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Deglobalizzazione: vincono gli Usa, perde la Germania

C’è un evidente paradosso nell’ultimo Global Outlook dell’Ocse rimasto sotto traccia nel dibattito pubblico: da un lato l’appello agli stati a fare politiche espansive, meglio se in coordinamento globale. Dall’altro la constatazione che da anni il commercio internazionale, che è la cartina tornasole dell’autentica volontà che hanno gli stati di collaborare, è  in costante rallentamento dopo l’incredibile aumento delle restrizioni che gli stati hanno inflitto l’uno all’altro.

Questo paradosso ha finito con l’incarnarsi nel nuovo presidente statunitense. Trump è al contempo l’uomo politico che promette di rilanciare gli investimenti pubblici in infrastrutture, ossia ciò che l’Ocse propone, e insieme rilascia fra le sue prime dichiarazioni pubbliche la promessa di uscire dal TPP, il trattato con i paesi del Pacifico, dopo aver detto per tutta la campagna elettorale che l’accordo Nafta, stipulato con Canada e Messico, era una sciagura. Se è ancora prematuro parlare di vocazione isolazionista della nuova amministrazione Usa, sarebbe poco saggio sottovalutare i segnali. Le parole sono pietre, specie quando vengono pronunciate da uno degli uomini più potenti del mondo.

In attesa di vedere come si svilupperanno le politiche reali, è interessante partire dalle simulazioni Ocse circa la crescita potenziale che un’espansione fiscale coordinata potrebbe generare a livello globale. La situazione è illustrata in questo grafico. Come si vede, il grosso dell’aumento della crescita globale, che complessivamente pesa circa un punto in più di pil reale, si deve allo stimolo fiscale cinese e poi, dal 2017 in poi, a quello Usa, che dovrebbe esprimere il suo picco massimo l’anno dopo. Notate il contributo striminzito che arriva dall’eurozona.

Ma questo scenario deve essere contemplato insieme con quello immaginato da quest’altro grafico che misura l’effetto a medio termine delle restrizioni commerciali, che peraltro abbiamo già visto in notevole crescita negli ultimi anni. Secondo la simulazione, l’adozioni di politiche commerciali che facilitino gli scambi genera sul prodotto un effetto espansivo di oltre un punto e mezzo, mentre l’ipotesi contraria una perdita altrettanto pronunciata. E’ utile sottolineare che, sempre secondo questa simulazione, la perdita più grossa, quasi il 2%, la subirebbe un’economia avanzata che immettesse tali restrizioni, con effetti di contagio che valgono circa mezzo punto in meno di prodotto per gli altri.

Stando così le cose, insomma, la via migliore per espandere il prodotto sarebbe quella di favorire i commerci e insieme fare espansione fiscale, mentre il saldo rischia di essere negativo qualora all’espansione fiscale seguano restrizioni commerciali. Se volessimo fare un parallelo con la storia, potremmo ricordare che negli anni ’30 la notevole espansione fiscale decisa da Roosevelt negli Usa per uscire dalle secche della crisi del ’29 non bastò a fare uscire l’economia statunitense dalla crisi, probabilmente anche in ragione del fatto che nel frattempo era divenuta di moda l’autarchia e il commercio internazionale era decisamente collassato. Tale collasso fu favorito notevolmente dalla politiche di restrizioni che tutti gli stati adottarono, Usa in testa, e dalla crisi della Germania, che era uno dei pilastri del commercio internazionale. Se è vero che la storia non si ripete, non è certo saggio trascurarne gli insegnamenti, specie quando si notano alcune somiglianze, la principale delle quali è il ruolo centrale che gioca anche al giorno d’oggi la Germania negli scambi globali, e il peso specifico che tale posizione ha all’interno della Germania stessa.

Quest’ultimo è facilmente osservabile in questo grafico, che misura la quantità di lavoratori che in qualche modo sono collegati al settore industriale tedesco a vocazione export. Come si vede, il mercato del lavoro tedesco è quello che soffrirebbe di più da un raffreddarsi del commercio internazionale, al contrario di quello Usa, che è quello meno coinvolto.

Sarebbe ingenuo pensare che i politici decidano guardando i grafici. Però queste simulazioni Ocse permettono di dedurre una semplice congettura. Gli Usa possono permettersi la deglobalizzazione, e possono anche risultare vincitori in uno scenario di dissolvimento del commercio internazionale. La Germania no. Se la deglobalizzazione fosse un’arma, la Germania sarebbe certamente nel mirino. Gli Usa dalla parte del grilletto.

(2/fine)

Puntata precedente

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A volte ritornano: la crisi del ’37

Stanco dell’attualità, così uguale a se stessa e per nulla edificante, mi trovo a frugare in archivi dimenticati a caccia di storie che mi aiutino a comprendere il presente, convinto come sono che laggiù, nel passato, affondino le radici della nostra attualità. Ciò che oggi è abitudinario, ieri è stato straordinario.

In una delle mie scorrerie, che da qualche mese gravitano intorno agli anni ’30 del secolo scorso, m’imbatto in una di quelle crisi dimenticate che sembrano prese di peso dalle nostre cronache: la terribile recessione dell’estate del ’37.

La crisi, come ormai accade da quasi un secolo, colpì in pieno gli Stati Uniti, che furono insieme l’epicentro e l’origine, e seguì a un periodo di relativa ripresa che aveva fatto sperare tutto il mondo che la devastazione seguita al ’29, e in particolare alla crisi finanziaria del 1931, con il portato di deflazione, disoccupazione e crisi valutarie che ne era conseguito, fosse ormai alle spalle. “L’improvviso arresto verificatosi negli Stati Uniti durante il secondo semestre del ’37 sorprese completamente il mondo”, scrisse la Bis nel ‘38.

Per darvi uni’idea della gravità della recessione che colpì gli Usa nell’estate del ’37, bastano solo alcuni dati. La produzione mondiale perse oltre il 33%. In valori assoluti, passò dai 12 milioni mensili di tonnellate di produzione della primavera del ’37, che aveva sovrastato del 20% il record delle dieci milioni di tonnellate del ’29, a poco più di otto milioni sul finire dell’anno. Il grosso del crollo di tale produzione fu registrato proprio negli Stati Uniti.

L’indice della Fed sulla produzione industriale americana passò da 117 in agosto a 84 a dicembre. Un crollo persino maggiore del ’29, quando l’indice passò da 121 a 103, e concentrato esclusivamente negli Usa. In tutto il resto del mondo, infatti, a parte la Francia, la produzione aveva continuato a salire per l’intero periodo. Ma bastò che il gigante americano, con il sul 40% di consumo globale di materie prime, starnutisse, pure violentemente, perché l’economia globale tornasse gravemente malata.

I prezzi ne risentirono parecchio. Gli indici dei prezzi delle materie prime crollarono anche di più. Negli Usa passarono dal picco di 200, fatto 100 il livello del 1931, a 130, ovvero al livello del ’33. A livello globale i prezzi delle derrate alimentari e delle materie prime industriali, alla fine del ’37, tornarono al livello della fine del 1930, anno terribile dei prezzi internazionali, da dove con estrema fatica e molte esitazioni erano ripartiti dal ’35 in poi. Quelli all’ingrosso, che pure avevano raggiunto la base 100 del ’29, avevano superato 90 nella prima metà del ’37. Un anno dopo puntavano decisi verso 80.

Gli indici di borsa di New York, che sul finire del ’36 avevano finalmente recuperato il livello del 1927, pari a 100, si erano impennati fino a 125 nel corso del ’37, per poi crollare alla fine dell’anno sotto il livello del ’35, a quota 75, con un picco di ribasso a 60 raggiunto alle metà del ’38.

Un burrasca di siffatte proporzioni sconvolse la ventata di ottimismo che si era diffusa negli Stati Uniti grazie alle politiche monetarie e fiscali volute dall’amministrazione Roosevelt che però, a quanto pare contenevano i semi della recessione futura.

L’amministrazione, infatti, aveva reagito al disastro del ’31, e a quello ancora maggiore dei primi mesi del ’33, quando le banche furono prese d’assalto dai risparmiatori impauriti, con una serie di atti straordinari, fra i quali l’uscita dal gold standard e la requisizione dell’oro ai cittadini, che condusse più tardi a una sostanziosa svalutazione del dollaro, proprio nel tentativo di far risalire i prezzi, a cominciare da quelli agricoli, che erano collassati.

Ciò aveva provocato un notevole afflusso d’oro negli Usa dal resto del mondo. Nell’arco di pochi anni le riserve erano arrivate a un livello senza precedenti. Talmente esagerate che a un certo punto la Fed, per evitare un’espansione incontrollata del credito bancario, dovette aumentare i requisiti di riserva.

Al contempo, sul versante fiscale, era cominciata un’ampia politica di spesa pubblica volute dall’amministrazione per uscire dalle secche della depressione.

Gli storici hanno calcolato che nel ’29 i consumi del governo, compresi gli investimenti, rappresentavano il 9% del Pil. Dieci anni dopo pesavano il 16. Nello stesso periodo la spesa federale passò dall’1,6% al 6,4% del Pil.

Tale prodigalità ebbe effetti evidenti sul debito lordo, che quotava appena il 16% del Pil nel ’29, basandosi la politica di bilancio degli Stati uniti sulla logica del pareggio. Le varie spend-lend di Roosevelt, generatrici di enormi quantità di capitale fittizio, già nel ’36 lo avevano più che raddoppiato, portandolo al 40% del Pil, talché il governo si convinse che fosse opportuno moderare i propri appetiti, da un lato, e far provviste, dall’altro. Peraltro, già prima della crisi, quindi nella primavera del ’37, Roosevelt aveva annunciato in una delle sue frequenti esternazioni che “alcuni prezzi erano saliti troppo”.

Ma già da un anno aumentavano le preoccupazioni sullo stato di salute del bilancio federale. Per tale ragione, già nel giugno del ’36, fu varato il Revenue Act, che aumentò sostanzialmente le tasse, fino all’aliquota marginale del 75% per i redditi più alti, mentre quella media per i redditi oltre i 4.000 dollari in pratica raddoppiò dal 6,4 all’11,6%. Quindi furono aggiunte altre tasse per finanziare la neonata Social Security, e infine, fu istituita una tassa sui profitti aziendali non distribuiti.

Il combinato disposto fra la diminuizione della spesa del governo e l’aumento delle tasse fu evidentemente contrazionario, ma assai meno di quanto reputi certa pubblicistica. La spesa del governo, quale componente del Pil, si contrasse del 2% nell’ultimo quarto del ’36 rispetto al trimestre precedente, del 19,9% nel primo quarto del ’37 e di un ulteriore 2,4% nel secondo. Quindi riprese a essere positiva a partire dalla metà del ’37, quindi a crisi conclamata, fino a rimbalzare del 19,3% nel primo quarto del ’38.

Di fronte all’esplosione della crisi, infatti, lo stesso Roosevelt si produsse nell’ennesimo annuncio, il 18 aprile del ’38, col quale fece sapere agli attoniti americani che il governo avrebbe iniettato altri due miliardi di spesa pubblica nel circuito economico. Con la conseguenza che già nel secondo quarto del ’38 la spesa governativa crebbe del 6,9%, quindi del 4% nel terzo e poi del 3,8% nell’ultimo quarto.

Al contempo fu sospesa la politica di sterilizzazione degli afflussi dell’oro, che fino ad allora il Tesoro accumulava in un fondo inattivo, e furono rilassate sostanzialmente le riserve bancarie. In sostanza, l’amministrazione riprese a spingere sul pedale del credito – i tassi di sconto a New York furono ribassati fino a sotto l’1% – e sulla spesa pubblica per far ripartire la crescita.

Ed eccolo qua il binomio spesa pubblica e credito facile, oggi ordinario, rivelare la sua natura straordinaria perché incardinato nell’agire economico in tempi straordinari come erano gli anni ’30, e segnatamente nell’America di Roosevelt.

Eppure già allora, come d’altronde, oggi, più d’uno nutriva dubbi non già sulle ricette in sé, che dipende sempre da chi sia il cuoco, ma sul loro ruolo di panacea universale per assicurare sempre e comunque la ripresa dell’economia. E soprattutto sulla circostanza che il ripeterle acriticamente fosse da consigliarsi.

“Sembra che in taluni circoli si sia un poco affrettatamente giunti alla conclusione che la politica del credito a buon mercato, perché addimostratasi utile per sormontare la depressione degli anni dal 1930 al 1933, debba rimanere immutata nell’avvenire, come base della prosperità economica, e che, per conseguenza, non debba procedersi ad alcun rialzo del saggio ufficiale di sconto della banca centrale”. Queste parole la Bis le scrisse nel ’39, ma sembrano dei giorni nostri.

Così come quando sottolinea che “una politica di lavori pubblici può giovare a stimolare il commercio se è concepita non già come surrogato, ma come parte di un vasto tentativo inteso a ricostituire l’equilibrio del sistema economico, ed i singoli metodi per la sua applicazione dovrebbero ispirarsi a questa considerazione primordiale. In particolare occorre evitare che una politica di lavori pubblici troppo estensiva accresca lo squilibrio già esistente”. Infatti, “una politica espansiva di spese pubbliche generalmente comporta grandi costruzioni finanziate mediante emissioni pubbliche, e la domanda di mano d’opera che ne consegue può facilmente portare al rialzo dei salari. Poiché si è constatato che l’aumento spontaneo d’attività nell’industria edilizia rappresenta un elemento sicuro, per non dire indispensabile, della ripresa generale dell’economia, l’aumento dei costi delle costruzioni può riuscire assai dannoso, in quanto esso pregiudica i benefici effetti sull’economia dell’aumentata occupazione nell’industria edilizia”.

Con l’aggiunta del mattone, il binomio spesa pubblica e credito facile diventa la perfetta trinità del nostro tempo, che quindi ha avuto un preciso inizio e un’ancora più precisa ragione storica, prima di diventare consuetudine.

O potremmo concludere citando ancora la Bis, che sempre nel ’39 scrisse che “fare assegnamento unicamente sulle misure espansionistiche rappresenta una pericolosa linea di condotta ; né il denaro a buon mercato, né l’elargizione di potere d’acquisto a carico del bilancio statale o attraverso l’aumento dei salari hanno ricondotto una durevole prosperità in alcun paese, quando fattori interni od esterni si opponevano al ristabilimento di un vero equilibrio fra costi e prezzi”.

La crisi del ’37, seppure non famosa come quella del ’29, ha l’aggravante che non sappiamo come sarebbe andata a finire. Nel senso che a fine del ’38 l’America stava un po’ meglio, ma ignoriamo cosa sarebbe successo dopo se non fosse scoppiata la guerra. La produzione americana, infatti, e con essa l’occupazione, crebbero a ritmo forsennato solo grazie all’economia di guerra.

L’odierno rallentamento dell’economia, a partire da quella statunitense, somiglia pericolosamente a questa crisi dimenticata. E oggi, come ieri, si crede che la soluzione si possa trovare solo continuando a spremere liquidità dalle banche centrali e debito dai governi. Che poi sempre di soldi pubblici si parla.

A proposito, a conclusione di questo breve viaggio credo sia utile evidenziare come la crisi del ’37 sia stata raccontata dagli economisti, e all’uopo mi servo di uno studio ad essa dedicata di François R. Velde che risale al 2009.

Per farvela breve, gli amanti della spesa pubblica addebbitarono la recessione alla stretta fiscale del ’36, anche se i dati che abbiamo visto sembrano raccontarla diversamente. I monetaristi, Friedman in testa, dissero che era stata colpa della politica monetaria, anch’essa restrittiva. Con ciò connotandosi, le due scuole economiche, per la sostanziale identità di vedute circa la necessità di dirigere pubblicamente l’economia, o per il tramite del fisco o del credito.

Una terza spiegazione riguarda invece il livello dei prezzi, e in particolare dei salari e della produttività del lavoro. Dopo l’approvazione del Werner Act del ’35, che codificò istituzionalizzandolo il ruolo dei sindacati nelle contrattazioni dell’industria, e anche in conseguenza del massicio impiego di risorse pubbliche negli investimenti, i salari americani crebbero notevolmente, di circa il 15% solo da inizio del ’37 a inizio crisi (agosto). Ciò a fronte di un produttività declinante. Basti considerare che nel ’37 gli americani lavoravano 42 ore a settimana a fronte della 60 giapponesi, dove infatti l’indice della produzione industriale cresceva senza sosta, sfiorando ormai quota 200. La crescita fuoi misura dei salari americani, si ipotizza, avrebbe finito con lo squilibrare i prezzi provocando prima una loro anomala salita (vedi allarme di Roosevelt) e poi il crollo.

“Se si può trarre una lezione politica da questa crisi – scrisse Velde – è che ci sono molti pericoli a interferire con i meccanismi del mercato”.

Molto modestamente io ne ho tratto un’altra: la storia non è maestra di vita, a dispetto dei proverbi. Da più di quarant’anni l’economia globale inanella una serie di disastri concentrici utilizzando tecniche che affondano le loro radici in un’epoca disastrosa. Anzinché imparare dagli errori li replichiamo.

La cosa triste è che neanche ce ne accorgiamo.

Usa al bivio: In Go(l)d we trust

I malanni americani, ormai ultradecennali, ammalano il mondo da altrettanto tempo, e oggi, che si sono aggravati, è saggio chiedersi fino a che punto l’organismo economico che ancora ci nutre sarà in grado di funzionare senza che il deperimento si muti in consunzione e quindi morte.

Gli anni Dieci del XXI secolo rischiano di somigliare sempre più ai terribili anni ’30 del XX, dove furono gettate le basi della nostra società – ieri come oggi negli Stati Uniti, con il New Deal di Roosevelt – e dove pare il pendolo della storia voglia riportarci. Quindi verso un tempo di crisi bancariedeflazionario, protezionistico, di disordini valutari, con degna conclusione mercantilista che finì col trasformare la guerra economica in guerra tout court.

Ciò non vuol dire che la storia si ripeta, ma che dobbiamo ricordarla, questa storia, rileggendola fra le righe del presente, senza l’illusione che possa servire a evitare di ripetere gli stessi errori. C’è, nel comportamento dell’uomo e delle società, una prassi le cui motivazioni sfuggono alla ragionevolezza, guidata piuttosto da istinti ferini e pulsioni insensate. E il fatto stesso che la storia non si ripeta, ma sempre si somigli, dimostra come la nostra specie non sia riuscita a uscire dal cono d’ombra di se stessa.

Uno spunto molto interessante ce lo fornisce la Banca d’Italia, che a luglio scorso ha presentato uno studio (“Foreign exchange reserve diversification and the “exorbitant privilege”) che elabora un dato inedito. Ossia quantifica il peso che l’esorbitante privilegio di degaulliana memoria, rappresentato dall’avere gli Usa la moneta internazionale di riserva e di scambio, ha sull’economia americana in termini di prodotto. Il ragionamento è assai semplice: poiché le riserve globali negli ultimi anni sono quintuplicate, e dato che il dollaro pesa, secondo le stime più accreditate intorno al 60-65% del totale delle riserve, la domanda di asset in dollari finisce con l’abbassare i tassi per gli americani e ha quindi un effetto espansivo sull’economia. Bankitalia stima che se il 10% di questa domanda di riserve si spostasse verso l’euro, l’eurozona potrebbe godere di parte di questo esorbitante privilegio, quindi tassi più bassi, che si tradurrebbe in un aumento dei consumi nell’area, e quindi del Pil, di almeno l’1%, riducendo dello 0,3% il Pil degli Usa, dove prevarrebbe l’effetto inverso. Il che certo non giova a migliorare l’economia Usa né la sua sostenibilità fiscale.

Lo spostamento di riserve, inoltre, avrebbe influenza sui tassi e, indirettamente su un altro aspetto della sostenibilità fiscale degli Usa, atteso che il servizio del debito, ossia gli interessi pagati sulla montagna di debito pubblico americano, è una delle voci critiche, perché crescenti, della contabilità nazionale americana. Se le riserve si spostassero altrove i tassi per finanziare il debito americano si innalzerebbero più di quanto non accada adesso, e quindi la spesa per interessi aumenterebbe. Peggiorare la situazione fiscale Usa non è un buon viatico per il dollaro, alimentando i timori dei creditori, cinesi e giapponesi in testa, nonché degli esportatori di petrolio, che potrebbero innescare un capovolgimento degli equilibri economici solo spostando ulteriori quote di riserve da una valuta all’altra in un gioco di paure che autolimentano.

In sostanza, l’esorbitante privilegio contiene implicitamente un esorbitante rischio.

Senonché la storia ci ricorda che ogni qualvolta gli Usa si son trovati in difficoltà con la loro economia hanno sempre trovato il modo, certo anche grazie all’uso grazioso della loro military suasion, di far pagare il conto ad altri, e segnatamente agli europei e agli asiatici, infettando anche le loro economie e l’intero sistema monetario quando e quanto necessario.

Senza bisogno di andar troppo lontano, ma approfondirò un’altra volta, è sempre nei primi cento giorni del New Deal di Roosevelt che troviamo di che riflettere per rivedere, come in uno specchio, il nostro presente.

L’informazione mainstream tende a trascurare, fissata com’è sul principio della spesa pubblica in deficit, quale sia stata la politica monetaria che Roosevelt costruì già all’indomani del suo insediamento.

Pressato dalle crisi bancarie che arrivavano dall’Europa, e che avevano provocato un’emorragia di oro dalla banca centrale, la sua amministrazione varò un bank holiday nel 1933, chiudendo le banche per alcuni giorni per frenare la fuga dai depositi. Poi, poiché il deflusso d’oro non si fermava, promulgò lo stesso mese – era il marzo del ’33 – l’Emergency Banking Act, che dava all’amministrazione il potere di controllare i movimenti d’oro all’interno e all’esterno del paese. Neanche questo fermò i deflussi d’oro. Si arrivò perciò al 20 aprile del ’33, quando l’amministrazione sospese l’adesione al gold standard. Ciò portò con sé la proibizione di convertire dollari in oro e l’esportazione di metallo. E solo questo fermò i deflussi.

Di fatto, il governo esautorò la banca centrale. E questo è utilo ricordarlo, visto che si tende a pensare che le banche centrali siano entità indipendenti. E lo sono: finché il governo glielo consente.

Poiché il problema era l’oro, a quel tempo, Roosevelt fece tutto quanto era necessario (“Whatever it takes” direbbe Draghi) per separare il destino dell’America dall’oro che all’epoca, giova ricordarlo, era la moneta internazionale formalmente riconosciuta pure se nella versione affievolita del gold exchange standard. In pratica iniziò quel processo di demonetizzazione dell’oro che si concluderà alla fine degli anni ’60: gli Usa taglieranno ogni ulteriore legame con il metallo giallo, fino ad arrivare alla distruzione del sistema di Bretton Woods, che pure gli americani e lo stesso Roosevelt avevano imposto al mondo nel ’44, nell’agosto del ’71, quando il dollaro fu sganciato definitivamente dall’oro.

La quotazione dell’oro in dollari che Nixon nel ’71 abbandonò al suo destino, ossia 35 dollari l’oncia, era un’altra eredità dell’epoca di Roosevelt, come anche d’altronde lo stesso Bretton Woods.

A maggio del ’33, infatti, un emendamento all’Agricoltural relief act diede al presidente il potere – assoluto – di ridurre la quantità di oro necessaria a comprare un dollaro di almeno il 50%. Ma un mese prima, il 5 aprile del ’33, con l’ordine esecutivo 6102 il presidente aveva vietato agli americani di possedere oro, in monete o lingotti, ordinando al popolo di consegnare entro il 1 maggio del ’33 tutto l’oro in loro possesso alla Fed e al sistema delle banche federali.

Anche gli americani hanno dato l’oro alla patria, vedete. Persino due anni prima di quanto fece l’Italia fascista. E quella americana non fu una richiesta di donazione, ma una confisca. La legge prevedeva 10.000 dollari di multa e fino a 10 anni di carcere per i trasgressori.

Una volta requisito tutto l’oro della Patria e averne vietato l’esportazione – per farlo Roosevelt si servì dei poteri conferiti al presidente dal Trading With the Enemy Act, legge promulgata nel ’17, quindi in piena guerra, per limitare gli scambi commerciali con i paesi ostili alla guerra (quindi gli Usa si sentivano in guerra col mondo, a quel tempo) – partì la seconda fase dell’operazione: la svalutazione del dollaro.

Il dollaro quotava ancora 20,67 per un’oncia troy, così come era stato fissato nel 1900, quando gli Usa formalmente aderirono al Gold standard dopo un ventennio di torbidi provocati dalla circolazione dell’argento. Vale la pena sottolineare che a questo prezzo fu ripagato ai cittadini il fiume d’oro che gli americani portarono nelle casse della Fed.

Il presidente subì la seduzione delle teorie di George Warren, economista agrario, che era convinto che i prezzi agricoli sarebbero saliti semplicemente diminuendo il valore del dollaro. Non era quindi la sovrapproduzione agricola mondiale a far crollare i prezzi del cotone e del grano – diceva Warren – , né il recidersi delle catene globali a causa della crisi internazionale che stava distruggendo il commerci di beni e capitali, a causare la depressione, ma una semplice questione monetaria, di valore dell’oro. Warren era un gold believer, evidentemente.

Il presidente autorizzò la Reconstruction Finance Corporation, agenzia messa in piedi da Hoover dopo il panico bancario del 1931, sulla base della normativa di guerra del ’17, ad acquistare oro a prezzi crescenti per iniziare a “scaldare” il clima. Il prezzo dell’oro iniziò lentamente a salire finché, alla fine del ’33, il presidente ruppe il ghiaccio e decise di servirsi del potere di fissare il prezzo dell’oro ottenuto pochi mesi prima dal Congresso.

Si arrivò così al Gold Reserve Act, firmato il 30 gennaio del 1934, ossia alla rivoluzione monetaria che contrassegnò quella economica degli anni ’30 e affossò definitivamente le economie globali.

La sezione 2 dell’Act trasferì al Tesoro Usa la proprietà dell’oro che gli americani erano stati costretti a depositare presso la Fed, che dovette a sua volta versare il suo oro al Tesoro. In cambio furono emessi dal Tesoro dei gold certificates, una sorta di ricevuta che certificava il credito aureo della Fed nei confronti del Tesoro, ma sempre valutati a 20,67$ l’oncia. Questi certificati potevano essere usati come riserva per i depositi, al livello del 35%, e delle emissioni di banconote, al 40%. La conversione di dollari in oro era proibita. Alla sezione 12 si diede facoltà al presidente di fissare il prezzo dell’oro, specificando che “il peso del dollaro in oro” non potesse essere fissato “in ogni caso a più del 60% di quello attuale”.

Immediatamente dopo l’approvazione della legge Roosevelt, fissò d’autorità il prezzo dell’oro a 35$ l’oncia. Obbendendo alle prescrizioni del Congresso, il presidente aveva diminuito del 59,06% la quantità di oro necessaria a comprare un dollaro.

Ricordo che un’oncia pesa circa 31 grammi. Quindi valutarla 20,67$, com’era sin dal 1900, significa che un dollaro compra 1,50 grammi d’oro circa. O, che è lo stesso, che servono 1,50 grammi d’oro per comprare un dollaro-oro. Diminuire del 59,06% la quantità d’oro necessaria per comprare un dollaro, significa che, con i nuovi prezzi non servivano più 1,50 grammi, ma ne bastavano 0,888 grammi, ossia che un dollaro compra solo 0,888 grammi d’oro e quindi che servono più dollari  per comprare la stessa quantità di oro di una volta. Se prima si scambiava un’oncia con 20,67 dollari, ora bisognava metterne sul piatto 35, il 69% in più, per averla, e comunque non l’avrebbero data, perché la conversione era vietata e il possesso d’oro pure.

In pratica il dollaro fu svalutato rispetto all’oro, e di conseguenza rispetto alle altre valute che all’oro si richiamavano. Questo, accoppiato a un’aggressiva politica di dazi, avrebbe dovuto servire a rilanciare le esportazioni e, insieme far salire i prezzi all’interno, oltre che ad aumentare il credito bancario.

La Fed infatti si ritrovò gold certificates pagati dal Tesoro al prezzo di 20,67$ l’oncia e che però adesso, dopo la rivalutazione dell’oro, valevano 35 l’oncia. E poiché sulla base di quei certificati la Fed poteva emettere depositi e banconote, l’espediente servì anche allo scopo di aumentare la liquidità nel sistema globale. A spese degli americani, è giusto sottolinearlo.

La politica mercantilistica di Roosevelt diede i suoi risultati: i deflussi d’oro si trasformarono in afflussi, che superarono persino il record degli anni Venti, grazie al rilancio delle esportazioni e al richiamo di una grande liquidità speculativa in cerca di rendimenti, e quest’oro arrivò dal resto del mondo, e in particolare dalle nazioni una volta creditrici dell’Europa, quindi Regno Unito, Francia, Olanda e Svizzera. Fra il 1934 e il 1938 il conto capitale degli Usa cumulò 4,456 miliardi di dollari. Alla fine del 1938 gli Usa si erano già impossessati del 58% delle riserve auree del mondo.

La corsa all’oro fu sicuramente il miglior successo del primo Roosevelt, assai più di quanto abbia fatto l’economia reale che, sempre nel ’38, raggiunse un reddito nazionale inferiore del 23% rispetto a prima del ’29, con i prezzi ancora deflazionati, alla faccia di Warren, del 16,7%. Quando invece la Germania nazista aveva già un reddito superiore del 5% rispetto al ’29 malgrado i prezzi fossero inferiori del 18,4% e la Gran Bretagna un reddito superiore del 14,5% a fronte di prezzi solo del 4,9% più bassi di quelli ante ’29.

La corsa all’oro di Roosevelt, tuttavia, ha avuto un’importanza strategica e ne avrà ancor più, come vedremo, nel seguito dell’avventura aurifera degli Stati Uniti che oggi minaccia di ricominciare. Fra le altre cose, le leggi usate da Roosevelt, quella del ’17 e quella del ’34, fanno ancora parte dell’armamentario giuridico americano, qualora debbano servire. Esattamene come le gigantesche riserve d’oro degli Usa, ancora enormi malgrado i deflussi provocati dagli europei fra gli anni ’50-’60.

Già, l’oro. Ripenso alle epopee americane delle corse all’oro, che noi europei abbiamo imparato da piccoli leggendo Topolino. E poi mi torna in mente la cartamoneta americana, il verdone, che come tutti ho maneggiato non so quante volte senza mai accorgermi che contiene un vero e proprio manifesto politico denso di simboli nella sua filigrana. E soprattutto mi ricordo dell’inno, stampigliato su tutti i dollari e una volta anche sulle monete: In God we trust. E capisco che, come nella Lettera scarlatta, la verità era rivelata davanti ai miei occhi, ma dissimulata.

Non God, but Gold.

(4/segue)

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