Etichettato: originate to distribute
L’ultima della finanza: il mercato del rischio, ovvero i CRT
Non mi stupisce scoprire che le menti astruse dei finanzieri facciano mercato di ogni cosa: la storia stessa testimonia della loro attitudine a portare il calcolo, per trarre profitto, in qualunque ambito umano. Né mi sorprende la loro indiscutibile genialità a eludere per vie traverse, le maglie della regolazione, riuscendo pure a spuntare rendimenti a due cifre.
Rimango a bocca aperta, tuttavia, nel notare quanto il copione si ripeta inesausto ormai da decenni, per non dire da secoli, e mi dispera il pensiero che a quanto pare siamo costretti ad andare avanti così, fino a quando non succederà qualcosa di autenticamente terribile.
Ma poi mi dico che non devo esagerare. In fondo la storia della finanza altro non è che il tentativo, pure questo inesausto, di far soldi coi soldi, che già dai tempi dei greci di Pericle creava scompensi, polemiche e discussioni.
Il fatto che si vada avanti così da tutto questo tempo dovrebbe rassicurarmi, mi dico, per il semplice fatto che siamo andati avanti lo stesso. Quindi a meno di rivoluzioni della nostra costituzione spirituale – poiché quella materiale si è dimostrata impotente – così andremo avanti ancora a lungo, lasciando ai moralisti l’ingrato compito di ricordare quanto gravi e persistenti possano essere i danni collaterali della hybris finanziaria. Ossia provocati dal loro/nostro desiderio di ricchezza purchéssia.
Quanto a me, oscuro osservatore, mi contento di notare l’ennesimo ritrovato dei finanzieri spericolati, di cui trovo traccia nell’ultimo rapporto sulla stabilità finanziaria della Bce, in poche righe, ma pregne.
In particolare in uno striminzito paragrafetto, la Bce nota che “la domanda per prodotti (finanziari, ndr) complessi ad alto rendimento è evidente, con una rinascita dei CLOs, particolarmente negli Stati Uniti, e l’emergere di capital relief trades, CRTs”.
Suonandomi ignoto l’acronimo CRT, ho compreso che dovevo correre ad aggiornare la mia personalissima tassonomia delle astruserie finanziarie.
Dei CLOs, infatti, sapevo tutto ciò che mi interessava sapere, ossia che sono i mitici Collateral loan obligation, quindi obbligazioni confezionate con dentro un pacchetto di prestiti più o meno rischiosi fatti di solito alle imprese, che hanno conquistato la celebrità dopo il disastro del 2007-08 e poi sono finite nel cantuccio di solito riservato alla spazzatura. Vendere debiti che hanno sotto pezzetti di altri debiti era stata sicuramente un’innovazione straordinaria.
Di nuovo c’è solo che hanno riguadagnato la prima linea. La Bce osserva che “le emissioni sono cresciute significativamente, superando il picco pre-crisi negli Stati Uniti”.
Nell’eurozona sono cresciute pure, ma ancora siamo lontani dal livello del 2007. Forse anche perché da noi ci si sta organizzando per comprare ABS, ossia asset-backed securities, che sono diverse dai CLOs perché di solito hanno sotto asset più sostanziosi. Di solito.
Ripenso trasognato alla grida di sdegno che nel 2009 risuonavano nei consessi internazionali, guardando all’indice dove erano stati affissi tutti questi prodotti strutturati mentre dicevano: giammai un’altra volta. E mi ritrovo oggi a leggere il contrario, con ciò dovendosi esaurire ogni ragionevole ipotesi circa il nostro buon senso.
Poi mi sorge l’uzzolo di capire meglio cosa siano questi CRT, dei quali la Bce dice soltanto che con queste transazioni “una banca paga una terza parte per assumersi una quota di rischio associata all’esposizione dei suoi asset”. E aggiunge che nel corso dello scorso anno ne sono state osservate alcune.
In pratica, con un CRT una banca paga un qualunque intermediario per comprare una quota di un suo rischio. Vendere il rischio, dopo aver provato a farlo scomparire cartolarizzandolo, come prescriveva il leggendario modello (fallito) dell’originate-to-distribute, mi sembra l’ennesimo colpo di genio.
Provo a spiegarmi meglio. Una banca ha in bilancio un asset che porta con sé un’esposizione – magari un prestito – e quindi un rischio. Questo rischio deve essere quotato e generare quindi un accantonamento prudenziale nel capitale, come prevedono le normative di regolazione. Ma se io lo esternalizzo, pagando una commissione al soggetto che se lo carica, il rischio e l’accantonamento corrispondente spariscono per magia dal mio bilancio. Che quindi mi farà apparire come un operatore meglio capitalizzato e persino prudente, per la gioia dei regolatori. Inutile dire che se il rischio che ho venduto dovesse generare una perdita, dovrà caricarsela il soggetto che ha incassato le commissioni.
Mentalmente mi congratulo con chi ha inventato il nome di questi affari: capital relief trade, che potremmo tradurre malamente come commercio di sollievo e/o soccorso di capitale. Il che è molto suggestivo, ne converrete.
In una nota a corpo sette del rapporto Bce leggo che le operazioni di CRT a cui fa riferimento sono la vendita di prestiti su moli fatta da Citigroup a Blackstones, la vendita di un portafoglio multiplo di prestiti fatti da Unicredit a Barclay, e la vendita di un altro portafoglio di crediti al commercio fatte da Standard Chartered a non si sa bene chi.
La vendita dei prestiti su noli mi accende una lampadina. Mi torna in mente un articolo che avevo scorso senza farci caso più di un anno fa e opportunamente dimenticato, per quanto mi era sembrato astruso. Lo rileggo e finalmente comprendo la magia dei CRT: i soggetti che comprano i rischi spuntano commissioni che possono arrivare al 15% e oltre.
L’articolo racconta anche della transazione fra Citigroup e Blackstone, messa in nota dalla Bce, spiegando che all’uopo era stata utilizzato una società veicolo dislocata in Irlanda. Il solito vecchio schema, mi dico. Con l’aggravante che spesso i soggetti che comprano questi rischi sono fondi, magari fondi pensione. Chissà se l’insegnante americana o tedesca che versa i sui contributi al fondo tal dei tali immagina l’uso che fanno i gestori dei suoi soldi. Ed è certamente in quest’ignavia che individuo la radice del peccato capitale di molti, quando non evidente complicità per fame di rendimenti, che finisce sempre, in un modo o nell’altro, per causare disastri.
Ma soprattutto mi colpisce la dichiarazione di un banchiere americano, citato nell’articolo: “Questi scambi sono una buona cosa – dice – il miglior modo per proteggere le banche contro questi rischi è spostarli dal sistema bancario a istituzioni finanziarie più sane. Nessuno effettuerà un bail out delle compagnie coinvolte se questi scambi andranno male”.
La qualcosa è insieme vera e falsa. Vera perché ammette che le banche sono costituzionalmente poco sane, proprio in conseguenza di come sono immaginate. Falsa perché abbiamo già visto con quanta furia siano state salvate alcune “istituzioni sane”, quindi non bancarie, durante la crisi del 2007, con i soldi pubblici.
Ma d’altronde nessuno chiederà mai il conto finché non sarà troppo tardi.
Shadow Banking: 80 anni vissuti pericolosamente
Vale la pena continuare l’analisi dello shadow banking perché ci permette di capire bene quanto in profondità il nostro presente affondi le sue radici nella storia. E la storia delle banche ombra, che molti credono siano un prodotto dell’attualità, risale addirittura agli anni ’30, agli anni del New Deal e della nascita del sogno americano che prevedeva, fra le altre cose, che tutti i cittadini avessero la possibilità di comprarsi una casa, come poi in effetti iniziò a succedere nel tempo di guerra.
Anche qui, ci aiuta a ripercorrere questa storia lo staff report “Shadow banking” che la Fed di New York pubblicò nel 2010.
La banca centrale distingue tre sottogruppi di soggetti che operano nella finanza ombra: c’è il sistema dei soggetti sponsorizzati dal governo (government sponsored enterprises, GSE), il sistema dello shadow banking “interno”, ossia che fa riferimento alle banche tradizionali, e infine lo shadow banking “esterno”, ossia praticato da soggetti separati dalle banche. Ognuno di loro racconta una storia.
La radice più antica, come dicevo, risale agli anni ’30. “Il seme dello shadow banking – scrive la Fed è stato piantato 80 anni fa, con la creazione delle GSE” che furono inserite nel Federal Home loans banks. Il FHLB fu una conseguenza del Federal Home loan bank act varato nel 1932 per far fronte alla pesante depressione seguita alla crisi del ’29. Lo scopo di questa normativa era creare istituzioni pubbliche capaci di far arrivare liquidità (quindi prestiti) a basso costo ai cittadini, in particolare per i loro mutui. I partecipanti al FHLB potevano intrattenere rapporti solo con le banche partecipanti al sistema, non quindi direttamente con i privati.
Un ruolo di spicco, relativamente al mercato dei mutui, fu assegnato a Fannie Mae, una società pubblica fondata nel ’38, a cui si affiancarono più tardi (1970) una società simile, Freddie Mac e Ginnie Mae (1968). Ma in generale, spiega la Fed, tutte le GSE “hanno avuto un impatto notevole sul modo in cui le banche hanno iniziato a finanziarsi e hanno condotto la credit transformation“.
Quindi per uscire da una crisi (la grande depressione) si mettono in piedi meccanismi capaci di stimolare l’erogazione del credito. Si pianta un seme che, più tardi, provocherà un’altra crisi. Questa lezione della storia proprio non riusciamo a impararla.
In cosa consisté questa “rivoluzione”? Principalmente nel fatto che le FHLB sono state i primi “immagazzinatori” di prestiti che poi venivano impacchettati e smerciati. Per dirla con le parole della Fed, “Fannie Mae e Freddie Mac sono state la culla del modello di intermediazione originate-to-distribute del credito cartolarizzato”.
Se ricordate la catena sottostante al modello dello shadow banking, l’intervento delle FHLB si situa al secondo anello della catena, ossia nella fase successiva alla concessione del credito da parte della banca commerciale. I partecipanti al FHLB immagazzinano i crediti concessi dalle banche ripagandole con l’emissione di obbligazioni (agency debt, discount notes) che contenevano la garanzia dello Stato, e quindi con un alto merito di credito.
Fannie Mae e Freddie Mac intervenivano nel terzo anello della catena, ossia l’emissione di ABS, attraverso il mercato del TBA, finanziati con l’emissione di agency MBS, ossia di obbligazioni con sottostante mutui immobiliari. In tal modo le obbligazioni contenute in questi titoli cartolarizzati venivano trasferiti (pass) dalla banca originaria (primo anello della catena) attraverso (trough) l’agenzia governativa (GSE) al mercato degli investitori. Ciò spiega perché queste obbligazioni vengano assimilate fra le cosiddette pass-trough security. Per chi non lo sapesse, TBA sta per To Be Announced, ossia una classi di titoli che vengono “annunciati” 48 prima la loro emissione e commerciati, su lotti di minimo un milione di dollari, sulla base di una semplice promessa. Un altro miracolo del concetto di credibilità che regge la finanza.
Gli acquirenti di questi Abs (per lo più agency debt) sono brokers o investitori come gli Mreit che abbiamo conosciuto di recente. Costoro (quarto anello della catena) immagazzinano questi titoli finanziandone l’acquisto con ABCP (asset back commercial paper) o attingendo al mercato dei repo. Dopodiché questi strumenti vengono di nuovo impachettati (resecuritizatrions) in CMOs (collateralized mortgage obligation) da altri operatori (quinto anello della catena) che, dulcis in fundo, li rivendono alle GSE, cioé alle agenzie statali (fra le quali ci possono essere le stesse Fannie Mae e Freddie Mac) che hanno originato il primo ABS.
Il corto circuito perfetto che, di fatto, socializza le perdite quando ci sono (come infatti è successo nel 2008) e privatizza i guadagni.
Queste agenzie, per finanziarsi emettono altro debito (agency debt) che viene piazzato sul mercato dei capitali (wholesale funding), forte com’è di una doppia garanzia statale, quella originaria e quella “ricomprata”. Il guadagno di queste GSE arriva dalla maturity transformation (ossia dal fatto che giocano sulle diverse scadenze). Ma “a differena delle banche – scrive la Fed – le GSE non si finanziano con i depositi dei risparmiatori ma sul mercato dei capitali, dove emettono debito a lungo e a breve termine”.
Vi è più chiaro adesso perché nel 2008 Fannie Mae e Freddie Mac hanno fatto crash?
Con l’aggravante, sottolinea la FEd, che “le funzioni di funding esercitate dalle GSE sono diventate il modello del wholesale funding market”. La lezione, insomma, l’hanno imparata tutti.
Talmente bene che la prova generale del crash del 2007, ossia la crisi delle Casse di risparmio americane degli anni ’80, partì proprio dal FHLB, cui appartengono le GSE e dalle pratiche messe in piedi da questo sistema “ombra” governativo.
La nostra storia però non finisce qui.
“Negli ultimi trent’anni – scrive la Fed – queste tecniche sono state ampiamente adottate anche dalle banche e da operatori finanziari non bancari”.
Ma la cosa divertente è che Fannie Mae fu privatizzata nel 1968 con la solita scusa che bisognava ridurre il debito pubblico. Solo che la privatizzazione, pur facendo sparire l’agenzia dal bilancio dello stato, mantenne “una relazione stretta” con il governo “godendo di una garanzia implicita”, sempre per socializzare le perdite. Ma non solo. La garanzie implicita compie il miracolo della credit transformation, consentendo alle GSE di indebitarsi a un costo ridotto. In pratica si creò quello schema, poi replicato dalle banche con i loso SIVs, per il quale si creano entità fuori bilancio che lavorano grazie alla garanzia dello sponsor (nel caso di Fannie Mae il governo americano).
Le banche, come dicevo, impararono in fretta la lezione delle GSE e presero a fare shadow banking per conto loro. E’ quel sub sistema chiamato “internal shadow banking”. Questa rivoluzione del mondo bancario americano è avvenuto negli ultimi trent’anni, contemporaneamente alla liberalizzazione dei movimenti di capitali. Non a caso. Lo scopo della liberalizzazione era avere mercati dei capitali sempre più liquidi. Quegli stessi mercati a cui chiedere le risorse per tenere a galla le cartolarizzazioni.
La conseguenza dello sviluppo dei questo subsistema fu che le banche più grandi, prima caratterizzate da un basso RoE (return on equity), divennero entità dall’alto RoE. Rivendere il credito (originate-to-distribute) si è rivelato assai più remunerativo che tenerselo fino alla scadenza (originate-to-hold). Spezzare la relazione fra creditore e debitore può essere molto più conveniente, ma alla lunga si paga un prezzo alto. Che poi è il prezzo che stiamo pagando tutti noi ancora oggi.
Le banche sono cambiate, quindi. La lunga transizione duranta trent’anni le ha rese sempre più dipendenti dai mercati del capitale e sempre meno dai depositi. La loro funzione di intermediazione creditizia viene svolta in gran parte da veicoli fuori bilancio grazie alle tecniche imparate dai “padrini” governativi. Gli schemi del sistema ombra “interno” sono gli stessi di quello che abbiamo visto con le GSe. Cambiano solo i protagonisti. Quindi non vi annoiero con i dettagli.
Lo stesso vale per il subsistema “esterno”, ossia non bancario. Stavolta i protagonisti sono i broker-dealer, speciali intermediari non bancari, e altri soggetti come le compagnie assicurative, compagnie di hedge fund o compagnie che commerciano in prodotti derivati. La logica è sempre la stessa: cartolarizzazione e ricorso al wholesale funding per trovare i soldi. Aumentano solo i soggetti che giocano questo gioco pericoloso.
E più aumentano i soggetti, più il gioco diventa rischioso. Non solo perché aumenta la domanda di fondi sul mercato dei capitali. Ma anche perché questi soggetti sono sempre più fragili dal punto di vista finanziario. I SiV, tanto per essere chiari, hanno alle spalle una grande banca, che può sempre rivolgersi alla Fed come prestatore di ultima istanza, così come le GSE hanno alle spalle il governo il governo americano. I broker, al contrario, per fare un esempio, non hanno alcuna forma di “aiuto” pubblico. Possono fallire (ricordate Lehman Brothers?).
In questo modo tutte queste entità, a cominciare dalle agenzie governative (poi privatizzate) hanno creato negli ultimi trent’anni un sistema bancario parallelo che ha doppiato il totale delle passività del sistema bancario. Nel momento del picco lo shadow banking aveva 22 trilioni di passività a fronte alla decina circa delle banche ufficiali. Una parte di questo sistema ombra l’abbiamo visto, faceva riferimento alle stesse banche, che quindi operavano sia nel circuito ufficiale che in quello ombra, guadagnando in tutt’e due i posti, con un grazioso gioco della parti.
Poi è arrivata la Crisi.
Sono dovuti intervenire la Fed e il governo americano per tenere in piedi tutti gli anelli della catena creditizia, di cui ormai più nessuno sapeva quale fosse la coda e quale il capo. Furono creati una serie di salvagenti (backstops) per garantire le varie emissioni di carta straccia che si erano accumulate nel tempo. Per garantire la carta commerciale (CP) e le obbligazioni su questa emesse (ABCP) fu creato il Commercial paper funding facility (CPFF), che copriva i primi due anelli della catena. Per garantire il terzo anello, quello degi ABS, fu creato il Term Asset Backed loan facility (TALF); per garantire il quarto anello della catena, ossia quelli che immagazzinavano ABS, fu varato il il Term securities lending facility (TSLF) e anzi uno specifico fu dedicato a Bear Stearn (Maiden Lane LLC). Il quinto anello della catena, quello dei CDOs, fu garantito da un altro backstop chiamato Maiden Lane III LC, dedicato ai prodotti finanziari emessi dalla AIG, un altra grande protagonista del disastro. Quindi il sesto anello della catena, che provvide fondi grazie al Term auction facility (TAF) ai soggetti che si erano imbottiti di cartaccia.
L’ultimo gradino era quello più rilevante, perché le tensioni provocate dall’essiccamento della liquidità sul mercato dei capitali aveva messo a rischio il tri-party repo system, ossia il mercato dei pronti contro termine mediato da soggetti di peso come JP Morgan. Per evitare catastrofi, si aprì un’altra facility, la Primary dealer credit facility, mentre la Money Market investor funding facility avrebbe garantito tutto il mercato degli intermediari monetari.
Allo stesso tempo la FDIC, ossia la Federal deposit insurance corporation, aprì la Temporary liquisity guarantee program per coprire il debito senior (quind a cominciare dai depositi bancari).
In sostanza, dice la Fed, “il sistema dello Shadow banking fu competamente ‘abbracciato’ dal credito e dalla liquidità pubblica e divenne completamente garantito come il sistema bancario tradizionale. In questo modo il crollo è stato controllato”.
E io pago, direbbe Totò.
Abbiamo imparato finalmente la lezione?
La conclusione della Fed dice questo: “Ci aspettiamo che lo shadow banking avrà una parte significativa nel sistema finanziario, in una forma differente, in un prevedibile futuro”.
Evidentemente no.
(2/segue)
La finanza alternativa c’è già. In Islam
Quelli che auspicano una finanza alternativa dovrebbero impiegare un po’ di tempo a leggere qualcosina sulla finanza islamica. Io ogni tanto mi ci avventuro perché noto la crescente attenzione nei confronti di questo modello di organizzazione che, al di là del sostrato religioso che sussume, si differenzia in maniera determinante dal nostro.
Nella finanza islamica, infatti, l’attenzione è concentrata sulla relazione fra debitore e creditore. La sottolinea in ogni passaggio e la mette in rilevo, collegando ad essa, ad esempio, il principio della condivisione del rischio, e quindi dei profitti o delle perdite, degli investimenti.
Al contrario, noi abbiamo lavorato nel corso degli anni per allentare sempre più, fino ad annullarla, questa relazione. Cos’altro è il modello originate-to-distribute?
Noi occidentali abbiamo cercato in tutti i modi di eliminare il rischio insito nella relazione debitore-creditore, impacchettandolo in strumenti derivati smerciati all’ingrosso, per provare a dimenticare quella che è la realtà: ossia che il credito è rischioso.
Un tenue travestimento, peraltro molto remunerativo per chi lo mette in opera, della paura che tale rischio comporta.
Al contrario, i finanzieri islamici tengono talmente presente la realtà della relazione fra debitore e creditore che ne hanno fatto il pilastro portante dei loro strumenti finanziari.
Vi sembrerà filosofia. Ma il pensiero sta a monte della tecnica economica e la determina.
Per rendersene conto basta leggere il discorso di Zeti Akhtar Aziz, governatore della Banca centrale malese, tenuto a Jedda lo scorso 27 novembre, intitolato“Islamic finance –financial stability, economic growth and development”.
Capirete, leggendolo, che la filosofia intrinseca nella finanza islamica ha condotto questi paesi a costruire un sistema che, di anno in anno, si propone sempre più come interlocutore del sistema finanziario globale, arrivando persino a delineare una soluzione al dilemma fra squilibrio e depressione che affligge le nostre economie.
E’ proprio questo dilemma che il banchiere malese affronta all’inizio del suo intervento. “Cinque anni dopo la crisi – osserva – la sfida più pressante dell’economia globale è su come assicurare la stabilità finanziaria e insieme generare crescita e sviluppo”. Sono state fatti progressi sul versante della regolazione, spiega, ma la crescita stenta ancora a ripartire.
Ma ci sono alcune lezioni che la crisi dovrebbe avere insegnato.
La prima è che “l’espansione esponenziale dei sistemi finanziari non è commisurata a quella dell’attività economica. C’è una profonda disconnessione fra il settore finanziario e il suo ruolo di servire all’economia. La deregolamentazione ha aperto nuove opportunità alle istituzioni finanziarie, ma il link con le attività economiche è rimasto debole”. Per giunta “un prolungato periodo di tassi bassi in un ambiente di bassa inflazione può far assumere grandi rischi e contribuire a crescite significative degli squilibri finanziari”.
Insomma: stiamo ricreando le condizioni per il default prossimo venturo.
La seconda constatazione è che il ruolo dell’indebitamento è stato determinante per l’esplosione della crisi. “Alcuni report calcolano nel 300% del Pil il livello di debito delle economie avanzate”. E “le misure eccezionali e straordinarie intraprese dalle banche centrali fanno crescere le distorsioni nei mercati e hanno un costo per i risparmiatori, tanto più elevato quanto più rimarranno in campo”.
A fronte di questa situazione, la finanza islamica si propone innanzitutto di riancorare la finanza all’economia reale, al fine di creare un ambiente finanziario sostenibile e insieme le condizioni per una crescita equilibrata.
Ed ecco che il principio della condivisione del rischio fa capolino. “Uno dei requisiti della finanza islamica è che la transazioni devono supportare una genuina attività economica. Inoltre è un regime finanziario che mette l’enfasi sulla condivisione del rischio e questo rinforza il legame con l’economia reale”.
Il principio della condivisione del rischio non è nuovo, sottolinea, citando il caso del venture capital. Il principio della finanza islamica è lo stesso: l’investitore viene remunerato sulla base dei profitti che riesce a realizzare l’mpresa, o subisce una perdita se tali profitti non arrivano. “Questo principio – sottolinea – riduce il rischio di fare troppo affidamento sul finanziamento del debito, evitando insieme il debito eccessivo e la speculazione”.
“I contratti fra il finanziatore e l’imprenditore – spiega – mettono grande enfasi sulla creazione di valore e la capacità di creare profitto dell’impresa”, in tal modo si crea un link stretto fra finanza ed economia dove la prima non può (e non deve) crescere più della seconda.
Il principio della condivisione del rischio obbiga i prestatori a effetturare al contempo assennate due diligence prima di concedere credito, visto che non è possibile cartolarizzarlo e spedirlo altrove, “in modo da assicurare che i profitti siano commisurati con i rischi”.
Tutto ciò, sottolinea, conduce anche a una più equa distribuzione della ricchezza e alla possibilità di dare credito alle piccole realtà “aumentando il potenziale di una crescita economica bilanciata”.
Se ancora pensate che si tratti di belle teorie, date un’occhiata a questi numeri.
Il mercato dei sukuk, che potremmo definire semplificando i bond islamici, è cresciuto esponenzialmente in questi ultimi anni. Dai circa 33 miliadi di dollari di sukuk presenti nel 2006, si è arrivati a un valore di 292 miliardi a dicembre 2012. E il futuro è quantomai incoraggiante.
Nel 2013, leggo nel Global sukuk report riferito al secondo quarto 2013, le emissioni di bond islamici sono cresciute ancora, spinte – strano ma neanche tanto – dalla paura del tapering americano, portandosi a un totale di 61,2 miliardi.
“Le future prospettive di crescita dei paesi del golfo e di quelli asiatici – osserva – supportano le previsione di uno sviluppo dei mercato dei sukuk, specie in ragione del crescente fabbisogno di investimenti in infrastrutture”, che il nostro banchiere quota il almeno 8.300 miliardi di dollari da qui al 2020.
Sempre a patto, ovviamente, che la finanza islamica continui ad evolversi prendendo il buono che c’è nella nostra finanza, a cominciare dalle istanze regolatorie.
Che il futuro arrida a questi strumenti finanziari alternativi, lo conferma anche un report del 28 novembre scorso di Standard&Poor’s, dal titolo icastico: “Islamic Finance 2014: We expect continued double-digit growth, and a push for regulation and standards”.
S&P calcola che gli asset totali denominati secondo i principi della Sharia siano arrivati a 1.400 miliardi di dollari, malgrado “tale industria sia ancora nella sua fase formativa”. “Ma noi crediamo – sottolineano gli autori – che sia solo una questione di tempo prima che raggiunga una massa critica”. Sempre che, ovviamente, i finanziarieri islamici riescano a definire un ambiente regolatorio di livello.
Il 2014 potrebbe essere proprio l’anno della svolta, nota S&P.
Alfieri di questo sviluppo potrebbero essere paesi come l’Oman, la Nigeria e soprattutto la Turchia e l’Indonesia.
In Turchia, paese islamico moderato, l’Islamic banking è cresciuto notevomente negli ultimi anni, grazie anche alle legislazione favorevole voluta dal governo. E il mese scorso la Turchia ha emesso il suo secondo sukuk sui mercati internazionali.
La Bce farà indigestione di Mattone di carta
C’è di buono che stavolta Draghi non dovrà inventarsi nulla. Gli basterà ricopiare quello che fa già la Fed: acquistare ogni mese un bel pacco di titoli che hanno come sottostante mutui immobiliari. In tal modo si fa arrivare il credito alle banche, che tali mutui hanno erogato, liberaldole persino dal rischio ad essi collegati.
In pratica una riedizione in grande stile delle mitiche cartolarizzazioni dei muti immobiliari che hanno originato il boom immobiliare dei primi anni 2000. Con il vantaggio che stavolta, il destinatario finale della cartolarizzazione non sarà un’altra banca, ma la banca centrale che, come sappiamo, non può fallire e qualche altra istituzione altrettanto infallibile.
Sono arrivato a questa conclusione seguendo il filo di un semplice ragionamento. Pochi giorni fa, in occasione del taglio del tasso di sconto, il presidente della Bce ha detto che è allo studio un’iniziativa europea, guidata proprio dalla Bce, per il rilancio delle cartolarizzazioni. Motivo: malgrado l’abbondante diluvio di liquidità, le banche non danno abbastanza credito all’economia reale. Si limitano ad alimentare i circuiti finanziari, come abbiamo già visto.
Il rilancio delle cartolarizzazioni, in teoria, potrebbe riguardare crediti concessi alle imprese, che verrebbero poi impachettati in titoli negoziabili, ossia “vendibili” ad altri soggetti.
Tecnicamente si chiamano Asset-backed securities (Abs), e chi segue le cronache della crisi li ricorderà bene, visto che furono proprio le cartolarizzazioni dei mutui subprime a scatenare il panico. E ricorderà altrettanto il modello originate-to-distribute, che fu l’uovo di colombo della grande diffusione del credito su larghissima scala del decennio trascorso grazie all’assunzione dogmatica che lo spacchettamento del rischio finisse con il rimuovere il rischio tout court.
Le banche originavano il credito (e quindi il rischio) e lo distribuivano altrove, guadagnandoci pure le commissioni.
E’ finita come è finita, ma a quanto pare il modello ha ancora estimatori, addirittura a Francoforte. Forse perché i meccanismi tradizionali per fare arrivare credito all’economia non bastano più. Puoi pure portare i tassi a zero, come negli Usa o in Giappone, ma le banche ormai si fidano solo delle banche centrali. Prima di prestare soldi vogliono garanzie. Ormai addirittura dagli stati. Perciò le cartolarizzazioni.
Se questo è il modello, il mercato ideale da cui cominciare è quello del mattone. Il settore immobiliare ha generato il caos, e quindi da lì si deve ripartire.
E non è solo una questione di tornare alle origini. Il mattone, come abbiamo visto in passato, ha lo straordinario vantaggio di mobilitare enormi risorse e relativi grandi appetiti. Senza contare il suo peso relativo sui Pil europei del settore delle costruzioni, e la relativa capacità di lobby.
Inoltre, sul rilancio del mattone per via creditizia possono convergere tutte le cancellerie europee, quella tedesca inclusa.
La Germania, lo abbiamo già visto, gode dell’invidiabile privilegio di avere un mercato immobiliare reduce da anni di deflazione, al contrario di quanto accaduto in Francia e fra i Piigs, quindi può facilmente sopportare un rialzo dei corsi immobiliari indotto dal rilancio del credito al settore, come peraltro sta già succedendo, guadagnandoci anche una crescita del Pil che compensi il calo dello esportazioni.
La Francia è alle prese con un mercato immobiliare inceppato, che ha riempito le banche francesi di debito del quale non vedono l’ora di disfarsi, e per le quali la cartolarizzazione targata Bce sarebbe una benedizione.
Quanto ai Pigs, i prezzi si sono raffreddati parecchio, ma le banche, a cominciare da quelle italiane, hanno il consueto problema di sovraesposizione sul mattone. In più soffrono di un’aggravante: l’aumento della disoccupazione, che comprime i redditi, rende sempre più difficile ai cittadini avere accesso al credito per comprare una casa. Gli stipendi sono bassi, insomma: troppo rispetto ai prezzi.
L’Italia sta proprio in questa situazione, come ormai è pacificamente accertato. E poiché non è presumibile che i redditi crescano abbastanza, nei prossimi anni, da attivare una domanda verso il mattone, l’unica soluzione è tornare a battere cassa alle banche. Pompare liquidità sul credito bancario immobiliare per rianimare il settore. Come fa la Fed da diversi mesi. L’alternativa è rinunciare una volta per tutte all’ipotesi di acquistare casa e rassegnarsi all’affitto. Sarebbe un passaggio storico per noi.
Il caso (?) vuole che la questione immobiliare sia affrontata in un riquadro sull’ultimo bollettino mensile della Bce pubblicato pochi giorni fa. Al termine di un’analisi econometrica, la Banca conclude, facendo rimpiangere messer Lapalisse, dicendo che nel periodo precedente alla crisi “l’attività di investimento per l’area euro nel suo complesso è stata superiore al livello di equilibrio”. In pratica, “l’attività di costruzione è stata eccessiva e ha indotto un eccesso di offerta di proprietà”. Ne sono conseguiti, con la crisi, il calo dei prezzi e il crollo degli investimenti del settore, “scesi su livelli persino inferiori” del pre crisi.
Questo per ricordare ai teorici delle bolle speculative il devastante potere della risacca che segue all’ondata rialzista, che ti lascia peggio di come stavi prima.
Ancora più interessanti le conclusioni: “Le condizioni di fiducia e di finanziamento saranno cruciali per le prospettive degli investimenti residenziali”. Il problema sono “la rigidità delle condizioni di offerta del credito” e “la modesta crescita del reddito disponibile” dei potenziali acquirenti.
Quindi i l’Europa sta nella condizione classica del soggetto subprime. Ossia una persona che, proprio perché ha redditi bassi, non offre sufficienti garanzie per un finanziamento, e quindi soffre rigidita creditizia.
Siamo tutti cittadini subprime.
L’alternativa, ossai un ulteriore ribasso dei prezzi immobiliari fino ad allinearsi ai redditi, porta con sé il rischio che ne risentano i conti economici delle banche, già traballanti. Figuratevi se succederà.
Il caso (?) vuole che proprio in questi giorni l’Abi e l’Ance, ossia l’associazione dei banchieri e quella dei costruttori abbiamo presentato proprio un piano comune per “rilanciare il mercato degli immobili”. La proposta prevede, fra le altre cose, la creazione di un circuito dedicato di obbligazioni bancarie, i cosiddetti covered bond, senza dimenticare “un fondo dello stato per la fasce più deboli”. Insomma, garanzie pubbliche per dare credito ai subprime italiani.
La Bce sarà di sicuro interessata a rilevare queste obbligazioni, tanto più che i covered bond li compra già da tempo.
C’è qualcosa di diabolico in questo perseverare nell’errore? No: è solo disperazione. L’intero meccanismo economico ormai è preda di un delirio terminale. La scommessa è prendere tempo. Si prova a rallentare la frana del disindebitamento promuovendo l’indebitamento. Un po’ come si fa scambiando eroina con metadone.
Ma al di là di queste considerazioni fuori tema, vale la pena ricordare quello che ha detto pochi giorni fa Jeffrey Lacker, presidente della Fed di Richmond proprio sulla strategia seguita dalla Fed sugli MBS, mortgage-backed securities, ossia l’acquisto di Abs con sottostanti muti immobiliari. “Il mercato immobiliare sembra in ripresa – ha detto alla Reuters il 3 maggio scorso – quindi dobbiamo pensare come ridurre i nostri acquisti di MBS per evitare di creare un’altra bolla. Se non lo faremo, credo ci sia il rischio di sovrastimolare questo settore e noi abbiamo visto che disastro può provocare”.
Già, l’abbiamo visto.
Poi l’abbiamo dimenticato.