Etichettato: debito privato

Cartolina. Debito privato, problema pubblico

La Bis ci ricorda in un recente Bollettino che il debito privato, specie nei paesi avanzati, è diventato un tema rilevante. Non perché prima non lo fosse, ma per la semplice ragione che questa montagna oggi deve confrontarsi con un costo crescente del suo servizio. Detto diversamente, avere debito costa di più. E non costa di più solo agli stati, che quindi dovranno trovare il modo di far quadrare i conti, ma anche allo stato in miniatura rappresentato dal bilancio familiare di ognuno di noi, peraltro alle prese con un’inflazione che se da un lato erode il valore reale dei debiti, dall’altro prosciuga il potere d’acquisto, a fronte di redditi a dir poco stagnanti. Insomma: aumenta la rata del mutuo, e insieme il costo del pane, ma a me entra in tasca sempre lo stesso. Sarà pure privato, questo debito. Ma è un problema pubblico.

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Il QE non frena la galoppata del debito privato

Anche i più estenuati corifei dei vari quantitative easing dovranno farsi piacere un’antipatica evidenza che il Fmi sottolinea nel suo ultimo Global financial stability report: l’allentamento monetario non ha fatto diminuire la montagna di debito che grava sul nostro futuro. L’ha erosa qua e là, ma solo per spostarne il peso relativo da un punto all’altro del globo, e per certi versi l’ha incoraggiata. Ma il macigno è ancora fra noi, pesante e sempre più difficilmente gestibile.

Quel che è peggio, “guardando avanti, la crescita prevista sotto le attuali condizioni monetarie, sarà probabilmente insufficiente a ridurre il livello del debito significativamente”.

E quindi?

Semplice: il debito del nostro tempo rimane eterno. Ci costringe a rischiare sempre più il collo, come individui e come società, per riuscire a sostenerlo, e genera un costo che va ben al di là di quello rappresentato dagli interessi che matura ogni anno: è un costo che grava sulle potenzialità di crescita, sulla programmazione delle politiche economiche, sul welfare.

Viviamo, per così dire, sotto ipoteca, godendo schizofrenicamente ogni qualvolta una banca centrale affossa i rendimenti, come se ce ne venisse in tasca qualcosa oltre ai maggiori rischi che tali decisioni sussumono. E malgrado ce lo dicano pure a chiare lettere, come fa peraltro anche il Fmi, che stiamo vivendo molto pericolosamente.

Detto ciò, è sempre utile capire a che punto siamo, e a questo servono i rapporti internazionali. A tal proposito il Fmi nota che “le politiche monetarie accomodanti nelle economie avanzate hanno aiutato a ridurre il debito privato non finanziario supportando l’inflazione e la crescita e aumentando il valore degli asset”.

Ma è altresì vero che il disindebitamento non è avvenuto ovunque con le stesse modalità. In Europa si è proceduto attraverso pagamenti e/o svalutazione dei debiti. Nei paesi anglosassoni, dove il QE è cominciato anni fa, tramite l’accoppiata inflazione&crescita. E tuttavia nessuno dei due metodi sembra abbia funzionato pienamente: “L’indebitamento del settore privato rimane elevato in molte economie”.

I grafici proposti dal Fmi fotografano con bene questa evidenza. Negli Usa e in UK, dove il deleveraging è stato deciso, i debiti delle famiglie sono passati, rispettivamente, da circa il 90% e il 100% del Pil del 2008 al 90% e poco meno dell’80% del 2014. Quello delle imprese non finanziarie dal 70% e 100% del 2008, al 65% e 75% del 2014.

Nella zona euro le famiglie hanno raggiunto il loro picco di debito nel 2008 a poco sopra il 60% del Pil e da quel livello i ribassi sono stati minimi, mentre le imprese, che avevano superato il 100% del Pil ora stanno poco sotto.

In Giappone le famiglie si sono mosse poco dal loro circa 70% del pil di debiti e le imprese non finanziarie, che avevano raggiunto il 110% ora viaggiano intorno al 100%.

Se vi sembra poco…

In questo sostanziale fallimento delle politiche eccezionali, celato dall’euforia finanziaria delle borse, se ne nasconde un altro: “Guardando avanti – dice il Fmi – la crescita e l’inflazione previste sotto le attuali condizioni monetarie saranno probabilmente insufficienti a ridurre i debiti significativamente”.

In particolare, “Il deleveraging macroeconomico fino al 2020 potrebbe ridurre il debito di famiglie e imprese, ma in diverse economie non sarà sufficiente a liminare il peso dell’alto debito”. Anzi “alcune economie avanzate i cui debiti sono cresciuti bruscamente, è ancora probabile avranno un livello di debiti vicino al loro livello pre crisi.

Come esempio viene citato quello del debito lordo del settore corporate di Francia, Italia, Portogallo e Spagna, che “rimarrebbe sopra o vicino al 70% del Pil nel 2020 sulla base delle correnti previsioni su crescita e inflazione”.

Benvenuti nel futuro.

 

 

L’età della Grande Stagnazione

Euforico e insieme depresso, il mondo sta sperimentando l’inedito effetto della recessione patrimoniale che ne ha devastato le economie, interrogandosi sul punto dirimente di così tante analisi astruse. Vale a dire: da dove arriverà la crescita che tutti attendono come unico rimedio contro il male dell’indebitamento crescente?

Perché una cosa la crisi ce l’ha insegnata: è impensabile, e vagamente suicida, continuare a pensare di diminuire la massa debitoria contraendo semplicemente la spesa.

I dati mostrano con chiarezza che nei paesi in crisi laddove si è provveduto a diminuire la spesa, a livello pubblico o privato, i debiti sono ancora alti, sia in valore assoluto che in rapporto al Pil, deprimendosi quest’ultimo per via di un’austerità che ha provocato anche gravi danni al mercato del lavoro. Sicchè i vari soloni che almanaccano le masse con l’elencazione dei propri rimedi, alla fin fine concordano: bisogna tornare a crescere.

Ma è sul come che c’è poca chiarezza.

La Bis, nella sua relazione annuale, lo ripete ad ogni dove, ma poi alla fine concede che l’unico rimedio sono le mitiche riforme strutturali, e confessa che il mondo, ormai privo di una bussola efficiente, rischia una stagnazione secolare, pressato com’è dalla montagna di debiti, laddove i crediti corrispondenti sono impegnati in una costante ricerca di rendimenti, suicida anch’essa, e dalle urgenze demografiche, che prefigurano un deciso cambio di paradigma fra i cosìddetti scienziati economici.

Solo che di questo nuovo paradigma ancora non si scorge fisionomia alcuna che non sia stanca riproposizione di formule vuote. Con la conseguenza che ci sono rimaste solo le banche centrali a tenere in vita il moribondo, con massicce flebo monetarie che rischiano, laddove ripetute e insistenti, di far più danni del male alla prossima crisi del paziente.

Da dove ripartire, quindi?

“Il ripristino di una crescita mondiale sostenibile – scrive la Bis – pone sfide considerevoli. Nei paesi colpiti dalla crisi non è realistico attendersi che il livello del prodotto ritorni al trend pre-crisi”. Ciò in quanto “varie economie avanzate stanno ancora riprendendosi da una recessione patrimoniale. Le famiglie, le banche e, in misura minore, le imprese non finanziarie stanno risanando i propri bilanci e riducendo il debito eccessivo”.

Tale processo “è particolarmente avanzato negli Stati Uniti, mentre è ancora a uno stadio precoce altrove, compreso in un’ampia parte dell’area dell’euro. Le risorse devono inoltre essere destinate a nuovi impieghi più produttivi. Al contempo, molte EME (economie emergenti, ndr) si trovano nella fase finale di un boom finanziario, lasciando presagire per il futuro un possibile effetto di freno sulla crescita”.

Per avere un qualche elemento sui cui riflettere, è utile sottolineare che il divario fra prodotto pre-crisi e post-crisi è pari ad esempio al 12,5% circa negli Stati Uniti e al 18,5% nel Regno Unito, mentre è addirittura più ampio per la Spagna, al 29%.

L’esperienza insegna che tornare a vedere il prodotto crescere almeno quanto prima “accade raramente”, dopo una recessione patrimoniale, ossia dopo una crisi che accoppia una crisi finanziaria o bancaria a una crisi congiunturale. E basterebbe ricordare il caso del Giappone degli anni ’90, per averne contezza.

“Nemmeno le prospettive di ripristinare la crescita tendenziale sono brillanti”, avverte la Bis. Anche perché “la crescita della produttività nelle economie avanzate era già in calo prima della crisi e in diversi paesi le forze di lavoro si stanno già contraendo per effetto dell’invecchiamento della popolazione”.

Per capire le implicazioni delle osservazioni della Bis, dobbiamo ricordarci che il prodotto si compone di consumi, privati e pubblici, investimenti, scorte ed export netto. Atteso che la crescita dei consumi è limitata dai debiti, privati e pubblici, e dall’andamento non entusiasmante dei redditi, deflazionati dalla disoccupazione, bisognerebbe spingere sul pedale degli investimenti o delle esportazioni.

Queste ultime, a loro volta, incontrano un limite nella capacità dei consumi esteri, che non sfuggono alla generale stitichezza che affligge il mondo dei consumi, atteso che per vendere la mia merce devo pur sempre trovare qualcuno all’estero disposto a comprarla. Sicché rimangono gli investimenti, che sono veicolo di spesa, per cominciare, e, soprattutto, di occupazione, e quindi, indirettamente, di nuova domanda.

Giocoforza perciò interrogarsi sullo stato di salute degli investimenti internazionali.

A tal proposito la Bis ci ricorda che “gli investimenti sono tuttora inferiori ai livelli pre-crisi in numerose economie avanzate”, anche se ciò “non dovrebbe rappresentare un’importante zavorra per la crescita tendenziale”.

Il deficit degli investimenti è vieppiù elevato nel settore delle costruzioni, specie nei paesi che hanno registrato forti boom immobiliari “e quindi costituisce una correzione necessaria”. E tuttavia “anche la spesa per attrezzature è inferiore alla media pre-crisi”.

Tale andamento, nelle economie avanzate, è stato compensato dall’aumento tendenziale degli investimenti nelle economie emergenti che però, così investendo, si sono infilate in una situazione densa di complessità, legate come sono alla politica monetaria della Fed e ad alcune specificità locali, come quella cinese, a dir poco inquietanti. Basti ricordare che “gli investimenti in Cina” si collocano su livelli prossimi al 45% del Pil, quindi “insostenibilmente elevati”.

Ma in generale è la prospettiva di lungo periodo degli investimenti globali che solleva parecchi interrogativi.

La crescita degli investimenti fissi lordi rimane anemica, specie nei paesi colpiti più duramente. Il gap fra prima e dopo il bust è pari a 14 punti percentuali in Irlanda, 9 in Spagna, 4 negli Stati Uniti e 3 nel Regno Unito. E poiché “è irrealistico attendersi che gli investimenti in rapporto al PIL tornino sui livelli antecedenti la crisi nelle economie avanzate”, rimane da chiedersi la solita domanda: cosa dovremmo fare?

“Poiché i finanziamenti per le imprese non rappresentano un vincolo”, grazie alla inusitata disponibilità di capitali assai ben disposti a essere concessi in prestito, “appare più appropriato ricondurre la debolezza degli investimenti alla lente ripresa della domanda aggregata”.

E quindi il cerchio si chiude. La domanda non tira, appesantita dagli eccessi del debito e dalla paura del futuro, e gli investimenti, malgrado l’abbondante liquidità messa a disposizione dai mercanti del capitale, di conseguenza. E così, girando in tondo torniamo al punto di partenza: cosa dovrebbero fare i cervelloni che governano?

La Bis osserva che la risposta, o almeno una risposta, potrebbe essere su un migliorato aumento di produttività, capace di indebolire quell'”indebolimento tendenziale” che ormai va avanti da un decennio. E quindi, di nuovo, le famose riforme strutturali.

Senonché le politiche dal lato dell’offerta, chiamiamole così, portano con loro il fastidioso dettaglio che comunque serve anche una domanda capace di incontrarla, questa offerta. E così a naso, l’unico risultato plausibile di un così deciso riformarsi strutturalmente altro non pare possa essere che una gigantesca redistribuzione del reddito a favore dei produttori. Quindi una restrizione della labor share, che peraltro sembra assolutamente coerente con lo spirito del tempo. E d’altronde ha anche un senso: in un mondo in cui aumenta la popolazione, diventa più semplice trovare lavoro a basso costo.

E’ questo quel che ci aspetta? Riportare l’orologio della storia agli anni ’50, con un’Europa che replica le politiche migratorie e retributive dell’Italia di quel tempo?

Nessuno ha la risposta, ovviamente. Eppure la domanda insiste a presentarsi, sicché è opportuno darvene conto.

Anche perché l’alternativa, quella che più di tutte molti osservatori usano a mo’ di spauracchio, è quella di una “secolare stagnazione”. Quindi prodotto al lumicino bastante appena a pagare gli interessi su debiti divenuti ormai eterni, con gli spietati ragionieri europei a sforbiciare ogni anno qualcosa per garantire ai creditori il pagamento di quanto è loro dovuto grazie all’improntitudine degli stati.

Redistribuzione o stagnazione.

Ai posteri l’ardua sentenza, diceva il poeta.

Debito pubblico? Quello privato è peggio

Nella pubblicistica economica l’argomento del debito pubblico è quello che ha più fortuna. Ogni giorno leggiamo fiumi di parole che ammaniscono sui rischi di dissesto per le contabilità pubbliche dei paesi occidentali, con il nostro debito pubblico che campeggia in bella evidenza come esempio da non seguire. Economisti e giornalisti ci avvisano dei rischi connessi al deficit, ci riempiono di chiacchiere sugli sbilanci fra debito e Pil, ci raccontano l’altalena dello spread.

All’ombra di questo dibattito, intanto, cresce senza sosta un’altra componente del debito, quella privata, che i più accorti sanno bene essere la vera mina vagante del sistema finanziario internazionale (insieme al debito estero, ma questa è un’altra storia), visto che l’aumento dell’indebitamento privato, sia esso relativo alle istituzioni finanziarie sia quello delle famiglie, componente quest’ultima assai più destabilizzante, può facilmente condurre a una crisi sistemica. Una banca si può sempre nazionalizzare (aumentando il debito pubblico). Una famiglia no. E quando la gran parte delle famiglie di un paese è sovraindebitata, i rischi per l’equilibrio generale si fanno assai più pronunciati.

Per questa ragione ci siamo letti un illiminante paper della Banca d’Italia (Household over-indebtedness: definition and measurement with Italian data) che analizza lo stato di salute del debito delle famiglie italiane, che purtroppo ha il limite di essere scritto con dati aggiornati al 2010, quindi non tiene conto del peggioramento generale registrato negli ultimi due anni.

E tuttavia ce n’è abbastanza per drizzare le antenne. Il punto più rilevante è che fra il 2006 e il 2010, in Italia, tutti gli indicatori che misurano il sovra-indebitamento sono cresciuti. Rispetto al passato il dato è molto rilevante. L’Italia, infatti, è un paese con un livello di indebitamento mediamente assai più contenuto rispetto ad altri paesi europei. Ma è vero altresì che nell’arco di un ventennio la quota di debito sul reddito lordo è passata da una media di poco più del 20% a oltre il 70.

Un altro dato rilevante è che, sempre fra il 2006 e il 2010, si è ridotta la quota di debito derivante da investimenti, tipicamente quello di un mutuo, mentre è aumentata la quota di debito per consumo (o credito al consumo che dir si voglia).

L’accelerazione della crisi, poi, ha fatto peggiorare tutti gli indicatori classici, come il debt-to-income ratio, ossia il rapporto fra debito e reddito, o il repayment-to-income, ossia la capacità di ripagare il debito. L’analisi della Banca d’Italia, tuttavia, è andata in profondità creando una serie di indici empirici basati anche su interviste al campione interessato.

Ma il risultato cambia poco: l’indebitamento delle famiglie italiane è cresciuto negli anni, e di conseguenza, è aumentata la percentuale delle famiglie che si possono considerare, alla luce di una serie di indicatori, sovraindebitate.

Uno studio del 2007  fatto su scala europea (quindi prima della crisi) valutava tale numero, per le famiglie italiane, intorno al 10%.

Le nuove risultanze della Banca d’Italia stimano che tale numero sia più basso: fra il 3 e l’8% a seconda dell’indicatore considerato. Ma tali percentuali contengono alcune informazioni rilevanti.

Per il 70% delle famiglie sovra-indebitate con una fascia di reddito bassa, ad esempio, l’ammontare complessivo del debito non supera i 20.000 euro. Può derivarne un problema sociale, notano i tecnici, ma non tale da turbare l’equilibrio sistemico.

Che vuol dire? Ad esempio che c’è un 6,2% di famiglie che, dopo aver pagato i debiti ogni mese, sprofonda sotto la soglia di povertà e un altro 1,15% di famiglie che sono in arretrato di almeno tre mesi sui pagamenti dei propri debiti. Questo non provoca turbamenti al sistema finanziario internazionale (perché comune i debiti vengono pagati), ma al sistema sociale sì.

Se però cambiamo indicatore e prendiamo quello che misura il debt-burden, ossia la relazione fra l’ammontare totale del debito e gli oneri ad esso connessi, viene fuori che il 70% delle famiglie sovraindebitate ha un debito sulle spalle di circa 100.000 euro, questo sì pericoloso per il sistema anche se magari riguarda solo un piccolo campione di famiglie. Ma all’epoca della crisi dei subprime americani, lo ricorderete, bastarono una manciata di default familiari per polverizzare la fiducia.

Al di là degli indicatori statistici, rimane il fatto che il 29,83% del totale delle famiglie riportano di avere “difficoltà o grandi difficoltà” per arrivare alla fine del mese.

Questo nel 2010.

Oggi sono di sicuro di più.