Etichettato: crisi finanziaria
A volte ritornano: la crisi del ’37
Stanco dell’attualità, così uguale a se stessa e per nulla edificante, mi trovo a frugare in archivi dimenticati a caccia di storie che mi aiutino a comprendere il presente, convinto come sono che laggiù, nel passato, affondino le radici della nostra attualità. Ciò che oggi è abitudinario, ieri è stato straordinario.
In una delle mie scorrerie, che da qualche mese gravitano intorno agli anni ’30 del secolo scorso, m’imbatto in una di quelle crisi dimenticate che sembrano prese di peso dalle nostre cronache: la terribile recessione dell’estate del ’37.
La crisi, come ormai accade da quasi un secolo, colpì in pieno gli Stati Uniti, che furono insieme l’epicentro e l’origine, e seguì a un periodo di relativa ripresa che aveva fatto sperare tutto il mondo che la devastazione seguita al ’29, e in particolare alla crisi finanziaria del 1931, con il portato di deflazione, disoccupazione e crisi valutarie che ne era conseguito, fosse ormai alle spalle. “L’improvviso arresto verificatosi negli Stati Uniti durante il secondo semestre del ’37 sorprese completamente il mondo”, scrisse la Bis nel ‘38.
Per darvi uni’idea della gravità della recessione che colpì gli Usa nell’estate del ’37, bastano solo alcuni dati. La produzione mondiale perse oltre il 33%. In valori assoluti, passò dai 12 milioni mensili di tonnellate di produzione della primavera del ’37, che aveva sovrastato del 20% il record delle dieci milioni di tonnellate del ’29, a poco più di otto milioni sul finire dell’anno. Il grosso del crollo di tale produzione fu registrato proprio negli Stati Uniti.
L’indice della Fed sulla produzione industriale americana passò da 117 in agosto a 84 a dicembre. Un crollo persino maggiore del ’29, quando l’indice passò da 121 a 103, e concentrato esclusivamente negli Usa. In tutto il resto del mondo, infatti, a parte la Francia, la produzione aveva continuato a salire per l’intero periodo. Ma bastò che il gigante americano, con il sul 40% di consumo globale di materie prime, starnutisse, pure violentemente, perché l’economia globale tornasse gravemente malata.
I prezzi ne risentirono parecchio. Gli indici dei prezzi delle materie prime crollarono anche di più. Negli Usa passarono dal picco di 200, fatto 100 il livello del 1931, a 130, ovvero al livello del ’33. A livello globale i prezzi delle derrate alimentari e delle materie prime industriali, alla fine del ’37, tornarono al livello della fine del 1930, anno terribile dei prezzi internazionali, da dove con estrema fatica e molte esitazioni erano ripartiti dal ’35 in poi. Quelli all’ingrosso, che pure avevano raggiunto la base 100 del ’29, avevano superato 90 nella prima metà del ’37. Un anno dopo puntavano decisi verso 80.
Gli indici di borsa di New York, che sul finire del ’36 avevano finalmente recuperato il livello del 1927, pari a 100, si erano impennati fino a 125 nel corso del ’37, per poi crollare alla fine dell’anno sotto il livello del ’35, a quota 75, con un picco di ribasso a 60 raggiunto alle metà del ’38.
Un burrasca di siffatte proporzioni sconvolse la ventata di ottimismo che si era diffusa negli Stati Uniti grazie alle politiche monetarie e fiscali volute dall’amministrazione Roosevelt che però, a quanto pare contenevano i semi della recessione futura.
L’amministrazione, infatti, aveva reagito al disastro del ’31, e a quello ancora maggiore dei primi mesi del ’33, quando le banche furono prese d’assalto dai risparmiatori impauriti, con una serie di atti straordinari, fra i quali l’uscita dal gold standard e la requisizione dell’oro ai cittadini, che condusse più tardi a una sostanziosa svalutazione del dollaro, proprio nel tentativo di far risalire i prezzi, a cominciare da quelli agricoli, che erano collassati.
Ciò aveva provocato un notevole afflusso d’oro negli Usa dal resto del mondo. Nell’arco di pochi anni le riserve erano arrivate a un livello senza precedenti. Talmente esagerate che a un certo punto la Fed, per evitare un’espansione incontrollata del credito bancario, dovette aumentare i requisiti di riserva.
Al contempo, sul versante fiscale, era cominciata un’ampia politica di spesa pubblica volute dall’amministrazione per uscire dalle secche della depressione.
Gli storici hanno calcolato che nel ’29 i consumi del governo, compresi gli investimenti, rappresentavano il 9% del Pil. Dieci anni dopo pesavano il 16. Nello stesso periodo la spesa federale passò dall’1,6% al 6,4% del Pil.
Tale prodigalità ebbe effetti evidenti sul debito lordo, che quotava appena il 16% del Pil nel ’29, basandosi la politica di bilancio degli Stati uniti sulla logica del pareggio. Le varie spend-lend di Roosevelt, generatrici di enormi quantità di capitale fittizio, già nel ’36 lo avevano più che raddoppiato, portandolo al 40% del Pil, talché il governo si convinse che fosse opportuno moderare i propri appetiti, da un lato, e far provviste, dall’altro. Peraltro, già prima della crisi, quindi nella primavera del ’37, Roosevelt aveva annunciato in una delle sue frequenti esternazioni che “alcuni prezzi erano saliti troppo”.
Ma già da un anno aumentavano le preoccupazioni sullo stato di salute del bilancio federale. Per tale ragione, già nel giugno del ’36, fu varato il Revenue Act, che aumentò sostanzialmente le tasse, fino all’aliquota marginale del 75% per i redditi più alti, mentre quella media per i redditi oltre i 4.000 dollari in pratica raddoppiò dal 6,4 all’11,6%. Quindi furono aggiunte altre tasse per finanziare la neonata Social Security, e infine, fu istituita una tassa sui profitti aziendali non distribuiti.
Il combinato disposto fra la diminuizione della spesa del governo e l’aumento delle tasse fu evidentemente contrazionario, ma assai meno di quanto reputi certa pubblicistica. La spesa del governo, quale componente del Pil, si contrasse del 2% nell’ultimo quarto del ’36 rispetto al trimestre precedente, del 19,9% nel primo quarto del ’37 e di un ulteriore 2,4% nel secondo. Quindi riprese a essere positiva a partire dalla metà del ’37, quindi a crisi conclamata, fino a rimbalzare del 19,3% nel primo quarto del ’38.
Di fronte all’esplosione della crisi, infatti, lo stesso Roosevelt si produsse nell’ennesimo annuncio, il 18 aprile del ’38, col quale fece sapere agli attoniti americani che il governo avrebbe iniettato altri due miliardi di spesa pubblica nel circuito economico. Con la conseguenza che già nel secondo quarto del ’38 la spesa governativa crebbe del 6,9%, quindi del 4% nel terzo e poi del 3,8% nell’ultimo quarto.
Al contempo fu sospesa la politica di sterilizzazione degli afflussi dell’oro, che fino ad allora il Tesoro accumulava in un fondo inattivo, e furono rilassate sostanzialmente le riserve bancarie. In sostanza, l’amministrazione riprese a spingere sul pedale del credito – i tassi di sconto a New York furono ribassati fino a sotto l’1% – e sulla spesa pubblica per far ripartire la crescita.
Ed eccolo qua il binomio spesa pubblica e credito facile, oggi ordinario, rivelare la sua natura straordinaria perché incardinato nell’agire economico in tempi straordinari come erano gli anni ’30, e segnatamente nell’America di Roosevelt.
Eppure già allora, come d’altronde, oggi, più d’uno nutriva dubbi non già sulle ricette in sé, che dipende sempre da chi sia il cuoco, ma sul loro ruolo di panacea universale per assicurare sempre e comunque la ripresa dell’economia. E soprattutto sulla circostanza che il ripeterle acriticamente fosse da consigliarsi.
“Sembra che in taluni circoli si sia un poco affrettatamente giunti alla conclusione che la politica del credito a buon mercato, perché addimostratasi utile per sormontare la depressione degli anni dal 1930 al 1933, debba rimanere immutata nell’avvenire, come base della prosperità economica, e che, per conseguenza, non debba procedersi ad alcun rialzo del saggio ufficiale di sconto della banca centrale”. Queste parole la Bis le scrisse nel ’39, ma sembrano dei giorni nostri.
Così come quando sottolinea che “una politica di lavori pubblici può giovare a stimolare il commercio se è concepita non già come surrogato, ma come parte di un vasto tentativo inteso a ricostituire l’equilibrio del sistema economico, ed i singoli metodi per la sua applicazione dovrebbero ispirarsi a questa considerazione primordiale. In particolare occorre evitare che una politica di lavori pubblici troppo estensiva accresca lo squilibrio già esistente”. Infatti, “una politica espansiva di spese pubbliche generalmente comporta grandi costruzioni finanziate mediante emissioni pubbliche, e la domanda di mano d’opera che ne consegue può facilmente portare al rialzo dei salari. Poiché si è constatato che l’aumento spontaneo d’attività nell’industria edilizia rappresenta un elemento sicuro, per non dire indispensabile, della ripresa generale dell’economia, l’aumento dei costi delle costruzioni può riuscire assai dannoso, in quanto esso pregiudica i benefici effetti sull’economia dell’aumentata occupazione nell’industria edilizia”.
Con l’aggiunta del mattone, il binomio spesa pubblica e credito facile diventa la perfetta trinità del nostro tempo, che quindi ha avuto un preciso inizio e un’ancora più precisa ragione storica, prima di diventare consuetudine.
O potremmo concludere citando ancora la Bis, che sempre nel ’39 scrisse che “fare assegnamento unicamente sulle misure espansionistiche rappresenta una pericolosa linea di condotta ; né il denaro a buon mercato, né l’elargizione di potere d’acquisto a carico del bilancio statale o attraverso l’aumento dei salari hanno ricondotto una durevole prosperità in alcun paese, quando fattori interni od esterni si opponevano al ristabilimento di un vero equilibrio fra costi e prezzi”.
La crisi del ’37, seppure non famosa come quella del ’29, ha l’aggravante che non sappiamo come sarebbe andata a finire. Nel senso che a fine del ’38 l’America stava un po’ meglio, ma ignoriamo cosa sarebbe successo dopo se non fosse scoppiata la guerra. La produzione americana, infatti, e con essa l’occupazione, crebbero a ritmo forsennato solo grazie all’economia di guerra.
L’odierno rallentamento dell’economia, a partire da quella statunitense, somiglia pericolosamente a questa crisi dimenticata. E oggi, come ieri, si crede che la soluzione si possa trovare solo continuando a spremere liquidità dalle banche centrali e debito dai governi. Che poi sempre di soldi pubblici si parla.
A proposito, a conclusione di questo breve viaggio credo sia utile evidenziare come la crisi del ’37 sia stata raccontata dagli economisti, e all’uopo mi servo di uno studio ad essa dedicata di François R. Velde che risale al 2009.
Per farvela breve, gli amanti della spesa pubblica addebbitarono la recessione alla stretta fiscale del ’36, anche se i dati che abbiamo visto sembrano raccontarla diversamente. I monetaristi, Friedman in testa, dissero che era stata colpa della politica monetaria, anch’essa restrittiva. Con ciò connotandosi, le due scuole economiche, per la sostanziale identità di vedute circa la necessità di dirigere pubblicamente l’economia, o per il tramite del fisco o del credito.
Una terza spiegazione riguarda invece il livello dei prezzi, e in particolare dei salari e della produttività del lavoro. Dopo l’approvazione del Werner Act del ’35, che codificò istituzionalizzandolo il ruolo dei sindacati nelle contrattazioni dell’industria, e anche in conseguenza del massicio impiego di risorse pubbliche negli investimenti, i salari americani crebbero notevolmente, di circa il 15% solo da inizio del ’37 a inizio crisi (agosto). Ciò a fronte di un produttività declinante. Basti considerare che nel ’37 gli americani lavoravano 42 ore a settimana a fronte della 60 giapponesi, dove infatti l’indice della produzione industriale cresceva senza sosta, sfiorando ormai quota 200. La crescita fuoi misura dei salari americani, si ipotizza, avrebbe finito con lo squilibrare i prezzi provocando prima una loro anomala salita (vedi allarme di Roosevelt) e poi il crollo.
“Se si può trarre una lezione politica da questa crisi – scrisse Velde – è che ci sono molti pericoli a interferire con i meccanismi del mercato”.
Molto modestamente io ne ho tratto un’altra: la storia non è maestra di vita, a dispetto dei proverbi. Da più di quarant’anni l’economia globale inanella una serie di disastri concentrici utilizzando tecniche che affondano le loro radici in un’epoca disastrosa. Anzinché imparare dagli errori li replichiamo.
La cosa triste è che neanche ce ne accorgiamo.
L’età della Grande Stagnazione
Euforico e insieme depresso, il mondo sta sperimentando l’inedito effetto della recessione patrimoniale che ne ha devastato le economie, interrogandosi sul punto dirimente di così tante analisi astruse. Vale a dire: da dove arriverà la crescita che tutti attendono come unico rimedio contro il male dell’indebitamento crescente?
Perché una cosa la crisi ce l’ha insegnata: è impensabile, e vagamente suicida, continuare a pensare di diminuire la massa debitoria contraendo semplicemente la spesa.
I dati mostrano con chiarezza che nei paesi in crisi laddove si è provveduto a diminuire la spesa, a livello pubblico o privato, i debiti sono ancora alti, sia in valore assoluto che in rapporto al Pil, deprimendosi quest’ultimo per via di un’austerità che ha provocato anche gravi danni al mercato del lavoro. Sicchè i vari soloni che almanaccano le masse con l’elencazione dei propri rimedi, alla fin fine concordano: bisogna tornare a crescere.
Ma è sul come che c’è poca chiarezza.
La Bis, nella sua relazione annuale, lo ripete ad ogni dove, ma poi alla fine concede che l’unico rimedio sono le mitiche riforme strutturali, e confessa che il mondo, ormai privo di una bussola efficiente, rischia una stagnazione secolare, pressato com’è dalla montagna di debiti, laddove i crediti corrispondenti sono impegnati in una costante ricerca di rendimenti, suicida anch’essa, e dalle urgenze demografiche, che prefigurano un deciso cambio di paradigma fra i cosìddetti scienziati economici.
Solo che di questo nuovo paradigma ancora non si scorge fisionomia alcuna che non sia stanca riproposizione di formule vuote. Con la conseguenza che ci sono rimaste solo le banche centrali a tenere in vita il moribondo, con massicce flebo monetarie che rischiano, laddove ripetute e insistenti, di far più danni del male alla prossima crisi del paziente.
Da dove ripartire, quindi?
“Il ripristino di una crescita mondiale sostenibile – scrive la Bis – pone sfide considerevoli. Nei paesi colpiti dalla crisi non è realistico attendersi che il livello del prodotto ritorni al trend pre-crisi”. Ciò in quanto “varie economie avanzate stanno ancora riprendendosi da una recessione patrimoniale. Le famiglie, le banche e, in misura minore, le imprese non finanziarie stanno risanando i propri bilanci e riducendo il debito eccessivo”.
Tale processo “è particolarmente avanzato negli Stati Uniti, mentre è ancora a uno stadio precoce altrove, compreso in un’ampia parte dell’area dell’euro. Le risorse devono inoltre essere destinate a nuovi impieghi più produttivi. Al contempo, molte EME (economie emergenti, ndr) si trovano nella fase finale di un boom finanziario, lasciando presagire per il futuro un possibile effetto di freno sulla crescita”.
Per avere un qualche elemento sui cui riflettere, è utile sottolineare che il divario fra prodotto pre-crisi e post-crisi è pari ad esempio al 12,5% circa negli Stati Uniti e al 18,5% nel Regno Unito, mentre è addirittura più ampio per la Spagna, al 29%.
L’esperienza insegna che tornare a vedere il prodotto crescere almeno quanto prima “accade raramente”, dopo una recessione patrimoniale, ossia dopo una crisi che accoppia una crisi finanziaria o bancaria a una crisi congiunturale. E basterebbe ricordare il caso del Giappone degli anni ’90, per averne contezza.
“Nemmeno le prospettive di ripristinare la crescita tendenziale sono brillanti”, avverte la Bis. Anche perché “la crescita della produttività nelle economie avanzate era già in calo prima della crisi e in diversi paesi le forze di lavoro si stanno già contraendo per effetto dell’invecchiamento della popolazione”.
Per capire le implicazioni delle osservazioni della Bis, dobbiamo ricordarci che il prodotto si compone di consumi, privati e pubblici, investimenti, scorte ed export netto. Atteso che la crescita dei consumi è limitata dai debiti, privati e pubblici, e dall’andamento non entusiasmante dei redditi, deflazionati dalla disoccupazione, bisognerebbe spingere sul pedale degli investimenti o delle esportazioni.
Queste ultime, a loro volta, incontrano un limite nella capacità dei consumi esteri, che non sfuggono alla generale stitichezza che affligge il mondo dei consumi, atteso che per vendere la mia merce devo pur sempre trovare qualcuno all’estero disposto a comprarla. Sicché rimangono gli investimenti, che sono veicolo di spesa, per cominciare, e, soprattutto, di occupazione, e quindi, indirettamente, di nuova domanda.
Giocoforza perciò interrogarsi sullo stato di salute degli investimenti internazionali.
A tal proposito la Bis ci ricorda che “gli investimenti sono tuttora inferiori ai livelli pre-crisi in numerose economie avanzate”, anche se ciò “non dovrebbe rappresentare un’importante zavorra per la crescita tendenziale”.
Il deficit degli investimenti è vieppiù elevato nel settore delle costruzioni, specie nei paesi che hanno registrato forti boom immobiliari “e quindi costituisce una correzione necessaria”. E tuttavia “anche la spesa per attrezzature è inferiore alla media pre-crisi”.
Tale andamento, nelle economie avanzate, è stato compensato dall’aumento tendenziale degli investimenti nelle economie emergenti che però, così investendo, si sono infilate in una situazione densa di complessità, legate come sono alla politica monetaria della Fed e ad alcune specificità locali, come quella cinese, a dir poco inquietanti. Basti ricordare che “gli investimenti in Cina” si collocano su livelli prossimi al 45% del Pil, quindi “insostenibilmente elevati”.
Ma in generale è la prospettiva di lungo periodo degli investimenti globali che solleva parecchi interrogativi.
La crescita degli investimenti fissi lordi rimane anemica, specie nei paesi colpiti più duramente. Il gap fra prima e dopo il bust è pari a 14 punti percentuali in Irlanda, 9 in Spagna, 4 negli Stati Uniti e 3 nel Regno Unito. E poiché “è irrealistico attendersi che gli investimenti in rapporto al PIL tornino sui livelli antecedenti la crisi nelle economie avanzate”, rimane da chiedersi la solita domanda: cosa dovremmo fare?
“Poiché i finanziamenti per le imprese non rappresentano un vincolo”, grazie alla inusitata disponibilità di capitali assai ben disposti a essere concessi in prestito, “appare più appropriato ricondurre la debolezza degli investimenti alla lente ripresa della domanda aggregata”.
E quindi il cerchio si chiude. La domanda non tira, appesantita dagli eccessi del debito e dalla paura del futuro, e gli investimenti, malgrado l’abbondante liquidità messa a disposizione dai mercanti del capitale, di conseguenza. E così, girando in tondo torniamo al punto di partenza: cosa dovrebbero fare i cervelloni che governano?
La Bis osserva che la risposta, o almeno una risposta, potrebbe essere su un migliorato aumento di produttività, capace di indebolire quell'”indebolimento tendenziale” che ormai va avanti da un decennio. E quindi, di nuovo, le famose riforme strutturali.
Senonché le politiche dal lato dell’offerta, chiamiamole così, portano con loro il fastidioso dettaglio che comunque serve anche una domanda capace di incontrarla, questa offerta. E così a naso, l’unico risultato plausibile di un così deciso riformarsi strutturalmente altro non pare possa essere che una gigantesca redistribuzione del reddito a favore dei produttori. Quindi una restrizione della labor share, che peraltro sembra assolutamente coerente con lo spirito del tempo. E d’altronde ha anche un senso: in un mondo in cui aumenta la popolazione, diventa più semplice trovare lavoro a basso costo.
E’ questo quel che ci aspetta? Riportare l’orologio della storia agli anni ’50, con un’Europa che replica le politiche migratorie e retributive dell’Italia di quel tempo?
Nessuno ha la risposta, ovviamente. Eppure la domanda insiste a presentarsi, sicché è opportuno darvene conto.
Anche perché l’alternativa, quella che più di tutte molti osservatori usano a mo’ di spauracchio, è quella di una “secolare stagnazione”. Quindi prodotto al lumicino bastante appena a pagare gli interessi su debiti divenuti ormai eterni, con gli spietati ragionieri europei a sforbiciare ogni anno qualcosa per garantire ai creditori il pagamento di quanto è loro dovuto grazie all’improntitudine degli stati.
Redistribuzione o stagnazione.
Ai posteri l’ardua sentenza, diceva il poeta.
La Cina prepara la sua prossima crisi bancaria
Perché nessuno possa dire di non esser stato avvertito, una pletora di istituzioni finanziarie ha ripetuto quello che sanno ormai tutti mentre fanno finta di non saperlo: il sistema finanziario cinese sta scricchiolando pericolosamente.
Si può fingere ancora di non sentire il rumore sinistro che ne deriva, come fanno gli investitori esteri che ancora nell’ultimo trimestre del 2013 hanno dirottato prestiti bancari per oltre 80 miliardi di dollari in Cina. O si può pretendere che la Cina sia invulnerabile, contando sulla mole delle sue riserve e dei suoi attivi commerciali, come sembrano auspicare i tanti attratti dal finto miracolo economico cinese.
Si può, ma se si avesse memoria si guarderebbe a un tempo assai vicino al nostro che al nostro somiglia assai pericolosamente.
Vi faccio qualche esempio.
Parte 1: “La crisi finanziaria ha anche messo in evidenza la fragilità del sistema finanziario cinese. Negli ultimi anni era divenuta sempre più manifesta la presenza di crediti in sofferenza nei portafogli delle principali banche statali (…). Sono stati inolte formulati programmi per la ristrutturazione delle banche e per un rafforzamento della normativa prudenziale”.
Parte 2: “I crediti verso i veicoli governativi locali sono cresciuti rapidamente negli anni recenti fino a 19 trilioni di yuan e alcune analisi suggeriscono che circa la metà di questi crediti siano non performing”.
Parte 3: “La rapidissima crescita ha creato un clima di continua espansione della domanda, favorendo uno straordinario aumento del rapporto credito bancario/PIL che non trova equivalenti nella recente storia dei paesi industriali”.
Parte 4: “Il settore delle banche commerciali in Cina è diventato molto grande, con un totale di asset che eccede il 200% del Pil, un livello che spesso presagisce crisi finanziarie”.
Parte 5: “Una causa di fragilità del sistema finanziario cinese sta nel fatto che le precedenti politiche di prestiti amministrati hanno lasciato un retaggio di crediti in sofferenza.Alcune banche hanno assunto esposizioni eccessive, nell’aspettativa implicita di un sostegno ufficiale qualora fossero subentrate difficoltà”.
Parte 6: “Il rischio di una crisi sistemica del sistema finanziario cinese dipedenderà dalla risposta dell’autorità”.
Bene, il gioco è semplice: alcune di queste frasi sono tratte dai rapporti annuale della BIS (l’italiana Bri) del 1997 e del 1998. Altre dal recente outolook sull’economia internazionale rilasciato dal’Ocse pochi giorni fa che, guarda caso, dedica un approfondimento proprio al periclitante sistema finanziario cinese. Ricorderte che pochi giorni fa anche il Fmi si era occupato della Cina, e in particolare del suo crescente sistema bancario ombra.
Credo sia inutile stare a sottolineare chi abbia detto cosa e quando: il succo è che la Cina si è di nuovo infilata nel tunnel di una probabile crisi bancaria, esattamente come era successo nella seconda metà degli anni ’90, quando il paese sperimentò un afflusso record di capitali esteri, con un sistema bancario sostanzialmente in bilico.
Gli studiosi delle cineserie ricorderanno che il governo, nella prima metà degli anni ’90, aveva creato le prime banche commerciali separandole da quelle più propriamente di sistema. Era caduto il muro e anche i mandarini cinesi volevano darsi un’aria di novità. Dimenticando però che le sedicenti banche commerciali avevano ereditato una mole di crediti più o meno inesigibili concessi ai tempi dei prestiti amministrati. E senza considerare che pure se formalmente commerciali, le banche rimanevano di proprietà pubblica, e quindi braccio finanziario delle politiche del partito.
Venne fuori, anche in conseguenza dello scoppio della crisi asiatica del ’97, che un buon 15% degli attivi di queste banche aveva crediti più o meno inesigibili. Il governo dovette intervenire e ricapitalizzare. Furono anche varate restrizioni regolamentari per evitare che la crisi si ripetesse, e per qualche anno il giocattolo si rimise in piedi.
Ma poi è arrivato un nuovo diluvio di soldi, nel primi dieci anni del XXI secolo. La Cina si è trovata nuovamente a dover gestire incredibili afflussi di capitali e una crescita al 10%, proprio come nel ’97, e la sensazione, assai perniciosa, di essere invincibile.
Per eludere le regole che disciplinavano il credito, le banche hanno replicato la lezione americana: ed ecco l’esplosione dello shadow banking. L’Ocse stima che il valore che muove il sistema bancario ombra oscilli fra il 44 e il 69% a fine 2012.
Le banche hanno portato fuori bilancio prestiti che non avrebbero potuto concedere ad entità privi dei requisiti prudenziali minimi. E per farlo hanno usato dei veicoli a loro non direttamente riconducibili. Al contempo, i destinatari di questi prestiti, per lo più entità finanziarie, si prendevano l’incarico di gestire i soldi dei cinesi ricchi, garantendo loro rendimenti più elevati dei normali depositi bancari. I famosi Wealth management product (WMPs) già oggetto delle amorevoli attenzioni del Fmi.
I soldi dei ricchi cinesi, remunerati a tassi più alti dei depositi bancari, sono finiti poi in mano ai famigerati Local Government financing Vehicles (LGFVs), ossia entità espressione dei governi locali, ai quali i regolamenti governativi hanno reso molto difficile prendere a prestito dalle banche. Perciò le banche hanno iniziato a prestar loro indirettamente tramite le banche ombra. Ed è ripartito il bengodi.
Oggi come negli anni ’90, i cinesi si sono accorti che una quota significativa di questi crediti concessi sono assai difficili da esigere. E parliamo di circa 19 trilioni di yuan di prestiti, pari al 37% del Pil a fine 2012.
Ricapitolo: le banche cinesi sono pesantemente esposte, anche se tramite le loro entità ombra, verso i veicoli finanziari dei governi locali. E, come se non fosse già pericoloso, sono anche molto esposte verso l’immobiliare. Questa esposizione pesa complessivamente circa il 30% del totale dei loro prestiti.
A proposito: gli asset totali del sistema bancario “ufficiale” cinese sono passati dai 53,1 trilioni di yuan del 2007 ai 151,4 del 2013, quindi sono triplicati, mentre il loro peso in relazione al Pil è passato dal 119,8% al 266%. Ciò nonostante, le banche esibiscono requisiti patrimoniali in ordine, capaci quindi di accollarsi le eventuali perdite delle loro banche ombra. Sempre che, è così non sembra che sia, i bilanci bancari cinesi incorporino con trasparenza l’esposizione fuori bilancio.
Come vedete, sembriamo tornati agli anni ’90. Il sistema è più sofisticato, appaiono nuove sigle, ma il succo rimane sempre lo stesso: un sistema bancario caracollante, peraltro fortemente dipendente dall’andamento dei corsi immobiliare, che semina rischi in giro per l’Asia. E per fortuna che finora i legami finanziari della Cina sono ancora tenui. Dovremmo ricordarci, come lavorano le banche cinesi, ogni volta che leggiamo di qualcuno che auspica l’apertura del conto capitale della Repubblica popolare.
Ma questo non vuol dire che una crisi bancaria cinese non avrebbe conseguenze sul resto del mondo. “Il rischio di ricadute finanziarie e commerciali internazionali potrebbe essere più grande di quanto previsto dai soli collegamenti diretti”, scrive oggi l’Ocse. Perché è vero che il sistema bancario cinese è ancora poco integrato con quello internazionale, ma “una turbolenza finanziaria in Cina può indebolire il sentiment degli investitori internazionali con conseguenze negative anche per la stabilità finanziaria degli altri paesi emergenti”.
In particolare sottolinea l’Ocse, il contagio “può passare da Hong Kong, dove grandi compagnie cinese e banche hanno presenze significative nel mercato azionario”, per non parlare dell’effetto indotto dai legami commerciali.
Perché nessuno possa dire che mai avrebbe immaginato sarebbe successo, ricordatevi di questa situazione una volta che l’America inizierà ad alzare i tassi, come fece nel 1994 dando il via a una catastrofe planetaria che cominciò dal Messico e colpì tutti i paesi emergenti.
Una crisi bancaria cinese non sarà certo la fine del mondo.
Ma la fine di un mondo di sicuro sì.