attraversando non avesse generato entità che sul breve periodo ritmano la loro attività.
Il risultato è che queste entità sono fortemente procicliche. Detto in italiano vuol dire che vanno bene quando tutto va bene e peggiorano le cose quando tutto va male. E l’aumento della concentrazione può rafforzare tale prociclicità, “esercitando un influsso sproporzionato sulle dinamiche di mercato” arrivando a “produrre effetti sistemici di vasta entità”.
Viviamo in un mondo ricco e pericoloso, questo lo sapevamo già.
Dovremmo ricordarci che sono due facce della stessa medaglia.
Le banche centrali fanno esplodere i debiti delle famiglie
Nella forsennata crescita del credito, che ha finito col rinchiudere il mondo nella trappola del debito, le banche centrali del mondo giocano un ruolo rilevante, per non dire che ne sono direttamente responsabili.
Queste entità, che dall’esplodere della Grande Crisi hanno assurto al ruolo di demiurghi delle nostre società, hanno insieme il merito di aver evitato il tracollo – il redde rationem – e dall’altro di aver creato le premesse per il prossimo, che quando si presenterà sarà assai più problematico (e costoso) da gestire.
A ciò si aggiunganol’effetto disastroso che ha sugli animal spirit dei capitalisti l’idea che il denaro sia gratis – anzi a tassi negativi – e che le banche centrali siano diventati contenitori inesauribili di asset, laddove bilanci ormai tesi all’inverosimile non si sa più bene come né quando potranno tornare alla normalità.
La Bis ha gioco facile, nella sua ultima relazione annuale, a rilevare come dal 2007 al 2013 i bilanci delle banche centrali siano più che raddoppiati, superando quota 20 trilioni di euro a furia di riempirsi di obbligazioni, necessarie sostenere alcuni bilanci pubblici, e riserve. E ha gioco altrettanto facile nel notare che tanta fatica, che pure tutti dicono necessaria a fronteggiare il crack post Leham, ci abbia oggi condotti a vivere in un mondo assai più pericoloso di prima, dove il minimo timore di un aumento dei tassi fa esplodere la paura.
Ma ancor peggio, il gioco del credito facile ha sortito l’effetto opposto a quello che sarebbe stato utile per fronteggiare la drammatica crisi da debito privato che ha distrutto i bilanci pubblici di mezzo mondo: il debito privato, infatti, rimane intollerabilmente alto, quando non sia aumentato proprio in conseguenza dell’azione delle banche centrali, che hanno fatto sprofondare i tassi in territorio negativo in tutte le principali economie.
La normalizzazione, perciò, nessuno sa più bene cosa significhi. Cosa farne di questi 20 trilioni e oltre che gli stati hanno accumulato, e che ormai assomigliano a un gigantesco debito fuori bilancio, è mistero gioioso. E ancor più misterioso è capire come faranno a uscire dalla secca dei tassi a zero, che ormai fa scricchiolare la loro presunta indipendenza e, di conseguenza, la loro credibilità.
Sappiamo però alcune cose, che la Bis molto graziosamente ci comunica: “Un basso livello dei tassi di interesse non risolve il problema di un debito elevato. Può contenere i costi per il servizio del debito per qualche tempo, ma poiché incoraggia, anziché scoraggiare, l’accumulo di debito, amplifica l’effetto dell’eventuale normalizzazione”.
In pratica, quando e se le BC aumenteranno i tassi, poiché nel frattempo i privati si saranno riempiti di debiti a basso costo, l’effetto sulla sostenibilità di questi debiti sarà drammatico. E stavolta gli stati non potranno più metterci una pezza, atteso che devono già fare i conti con la sostenibilità fiscale dei loro bilanci.
Come se non bastasse, complice l’economia asfittica nella quale ci arrabbattiamo tutti, sono spuntate pure “pressioni disinflazionistiche impreviste, che rappresentano una sorpresa negativa per i soggetti indebitati ed evocano lo spettro della deflazione”. Il che costringe i banchieri centrali, BCE in testa, ad inventarsi nuovi strumenti per dare ossigeno ai prezzi, quindi espandendo ulteriormente il credito, ammesso che qualcuno lo voglia.
Quo usque tandem abutere, patientia nostra? direbbe Cicerone.
“Per tutto il tempo che sarà necessario”, potrebbe rispondere un banchiere centrale parafrasando il celebre detto di Mario Draghi.
E infatti le varie forward guidance dicono tutte la stessa cosa: la politica monetaria accomodante durerà finché serve.
Peccato che la Bis non abbia dubbi quando afferma che “l’efficacia della forward guidance in presenza di tassi ufficiali alla soglia zero appare limitata”. Si fa per dire, insomma, piuttosto che dire per fare.
La verità, però, che la Bis teme anche se non lo dice, è che neppure i banchieri sanno come uscire dal cul de sac nel quale si sono infilati. “La transizione sarà probabilmente un percorso complicato e accidentato, indipendentemente da come verrà comunicata; in parte per questi motivi, non va sottostimato il rischio di una normalizzazione troppo tardiva e troppo graduale”.
Come prima e peggio di prima, insomma: questo è il rischio che sta montando sotto i nostri piedi e i cui segnali s’intravedono ormai troppo numerosi per ignorarli. E i paesi anglosassoni, che prima e più degli altri hanno iniziato questa contraddanza, sono i primi che dovranno farci i conti.
Prendete gli Usa. Gli ultimi dati sulla disoccupazione dicono che è diminuita al 6,1%, a fronte di un 6,3%, ben al di sotto del 6,5 che l’ex boss Bernanke aveva indicato come soglia per iniziare il tapering. Ricordiamo tutti il caos che scoppiò a maggio 2013 sui mercati internazionali. Tanto che la Fed si premurò di spiegare che avrebbe tenuto conto di altre variabili, preferibilmente fumose, e lo stesso ha fatto la Banca d’Inghilterra, che ormai parla genericamente di quadro macroeconomico.
Fatto sta che ormai i mercati si aspettano che la Fed inizi a far salire i tassi nel 2015. Ma una cosa è aspettarselo, un’altra è vederlo accadere.
Anche perché nel frattempo la Banca del Giappone ha lanciato la sua personalissima riscossa contro la ventennale deflazione, promettendo urbi et orbi che inonderà il mondo di yen. La conseguenza è stata che la BoJ ha già accumulato asset nel suo bilancio equivalenti al 50% del Pil giapponese, di fronte ai quali il “misero” 20% di Fed, BoE e Bce sembra persino poca cosa.
E parliamo solo delle banche centrali principali, ossai di quelle che dettano la linea.
Se andiamo a vedere in alcuni paesi meno rilevanti, ma non per questo meno sistemici, scopriamo nei numeri l’effetto che queste politiche hanno avuto nei bilanci delle famiglie. Vale a dire coloro che con questi disastri dovranno farci i conti, qualora gli dèi della finanza dovessero nuovamente cadere nel baratro di una crisi di fiducia.
Anche in quest’analisi ci soccorre la Bis. La Banca ha preso in esame alcune economie avanzate, anche se di stazza minore rispetto ai colossi. In particolare: Australia, Canada, Nuova Zelanda, Norvegia, Svezia e Svizzera.
Tutte costoro condividono la circostanza di avere un elevato debito privato e un’inflazione più bassa dell’obiettivo, malgrado tassi nominali che in alcuni casi, come la Svizzera, sono praticamente a zero.
Ebbene, dal 2007 al 2014, il debito delle famiglie, in percentuale del reddito disponibile, è passato dal 155% a oltre il 175%, incoraggiato dai tassi negativi e dal costante aumento del mattone.
Cosa succederà a questi debiti quando i tassi americani cominceranno a salire?
Tutti conoscono la risposta.
Ma nessuno la dice.
I tormenti dei creditori
Se il mondo è finito nella trappola del debito, come efficacemente rileva la Bis nel suo ultimo rapporto annuale, vuol dire che insieme ai debitori, che sono persone, famiglie, imprese e intere collettività, sono finiti in trappola anche gli abitanti dell’altra metà del cielo, da sempre occultati nel discorso economico, ossia i creditori. Quelli che, rivelando un pudore che la dice lunga su sostrato psicologico del nostro discorso economico, i resoconti ufficiali chiamano risparmiatori, per intenderci.
Costoro dovrebbero suscitare la nostra pena, costretti come sono a subire il tormento sofferto da chi ha troppi soldi, creati per magia da entità alchemiche che si chiamano banche centrali, e non sa dove metterli. E sono convinto che molti italiani, pure se non lo ammetterebbero mai perché ci piace rappresentarci straccioni e finto poveri, questo tormento lo hanno sperimentato e lo stanno sperimentando sulla loro pelle.
Ma cosa volete che siano le poche migliaia di euro di un piccolo risparmiatore rispetto ai trilioni di un fondo pensione?
Sicché dovremmo ricordarci che se è vero che il 2013 è stato un anno eccezionale per i paperoni di tutto il mondo, è altresì vero che tali guadagni sono stati frutto di patimenti altrettanti corposi: gioie e dolori, viene da dire, scrutando da lontano il flusso emergente di una montagna di spazzatura finanziaria che, dalla marea declinante dei rendimenti, emerge come un mucchio di cadaveri che si pensava di aver sepolto una volta per tutte, dopo la carneficina post Lehman del 2008.
Già mi pare di sentirli i vostri pensieri: ah magari lo avessi io il problema di dove mettere i soldi, quando ho quello contrario, ossia di dove prenderli.
Ma sono pensieri automatici, frutto di un’epoca automatica nella quale il mainstream suggerisce a ognuno di noi persino cosa pensare, non badateci.
Concentriamoci invece sui tormenti dei creditori perché costoro, che per natura faranno affogare coloro a cui prestano prima di affogare loro (e di conseguenza) ormai sono il vero primo e forse unico potere del nostro esausto mondo, costretto a finanziare ogni anno gigantesche quantità di obbligazioni e quindi obbligato a chinare il capo e a farsi benedire dai possidenti.
Ma questo è il tormento del debitore, che conosciamo tutti bene.
Il tormento del creditore è di natura assolutamente diversa. Anche lui, come il debitore, conosce l’insonnia, ma per opposte ragioni. L’uno calcola la propria incapienza, l’altro è insonne perché nulla cura la sua inesausta fame di rendimento.
Carnivoro perciò, questo animale astruso, ma solo di temperamento, perché poi di bocca buona com’è lo si potrebbe definire onnivoro, come il maiale e l’uomo.
La Bis, sempre prodiga di ragguagli morali nascosti dietro la patina della contabilità, ci racconta che costoro, i creditori, ormai disperano di trovare alcunché capace di dare ostello dignitoso alla loro fortuna numeraria.
Ormai comprano di tutto, purché possano spuntare qualche punto base in più del decennale americano o, peggio ancora, di quello tedesco. La loro fame di rendimento li sta accecando e presto li perderà, sembra di capire, visto che – è sempre bene ripeterlo – il rendimento porta con sé il rischio.
“In questa situazione di elevata propensione al rischio – dice la Banca – le vivaci emissioni di titoli a più basso rating sono state accolte da una forte domanda da parte degli investitori”.
E ricordiamoci pure che “negli ultimi è stato emesso un volume considerevole di debito, sia nel segmento di qualità, sia in quello ad alto rendimento”. Ossia quello più rischioso. Quest’ultimo, giova saperlo visto che qui si fa la storia del debito, è esploso a 90 miliardi di dollari nel 2013, quando prima della crisi non arrivava a 30. Quale migliore nemesi per il creditore che essere costretto a navigare un post crisi peggiore del pre crisi?
Comprendete le ragioni del tormento?
No? Siete ancora invidiosi? Allora ve ne do un’altra.
“Nel mercato dei prestiti consorziali – dice la Bis – i finanziamenti erogati a mutuatari con merito di credito inferiore e alto grado di leva (prestiti leveraged) hanno superato il 40% delle nuove sottoscrizioni per gran parte del 2013 una quota superiore a quella pre‑crisi dal 2005 a metà 2007. La presenza di misure di protezione dei creditori sotto forma di clausole di salvaguardia (covenant) è diminuita sempre più nei nuovi prestiti”.
Meno protezioni, perciò, per queste Moby Dick creditrici che schiumano dollari mentre infiniti Achab debitori cercano di arpionarle per succhiargliene un po’.
La balena-creditrice mi suscita sempre più pena, poi, quando leggo che “l’attrazione degli investitori per le tipologie di prestiti più rischiose ha fomentato anche un aumento delle emissioni di attività come le obbligazioni payment-in-kind e i fondi di investimento immobiliare specializzati in mutui ipotecari (mREIT)“.
Spazzatura finanziaria, appunto, che uno credeva l’esperienza avesse consegnato alla storia e che invece riemerge dalla fossa nella quale era stata interrata nel biennio successivo alla crisi, quando i creditori, ormai tremanti, si rivolsero al Demiurgo che tutto può in cerca di protezione.
A proposito, sapetete come è andata a finire il fly-to-quality di quegli anni verso i sicurissimi bond pubblici americani?
E’ finito benissimo (per gli americani).
Sempre la Bis, Virgilio ideale, competente e sicuro, nei gironi in cui il creditore patisce i suoi tormenti infernali, giusto contrappasso per la sua avidità, tratteggia un box che già dal titolo la dice lunga: L’ondata di vendite 2013 nel mercato dei titoli del Tesoro Usa.
Già, qual è stato l’impatto dell’ondata di vendite di bond Usa sui portafogli dei poveri/ricchi creditori che tali titoli avevano comprato dopo il crack Lehamn per metterli al sicuro? Dipende da come si contano le perdite, spiega la Bis, che si spinge a confrontare l’ondata di vendite Usa scatenatasi da maggio 2013, dopo l’annuncio improvvido (o subdolamente provvido) dell’ex boss della Fed che presto il tapering sarebbe iniziato, con quella accaduta nel 1994 e poi nel 2003.
Anche in questi due casi a far detonare l’ondata di vendite fu un rialzo dei tassi Usa che evidentemente, ben consci del loro “esorbitante privilegio” ci marciano e non ci pensano due volte a tosare i poveri creditori che hanno affidato loro i loro sudatissimi risparmi.
Ebbene, nel 2013, spiega la Bis, “le perdite ai prezzi correnti di mercato sui singoli titoli durante le turbolenze del 2013 non sono state pari a quelle del 1994 e del 2003. Ma un tratto distintivo dell’ondata di vendite del 2013 è stata la massiccia espansione delle consistenze di debito a seguito della crisi finanziaria”. Quindi le perdite sono state minori, sui prezzi correnti, ma maggiori sullo stock. Ed è facile capire perché: “Fra gli inizi del 2007 e il 2014 lo stock di titoli del Tesoro USA negoziabili in essere è pressoché triplicato, passando da $4 400 a 12.100 miliardi, e al suo interno è aumentata la quota di titoli detenuti nell’ambito del Federal Reserve System Open Market Account”.
Conclusione: “A causa della forte espansione dello stock di titoli del Tesoro USA dalla crisi finanziaria, l’ondata di vendite del 2013 sui mercati obbligazionari ha generato una perdita aggregata maggiore, in termini sia di dollari sia di PIL, rispetto alle turbolenze del 1994 e del 2003. Fra maggio e fine luglio 2013 l’insieme dei detentori del debito statunitense è incorso ai prezzi correnti di mercato in perdite cumulate intorno ai $425 miliardi, equivalenti a circa il 2,5% del PIL. Le perdite aggregate stimate per l’ondata di vendite del 2003
ammontarono a $155 miliardi, pari all’1,3% del PIL, e quelle del 1994 a circa $150 miliardi, intorno al 2% del PIL”.
Se queste piccole storie non vi hanno mosso a compassione per i poveri/ricchi creditori, allora almeno abbiatene per quei poveracci che dei loro tormenti devono farsi carico, dovendone amministrare le fortune e, peggio ancora, dovendo pure render conto.
“Gli intermediari con passività fisse – osserva la Bis – (ad esempio compagnie assicurative e fondi pensione) o i gestori patrimoniali che promettono ai clienti un rendimento fisso, possono reagire a un contesto di tassi bassi assumendo un maggior rischio di duration o di credito. Anche i sistemi di retribuzione nel settore della gestione patrimoniale, che legano il compenso a misure di performance assolute, possono contribuire in modo rilevante a incoraggiare la ricerca di rendimento da parte dei gestori”.
Ecco perciò la tirannide del creditore, direttamente proporzionale al suo tormento, che cresce come una malapianta che avvolge tutti, e sovente neanche ce ne rendiamo conto. Dal grande fondo pensione, che amministra il risparmio previdenziale dell’impiegato, alla banca, che usa chissà come i faticosi risparmi della pensionata, all’asset manager, che smista i milioni del rentier. Tutti insieme appassionatamente.
Aspettando il redde rationem.