Etichettato: wholesale funding
L’ascesa dei merca(n)ti dei capitali
Mentre le banche, rese ormai timorose dai rimbrotti e addomesticate dai regolatori, retrocedono, la seconda decade del XXI secolo si segnala per un’altra circostanza storica, fra le tante che contribuiscono a fare del nostro un tempo meraviglioso: l’ascesa dei mercati del capitale. O dei mercanti, sarebbe più giusto dire, visto che costoro altro non fanno che collocare denaro laddove conviene per estrarne altro.
Lo fanno anche le banche, certo, e in particolare quelle che basano sul trading la loro attività di business. Ma la banca, vocazionalmente, è un intermediario che dà credito anche alla sedicente economia reale. I mercati dei capitali, al contrario, vocazionalmente, fanno semplicemente girare i soldi e così facendo hanno ampliato, pur replicandola, la funzione bancaria dell’intermediazione creditizia. E per di più lo fanno senza esser soggetti ai sempre più stringenti controlli regolamentari e seguendo come unica bussola l’interesse dei creditori, che loro affidano le risorse chiedendo sempre più rendimenti in cambio.
E poiché i debiti sono tanti nel mondo, e quindi anche i crediti, ecco che gli asset manager, ossia i mercanti dei capitali, sono diventati una delle categorie più sistemiche delle nostre economie. Tanto che la Bis, nella sua ultima relazione annuale, li ha giudicati meritevoli di un approfondimento che trovo interessante condividere con voi quale utile stimolo di riflessione, oltre che di informazione.
La premessa è che che le banche, dopo la grande paura seguita al 2008, hanno notevolmente ridimensionato la loro attività sul mercato dei capitali. Alcune hanno deciso di tornare a concentrarsi sul settore retail. Altre, dovendosi ricapitalizzare sulla spinta dell’irrigidimento regolamentare, hanno capitalizzato gli utili e quindi ridotto i prestiti. Altre ancora hanno trovato più conveniente dedicarsi ad attività core.
La conseguenza è stata che “l’intermediazione finanziaria per il tramite dei mercati ha guadagnato terreno. La crescita del settore del risparmio gestito ne è un esempio lampante”.
Metteteci pure che molte imprese hanno trovato più conveniente chiedere soldi al mercato, tramite prestiti obbligazionari, piuttosto che alle banche, le quali, oltre ad essere alquanto restie, non riuscivano a collocare i prestiti a un prezzo conveniente per il sottoscrittore, avendo una struttura dei costi di sicuro meno efficiente rispetto ai mercanti dei capitali.
Sia come sia, il fatto è che gli asset manager sono diventati dei pezzi grossi. “Poiché sono responsabili dell’investimento di ampi portafogli mobiliari, gli asset manager possono avere un impatto significativo sul funzionamento del mercato, sulle dinamiche dei prezzi delle attività e, in definitiva, sui costi di finanziamento di amministrazioni pubbliche, imprese e famiglie”.
Sono diventati i nuovi dèi che arbitrano (nel senso di arbitraggio) le nostre sorti. Quindi dovremmo amarli e rispettarli, come insegna la libretta.
Qui ci accontentiamo di conoscerli.
“Le società di asset management (asset management companies, AMC) – spiega la Bis – gestiscono portafogli di titoli per conto degli investitori finali, sia al dettaglio sia
all’ingrosso. Esse investono il risparmio delle famiglie e le eccedenze di liquidità delle piccole imprese, ma anche somme ingenti per conto di investitori istituzionali,
come fondi pensione pubblici e privati, compagnie di assicurazione, tesorerie aziendali e fondi di ricchezza sovrani”.
Nella estrema diversità delle forme contrattuali che legano gli asset manager con i loro clienti, tutte le AMC hanno una caratteristica pressoché comune: “Nella maggior parte dei casi, le AMC non mettono a rischio il proprio bilancio nella gestione di detti patrimoni. Offrono invece, a fronte di una commissione, economie di scala e di scopo sotto forma di competenze nella selezione dei titoli, nell’esecuzione e nel timing delle transazioni, nonché nell’amministrazione dei portafogli”.
Traducendo, si potrebbe dire che non rischiano nulla. Si limitano a far girare i soldi degli altri, a guadagnarci (e a far guadagnare) quando va bene e far perdere (i clienti) quando va male, ma spuntandoci comunque le loro brave commissioni.
Vi sono tuttavia alcune eccezioni che la Bis molto opportunamente ci ricorda.
Quella più vistosa è quella degli hedge fund, che investono assai rischiosamente (promettendo rendimenti adeguati) ma rischiando anche di proprio ed ottenendo remunerazioni sulla base delle performance.
“Una forma nascosta di leva finanziaria riguarda in maniera analoga le rassicurazioni implicite fornite dai fondi monetari sulla preservazione del capitale”. I fondi monetari, per chi non lo ricordasse, sono entità dove usualmente viene parcheggiata la liquidità e una delle componenti più rilevanti del mercato dei finanziamento all’ingrosso (wholesale funding) dove attingono a piene mani i vari sistemi bancari-ombra grazie ai quali i mercanti dei capitali prosperano. Questi fondi monetari vengono percepiti come parcheggi sicuri, e infatti offrono rendimenti assai contenuti. Peccato che l’esperienza abbia insegnato il contrario.
Questo scenario ci aiuta a contestualizzare i dati, che mostrano come dal 2002 al 2012, dove si ferma la seria della Bis, gli attivi del settore (che contempla 500 gestori aggregati) sono quasi raddoppiati, collocando ormai intorno ai 70 trilioni di dollari, un po’ sotto il livello raggiunto nel 2007, prima dell’armageddon, quando crollarono poco sopra i 50 trilioni. La crisi ovviamente non poteva risparmiare questi soggetti che alimentano e nuotano nel mare della liquidità.
A differenza delle banche, però, già dal 2009 le AMC si erano riprese. Le masse gestite avevano già superato i 60 trilioni e da lì hanno continuato a crescere. E soprattutto, è cresciuta la concentrazione di questi soggetti.
La Bis ha calcolato che i primi 20 gestori gestiscono quasi il 30% di questa montagna di soldi. Parliamo quindi di oltre 20 trilioni di dollari nella disponibilità di 20 società private.
“La concentrazione è massima al vertice, dove un ristretto gruppo di operatori domina le classifiche. Molte di queste AMC sono affiliate e/od operano all’interno dello stesso gruppo di grandi istituzioni finanziarie di rilevanza sistemica”. Ossia hanno dietro grosse banche che, improvvisamente, rispuntano come funghi. Lo shadow banking ha sempre bisogno del banking per funzionare, questo è chiaro.
Capite bene che razza di potere rappresentino questi gestori, in un mondo affollato di debitori in costante ansia da roll over come il nostro. E tuttavia, tale potere è ignoto al grande pubblico, come ben si addice una divinità, che si manifesta celandosi.
La Bis sottolinea come tale ascesa presenti vantaggi e svantaggi. Fra i primi la possibilità per chi cerchi credito di disporre di un canale alternativo a quello bancario, e ciò spiega perché il peso relativo dei mercanti di capitale sia cresciuto rispetto alle banche, e poi la circostanza che gli AMC attingano da varie fonti, e non soltanto ai risparmiatori, li espone a minori rischi di rimanere a secco.
Ma lo svantaggio è altrettanto evidente: “Il nesso fra incentivi e obiettivi che influenza le scelte delle AMC può incidere negativamente sulle dinamiche del mercato e sui costi di finanziamento dell’economia reale. I gestori di portafogli sono valutati sulla base dei risultati di breve periodo, e i ricavi sono legati alle oscillazioni dei flussi di
capitali dei clienti”.
Detto in altre parole, i mercanti di capitali esacerbano e aggravano il difetto principale della finanza contemporanea: la visione focalizzata sul breve e brevissimo periodo, oltre ad essere ostaggio di se stessi, come si è visto nel 2008.
Ma sarebbe strano il contrario. Se, vale a dire, un tempo di corto respiro come quello che stiamo attraversando non avesse generato entità che sul breve periodo ritmano la loro attività.
Il risultato è che queste entità sono fortemente procicliche. Detto in italiano vuol dire che vanno bene quando tutto va bene e peggiorano le cose quando tutto va male. E l’aumento della concentrazione può rafforzare tale prociclicità, “esercitando un influsso sproporzionato sulle dinamiche di mercato” arrivando a “produrre effetti sistemici di vasta entità”.
Viviamo in un mondo ricco e pericoloso, questo lo sapevamo già.
Dovremmo ricordarci che sono due facce della stessa medaglia.
Shadow Banking: 80 anni vissuti pericolosamente
Vale la pena continuare l’analisi dello shadow banking perché ci permette di capire bene quanto in profondità il nostro presente affondi le sue radici nella storia. E la storia delle banche ombra, che molti credono siano un prodotto dell’attualità, risale addirittura agli anni ’30, agli anni del New Deal e della nascita del sogno americano che prevedeva, fra le altre cose, che tutti i cittadini avessero la possibilità di comprarsi una casa, come poi in effetti iniziò a succedere nel tempo di guerra.
Anche qui, ci aiuta a ripercorrere questa storia lo staff report “Shadow banking” che la Fed di New York pubblicò nel 2010.
La banca centrale distingue tre sottogruppi di soggetti che operano nella finanza ombra: c’è il sistema dei soggetti sponsorizzati dal governo (government sponsored enterprises, GSE), il sistema dello shadow banking “interno”, ossia che fa riferimento alle banche tradizionali, e infine lo shadow banking “esterno”, ossia praticato da soggetti separati dalle banche. Ognuno di loro racconta una storia.
La radice più antica, come dicevo, risale agli anni ’30. “Il seme dello shadow banking – scrive la Fed è stato piantato 80 anni fa, con la creazione delle GSE” che furono inserite nel Federal Home loans banks. Il FHLB fu una conseguenza del Federal Home loan bank act varato nel 1932 per far fronte alla pesante depressione seguita alla crisi del ’29. Lo scopo di questa normativa era creare istituzioni pubbliche capaci di far arrivare liquidità (quindi prestiti) a basso costo ai cittadini, in particolare per i loro mutui. I partecipanti al FHLB potevano intrattenere rapporti solo con le banche partecipanti al sistema, non quindi direttamente con i privati.
Un ruolo di spicco, relativamente al mercato dei mutui, fu assegnato a Fannie Mae, una società pubblica fondata nel ’38, a cui si affiancarono più tardi (1970) una società simile, Freddie Mac e Ginnie Mae (1968). Ma in generale, spiega la Fed, tutte le GSE “hanno avuto un impatto notevole sul modo in cui le banche hanno iniziato a finanziarsi e hanno condotto la credit transformation“.
Quindi per uscire da una crisi (la grande depressione) si mettono in piedi meccanismi capaci di stimolare l’erogazione del credito. Si pianta un seme che, più tardi, provocherà un’altra crisi. Questa lezione della storia proprio non riusciamo a impararla.
In cosa consisté questa “rivoluzione”? Principalmente nel fatto che le FHLB sono state i primi “immagazzinatori” di prestiti che poi venivano impacchettati e smerciati. Per dirla con le parole della Fed, “Fannie Mae e Freddie Mac sono state la culla del modello di intermediazione originate-to-distribute del credito cartolarizzato”.
Se ricordate la catena sottostante al modello dello shadow banking, l’intervento delle FHLB si situa al secondo anello della catena, ossia nella fase successiva alla concessione del credito da parte della banca commerciale. I partecipanti al FHLB immagazzinano i crediti concessi dalle banche ripagandole con l’emissione di obbligazioni (agency debt, discount notes) che contenevano la garanzia dello Stato, e quindi con un alto merito di credito.
Fannie Mae e Freddie Mac intervenivano nel terzo anello della catena, ossia l’emissione di ABS, attraverso il mercato del TBA, finanziati con l’emissione di agency MBS, ossia di obbligazioni con sottostante mutui immobiliari. In tal modo le obbligazioni contenute in questi titoli cartolarizzati venivano trasferiti (pass) dalla banca originaria (primo anello della catena) attraverso (trough) l’agenzia governativa (GSE) al mercato degli investitori. Ciò spiega perché queste obbligazioni vengano assimilate fra le cosiddette pass-trough security. Per chi non lo sapesse, TBA sta per To Be Announced, ossia una classi di titoli che vengono “annunciati” 48 prima la loro emissione e commerciati, su lotti di minimo un milione di dollari, sulla base di una semplice promessa. Un altro miracolo del concetto di credibilità che regge la finanza.
Gli acquirenti di questi Abs (per lo più agency debt) sono brokers o investitori come gli Mreit che abbiamo conosciuto di recente. Costoro (quarto anello della catena) immagazzinano questi titoli finanziandone l’acquisto con ABCP (asset back commercial paper) o attingendo al mercato dei repo. Dopodiché questi strumenti vengono di nuovo impachettati (resecuritizatrions) in CMOs (collateralized mortgage obligation) da altri operatori (quinto anello della catena) che, dulcis in fundo, li rivendono alle GSE, cioé alle agenzie statali (fra le quali ci possono essere le stesse Fannie Mae e Freddie Mac) che hanno originato il primo ABS.
Il corto circuito perfetto che, di fatto, socializza le perdite quando ci sono (come infatti è successo nel 2008) e privatizza i guadagni.
Queste agenzie, per finanziarsi emettono altro debito (agency debt) che viene piazzato sul mercato dei capitali (wholesale funding), forte com’è di una doppia garanzia statale, quella originaria e quella “ricomprata”. Il guadagno di queste GSE arriva dalla maturity transformation (ossia dal fatto che giocano sulle diverse scadenze). Ma “a differena delle banche – scrive la Fed – le GSE non si finanziano con i depositi dei risparmiatori ma sul mercato dei capitali, dove emettono debito a lungo e a breve termine”.
Vi è più chiaro adesso perché nel 2008 Fannie Mae e Freddie Mac hanno fatto crash?
Con l’aggravante, sottolinea la FEd, che “le funzioni di funding esercitate dalle GSE sono diventate il modello del wholesale funding market”. La lezione, insomma, l’hanno imparata tutti.
Talmente bene che la prova generale del crash del 2007, ossia la crisi delle Casse di risparmio americane degli anni ’80, partì proprio dal FHLB, cui appartengono le GSE e dalle pratiche messe in piedi da questo sistema “ombra” governativo.
La nostra storia però non finisce qui.
“Negli ultimi trent’anni – scrive la Fed – queste tecniche sono state ampiamente adottate anche dalle banche e da operatori finanziari non bancari”.
Ma la cosa divertente è che Fannie Mae fu privatizzata nel 1968 con la solita scusa che bisognava ridurre il debito pubblico. Solo che la privatizzazione, pur facendo sparire l’agenzia dal bilancio dello stato, mantenne “una relazione stretta” con il governo “godendo di una garanzia implicita”, sempre per socializzare le perdite. Ma non solo. La garanzie implicita compie il miracolo della credit transformation, consentendo alle GSE di indebitarsi a un costo ridotto. In pratica si creò quello schema, poi replicato dalle banche con i loso SIVs, per il quale si creano entità fuori bilancio che lavorano grazie alla garanzia dello sponsor (nel caso di Fannie Mae il governo americano).
Le banche, come dicevo, impararono in fretta la lezione delle GSE e presero a fare shadow banking per conto loro. E’ quel sub sistema chiamato “internal shadow banking”. Questa rivoluzione del mondo bancario americano è avvenuto negli ultimi trent’anni, contemporaneamente alla liberalizzazione dei movimenti di capitali. Non a caso. Lo scopo della liberalizzazione era avere mercati dei capitali sempre più liquidi. Quegli stessi mercati a cui chiedere le risorse per tenere a galla le cartolarizzazioni.
La conseguenza dello sviluppo dei questo subsistema fu che le banche più grandi, prima caratterizzate da un basso RoE (return on equity), divennero entità dall’alto RoE. Rivendere il credito (originate-to-distribute) si è rivelato assai più remunerativo che tenerselo fino alla scadenza (originate-to-hold). Spezzare la relazione fra creditore e debitore può essere molto più conveniente, ma alla lunga si paga un prezzo alto. Che poi è il prezzo che stiamo pagando tutti noi ancora oggi.
Le banche sono cambiate, quindi. La lunga transizione duranta trent’anni le ha rese sempre più dipendenti dai mercati del capitale e sempre meno dai depositi. La loro funzione di intermediazione creditizia viene svolta in gran parte da veicoli fuori bilancio grazie alle tecniche imparate dai “padrini” governativi. Gli schemi del sistema ombra “interno” sono gli stessi di quello che abbiamo visto con le GSe. Cambiano solo i protagonisti. Quindi non vi annoiero con i dettagli.
Lo stesso vale per il subsistema “esterno”, ossia non bancario. Stavolta i protagonisti sono i broker-dealer, speciali intermediari non bancari, e altri soggetti come le compagnie assicurative, compagnie di hedge fund o compagnie che commerciano in prodotti derivati. La logica è sempre la stessa: cartolarizzazione e ricorso al wholesale funding per trovare i soldi. Aumentano solo i soggetti che giocano questo gioco pericoloso.
E più aumentano i soggetti, più il gioco diventa rischioso. Non solo perché aumenta la domanda di fondi sul mercato dei capitali. Ma anche perché questi soggetti sono sempre più fragili dal punto di vista finanziario. I SiV, tanto per essere chiari, hanno alle spalle una grande banca, che può sempre rivolgersi alla Fed come prestatore di ultima istanza, così come le GSE hanno alle spalle il governo il governo americano. I broker, al contrario, per fare un esempio, non hanno alcuna forma di “aiuto” pubblico. Possono fallire (ricordate Lehman Brothers?).
In questo modo tutte queste entità, a cominciare dalle agenzie governative (poi privatizzate) hanno creato negli ultimi trent’anni un sistema bancario parallelo che ha doppiato il totale delle passività del sistema bancario. Nel momento del picco lo shadow banking aveva 22 trilioni di passività a fronte alla decina circa delle banche ufficiali. Una parte di questo sistema ombra l’abbiamo visto, faceva riferimento alle stesse banche, che quindi operavano sia nel circuito ufficiale che in quello ombra, guadagnando in tutt’e due i posti, con un grazioso gioco della parti.
Poi è arrivata la Crisi.
Sono dovuti intervenire la Fed e il governo americano per tenere in piedi tutti gli anelli della catena creditizia, di cui ormai più nessuno sapeva quale fosse la coda e quale il capo. Furono creati una serie di salvagenti (backstops) per garantire le varie emissioni di carta straccia che si erano accumulate nel tempo. Per garantire la carta commerciale (CP) e le obbligazioni su questa emesse (ABCP) fu creato il Commercial paper funding facility (CPFF), che copriva i primi due anelli della catena. Per garantire il terzo anello, quello degi ABS, fu creato il Term Asset Backed loan facility (TALF); per garantire il quarto anello della catena, ossia quelli che immagazzinavano ABS, fu varato il il Term securities lending facility (TSLF) e anzi uno specifico fu dedicato a Bear Stearn (Maiden Lane LLC). Il quinto anello della catena, quello dei CDOs, fu garantito da un altro backstop chiamato Maiden Lane III LC, dedicato ai prodotti finanziari emessi dalla AIG, un altra grande protagonista del disastro. Quindi il sesto anello della catena, che provvide fondi grazie al Term auction facility (TAF) ai soggetti che si erano imbottiti di cartaccia.
L’ultimo gradino era quello più rilevante, perché le tensioni provocate dall’essiccamento della liquidità sul mercato dei capitali aveva messo a rischio il tri-party repo system, ossia il mercato dei pronti contro termine mediato da soggetti di peso come JP Morgan. Per evitare catastrofi, si aprì un’altra facility, la Primary dealer credit facility, mentre la Money Market investor funding facility avrebbe garantito tutto il mercato degli intermediari monetari.
Allo stesso tempo la FDIC, ossia la Federal deposit insurance corporation, aprì la Temporary liquisity guarantee program per coprire il debito senior (quind a cominciare dai depositi bancari).
In sostanza, dice la Fed, “il sistema dello Shadow banking fu competamente ‘abbracciato’ dal credito e dalla liquidità pubblica e divenne completamente garantito come il sistema bancario tradizionale. In questo modo il crollo è stato controllato”.
E io pago, direbbe Totò.
Abbiamo imparato finalmente la lezione?
La conclusione della Fed dice questo: “Ci aspettiamo che lo shadow banking avrà una parte significativa nel sistema finanziario, in una forma differente, in un prevedibile futuro”.
Evidentemente no.
(2/segue)
Ecco cos’è e come funziona lo Shadow Banking
Lo shadow banking fa paura, a cominciare dal nome. Spaventa i regolatori, scottati dai danni inflitti al sistema finanziario globale dalle banche-ombra nel 2008. Spaventa gli osservatori, che poco si raccapezzano nel ginepraio di soggetti, regole e tecniche che costituiscono la ragnatela di questo delicato e potente strumento di intermediazione creditizia. Spaventa i cittadini, che ci si raccapezzano ancor meno e percepiscono le banche ombra come l’ennesima minaccia alla loro tranquillità.
Può essere utile, perciò, provare a fare un po’ di chiarezza.
Portare un po’ di luce nell’ombra.
Per farlo è assai istruttivo leggere uno staff report della Fed di New York del 2010 (rivisto a febbraio del 2012) che si intitola proprio “Shadow Banking”, che di fatto è il primo che introduce questo termine nel dibattito e sommarizza il problema.
Leggerlo è innanzitutto un viaggio nella storia. E la conferma, qualora fosse necessaria, di quanto sia pernicioso ed errato il luogo comune secondo il quale lo Stato e il mercato siano entità separate e dialetticamente contrapposte. Al contrario, lo Shadow banking è nato sotto l’egida dello Stato (americano), e ha prosperato grazie alle garanzie pubbliche, fino a diventare una prassi di mercato che ha consentito agli operatori finanziari privati e alle banche di cambiare la logica e soprattutto la redditività dell’intermediazione creditizia. Al prezzo però di una sostanziale instabilità.
In cosa consista la sostanza dello Shadow banking è presto detto: in pratica grazie a questo sistema è cambiata la fonte principale del funding (ossia della fonte di finanziamento) degli operatori finanziari. Invece di limitarsi ad attingere alle fonti “classiche”, tipo i depositi dei risparmiatori o l’emissione di bond, costoro hanno iniziato a trovare risorse in maniera crescente nel mercato dei capitali, esponendosi, di conseguenza, ai suoi capricci e alla sua sostanziale ciclotomia. Ciò ha condotto a grandi guadagni nei tempi di euforia e a grandi perdite in quelle di depressione che hanno costretto gli stati a mettere mano al portafogli rendendo esplicita quella garanzia implicita nell struttura stessa del sistema.
Cominciamo da alcune nozioni che molti conoscono, ma che giova sempre ricordare. Nel sistema bancario tradizionale l’intermediazione fra i risparmiatori e chi prende a prestito si svolge in un’unica entità, ossia la banca. I risparmiatori affidano, sotto forma di depositi, le proprie risorse alle banche che le usano per finanziare i prestiti ad altri. I risparmiatori possono finanziare la banca anche comprando i suoi bond oppure le sue azioni.
Una volta che le banche entrano in possesso delle risorse, che per loro equivalgono a debiti, entra in gioco l’intermediazione creditizia che si articola attraverso la credit transformation, la maturity transformation e la liquidity transformation.
La credit trasformation ha a che fare col merito del credito emesso. Ricordo che il lavoro di una banca commerciale consiste nel caricarsi un debito liquido e a breve termine, che proviene da un suo cliente creditore, come ad esempio un deposito, e trasformarlo un un credito a lungo termine nei confronti di un suo cliente debitore. Il guadagno sta nella differenza fra il costo del debito contratto nei confronti del cliente/creditore e del credito concesso al cliente/debitore. In questo processo il merito di credito ha un suo peso. Per semplificare: la banca accende un suo debito a tripla A, visto che fondato sui depositi, e vende un credito a un compratore a doppia A. La A di differenza coincide con lo spread fra i due tassi applicati. Esempio classico: la banca investe i suoi depositi in un titolo di stato a doppia A.
La maturity transformation ha a che fare con la pratica, che abbiamo già visto, di indebitarsi a breve per prestare a lungo. Ciò genera liquidità per il risparmiatore, ma espone la banca al rischio di avere difficoltà a rifinanziarsi (rollover e duration risk). In compenso la banca guadagna perchè i tassi a breve sono più bassi di quelli a lungo.
La liquidity transformation ha a che fare con la capacità di procacciarsi risorse liquide tramite asset illiquidi. Se io ad esempio aggrego in un contenitore finanziario un insieme di mutui che hanno un valore X, posso venderlo a un valore X-Y in cambio di liquidità. Y è tanto più basso quanto più il contenitore è commerciabile (quindi a sua volta liquido) e ha un buon rating.
A cosa ci serve sapere tutto cio? A capire quali sono le regole generali del gioco dello shadow banking.
Proprio come le banche, infatti, i soggetti convolti nei processi utilizzano le tecniche bancarie, pur senza essere banche, per far girare i soldi.
In comune con le banche, le banche ombra hanno pure una qualche forma di garanzie ufficiali. Diverse, certo, dalle assicurazioni sui depositi di cui godono le banche commerciali. Ma comunque pubbliche.
L’elenco dei soggetti che fanno Shadow Banking è lungo e ve lo risparmio. Vi basti sapere che dal 1990 in poi, quando lo Shadow banking ha iniziato a prendere piede, questo sistema parallelo ha generato una montagna crescente di debiti.
Il grafico elaborato dalla Fed mostra con chiarezza che nel 1990 le passività dello shadow banking erano alle stesso livello delle passività bancarie, meno di 5 trilioni di dollari. Dieci anni dopo, a fronte di passività bancarie che superavano di poco i 5 trilioni, quelle dello shadow banking avevano già superato i 10, arrivando a superare i 20 trilioni nel momento di picco del 2007 (22 trilioni a giugno), mentre le passività bancarie erano circa 14 trilioni.
Il crollo del 2008 ha provocato un pesante de-leveraging dello shadow banking, grazie sostanzialmente alle garanzie e alle risorse pubbliche, che a fine 2011 quotava “appena” 15 trilioni, un po’ sopra il livello raggiunto dalle passività bancarie, intanto cresciute.
Capite bene perché questo shadow banking desti così tante preoccupazioni, visto che alla prova dei fatti ha dimostrato “la sua inerente fragilità dovuta all’ esposizione nei confronti fornitori di wholesale funding”.
Per capire come abbiamo potuto formarsi questa montagna di debiti, però è necessario fare un’altra incursione nella noiosissima tecnica finanziaria. In parole povere dobbiamo capire come funzioni praticamente lo shadow banking.
Le paroline magiche dello shadow banking sono due: cartolarizzazioni e wholesale funding, che potremmo tradurre grossolanamente “finanziamento sul mercato”. In questo sistema i debiti vengono cartolarizzati diventando così strumenti finanziari commerciabili. Il finanziamento sul mercato avviene tramite strumenti anch’essi commerciabili, come la carta commerciale (commercial paper) e i repo.
“Come il sistema bancario tradizione – spiega la Fed – lo shadow banking fa intermediazione creditizia”. La differenza è che mentre la banca conduce tutte le sue operazioni all’interno del suo perimetro (“under one roof”) lo shadow banking è una specie di catena di sant’Antonio che si articola lungo sette passaggi ognuno dei quali implica soggetti e strumenti differenti. L’unica cosa che hanno in comune questi soggetti è che non sono banche.
Vediamo questi passaggi insieme. Poi cerchiamo di capirli.
1) generazione del prestito; 2) stoccaggio del prestito; 3) emissione di un Abs (asset backed security); 4) stoccaggio degli Abs; 5) emissione di un CdO (collatelarized debt obligation) sugli Abs emessi; 6) intermediazione su Abs; 7) wholesale funding.
Come al solito tanta complicazione nasconde un principio molto semplice. Il debito originario viene messo a garanzia di un altro debito che viene trasformato in un altro debito ancora. Ogni passaggio genera nuovo debito che, alla fine della catena, viene venduto al mercato dei capitali, dove lavorano grandi operatori come i fondi monetari. Costoro, di conseguenza, non hanno la minima idea di cosa comprino. E questo spiega perché al minimo stormir di fronde scappino a gambe levate mandando in crash la catena di sant’Antonio.
Scendiamo nel dettaglio. E non tanto per amore della tecnica, ma per sincera ammirazione nei confronti di tanta fantasia.
Cerco di raccontarlo a modo mio, quindi mi scuserete per il pressappochismo.
Un bel giorno decidete di comprare una macchina nuova. La vostra società finanziaria vi fa un bel prestito e voi, tutti contenti, andate a spenderlo, del tutto ignari (e in fondo indifferenti) a quello che succederà al vostro debito. Per trovare i soldi da prestarvi, la società finanziaria si finanzia emettendo commercial paper (CP) o titoli a medio termine (medium term note, MTNs).
La società finanziaria, che non vuole avere nulla a che fare con voi, e che deve pure pensare a come ripagare i propri debiti, cede il vostro debito ad un veicolo finanziario specializzato (conduit) che, forte dello sponsor di qualcuno (magari una banca) raccoglie questi prestiti e li immagazzina. Per trovare i soldi da dare alla finanziaria emette altro debito, che prende la forma di asset backed commercial paper (ABCP), ossia obbligazioni che hanno come sottostante carta commerciale (magari la stessa emessa dalla finanziaria).
A questo punto si pone il problema di cosa fare con questa montagna di prestiti. A svuotare il magazzino ci pensa un broker che li raccoglie li struttura in un Abs, che sta per asset backed securities. In pratica li cartolarizza, impacchettandoli in un contenitore finanziario che, in quanto tale avrà un rating e un certo grado di liquidità. E soprattutto diventa cedibile. Il rischio inerente al prestito originario viene mischiato con altri rischi nell’ipotesi che così facendo diventi statisticamente meno rilevante. Il pensiero sottostante a tale pratica è si possa eliminare il rischio. Ma è chiaramente un’illusione statistica.
Anche gli Abs, essendo commerciabili e redditizi, finisce che vengono immagazzinati nei trading book dei broker o delle banche che li usano, fra le altre cose, sul mercato dei repo.
Ma siccome non basta mai, ecco che ogni tanto bisogna anche svuotare il magazzino degli Abs, che finiscono anche loro raccolti e strutturati in un altro contenitore, i Collateralized debt obligation (CDOs), anche questa minestra viene cucinata da broker-dealer specializzati.
A commerciare in Abs sono precise società finanziarie di scopo (Limited purpose finance companies, LPFCs). Fra queste troviamo i Structured investment vehicles (SIVs) resi celebri dal crash subprime (si scoprì che erano semplici travestimenti di molte banche), arbitraggisti, hedge fund specializzati nel credito e altre amenità più o meno incomprensibili.
E arriviamo al punto sette della nostra catena. Tutte queste simpatiche entità, che fanno attività di intermediazione creditizia lavorando con la credit, la maturity e la liquidity transformation, attingono tutte alla stessa fonte le risorse necessarie affinché la catena continui a scorrere senza strozzare nessuno: il famoso finanziamento sul mercato dei capitali (wholesale funding) nel quale agiscono intermediari più o meno regolati come i fondi monetari, che forniscono risorse liquide abbondanti che cercano parcheggi sicuri per breve tempo. E siccome almeno fino alla crisi del 2007 la carta delle banche ombra veniva considerata sicura, nella convizione che spacchettando il rischio quello magicamente scomparisse (ma poi vedremo perché), ecco che i nostri fornitori di liquidità sembravano la perfetta quadratura del cerchio per gli apprendisti stregoni dello shadow banking.
E non solo loro. A questi fornitori di risorse cash (tali vengono considerate anche i repo e la carta commerciale) si sono aggiunti nel tempo anche i pezzi grossi come i fondi pensione e le compagnie di assicurazioni. Se considerate la quantità di risorse di cui dispongono queste entità, capite bene perché la montagna di passività dello shadow banking sia cresciuta così tanto e così allegramente.
La cosa divertente di tutta questa faccenda è che lo shadow banking è diventato di dominio pubblico soltanto dal 2007 in poi, grazie ai disastri che ha provocato.
Ma le cartolarizzazione, gli Abs e tutto l’armamentario sono roba vecchia. Almeno di ottant’anni.
(1/segue)