Etichettato: Freddie Mac

Bomba da dieci trilioni nel sistema finanziario (e fiscale) Usa

Lì da dove tutto è cominciato – la finanza immobiliare americana – tutto deve necessariamente tornare, mi dico mentre leggo l’ultimo staff report del Fmi che all’housing finance dedica un approfondimento, e non a caso. “Malgrado numerosi passi siano stati fatti per sanare le strutturali debolezze del mercato dei mutui – nota il Fmi – una riforma complessiva dell’housing finance rimane in gran parte un lavoro incompleto”.

Una premessa che solleva parecchi dubbi sullo stato di salute del sistema finanziario americano, che proprio a causa del crollo della finanza immobiliare ha patito una delle sue crisi peggiori, e il resto del mondo di conseguenza.

“In particolare – nota il Fondo – non è ancora chiaro quando Fannie Mae e Freddie Mac usciranno dal regime di conservatorship (in sostanza la tutela del governo, ndr) e quale sarà la fisionomia dell’housing finance”. Ciò nella consapevolezza che tale incertezza “crea non solo rischi fiscali ma anche finanziari”. Ossia “il moral hazard che deriva dalla copertura delle perdite sui crediti o dalle imprese sponsorizzate dal governo, un paesaggio competitivo distorto da Fannie Mae e Freddie Mac e i larghi sussidi per i proprietari di casa che crea incentivi e favorisce l’accumulo di debito da parte delle famiglie”.

Rimane il fatto che, oggi come ieri, “i mercati ipotecari sono parte integrante per la stabilità complessiva del sistema finanziario degli Stati Uniti”. E quindi la fonte principale del rischio finanziario statunitense.

I numeri ci dicono che i mutui per le abitazioni, che valevano circa 10 trilioni di dollari a fine 2014, sono la parte preponderante del debito del settore privato non bancario, pesando circa il 39% del totale, il doppio dei bond e della carta commerciali, che non superano il 18%. Poi ci sono i prestiti, al 14% e il credito al consumo, al 13%. La voce altri mutui, quelli commerciali, assorbe un altro 13%. Se sommiamo questi ultimi ai primi, ne ricaviamo che oltre la metà del debito privato americano è legato in qualche modo al mattone. E questo basta a comprendere perché la statistiche immobiliari siano così rilevanti.

A ciò si aggiunga che la principale fonte di finanziamento di questi prestiti sono le cartolarizzazioni che, lo abbiamo visto nel 2008, sono strumenti capaci di diffondere repentinamente il proprio contagio in tutto il mondo. “Negli Stati Uniti – nota il Fmi – le garanzie pubbliche, direttamente dal governo o tramite Freddie Mac e Fannie Mae, svolgono un ruolo importante nel processo di cartolarizzazione”.

E poi ci sono i sussidi, altra specificità Usa. I mutui a tasso fisso trentennali, che non prevedono sanzioni per l’estinzione anticipata, e quindi scaricando i rischi sul prestatore, consentono alla grande maggioranza dei debitori di vendere le loro case e ripagare il mutuo e finanziarne un altro in meno di dieci anni. Ciò fa della finanza immobiliare americana un settore intimamente speculativo. Come esempio il Fondo fa quello dei mutui trentennali erogati prima del 2009, l’80% dei quali sono stati ripagati entro il 2013.

A fronte di queste caratteristiche strutturali, “anche dopo otto anni dalla crisi”, il mercato ipotecario continua a funzionare grazie a un estensivo supporto del governo. “Il governo federale – nota il Fmi – sta dietro più del 60% dello stock dei prestiti e supporta quasi l’80% dei prestiti concessi alle nuove famiglie attraverso la Federal housing administration (FHA).

Un grafico sommarizza bene questa situazione, risalendo addirittura al 1951. All’epoca le istituzioni finanziarie, quindi innanzitutto le banche, detenevano praticamente il 100% dei crediti originati dai debiti immobiliari. Ma nel corso del tempo l’intervento delle varie entità sponsorizzate dal governo ha spostato il rischio di tali crediti dalle banche allo stato. Un processo iniziato negli anni ’70 e che oggi vede le banche detenere poco più del 30% di tali crediti. La via americana alla socializzazione (globale) delle perdite della finanza immobiliare.

L’enorme rischio fiscale che il governo si è assunto, e tanto più dopo la crisi del 2008, è in sostanza la benzina che alimenta il motore del mercato immobiliare Usa. Dal canto loro gli intermediari finanziari lucrano sulla carta che questo rischio fiscale consente di stampare, ossia le obbligazioni che mutui cartolarizzano, spargendola per il mondo in un tripudio di capitale fittizio.

Ne deriva che “il sistema attuale ostacola il funzionamento dei mercati ipotecari”, visto che scoraggia quella sana competizione che nel vangelo economico corrente dovrebbe favorire l’efficienza e l’efficacia, favorendo per converso comportamenti irresponsabili.

E anche l’argomento che tale politica abbia finalità sociali si rivela fallace, nota il Fmi, sottolineando come invece sia prodiga di effetti collaterali indesiderati. E certo fa sorridere che il governo americano, dopo quello di Singapore, sia quello più coinvolto nel settore immobiliare. Osservare che gli Usa sono più pesantemente coinvolti della Russia nella gestione del mercato immobiliare mi fa interrogare su quale sia la vera patria del socialismo.

La morale di questa storia mi pare sia quella che le leggi del mercato si applicano ai nemici e si interpretino per gli amici. E non mi stupisce che tale prassi sia di casa negli Usa, visto che sono i primi a infischiarsene bellamente del mercato quando ne ravvedano la necessità.

Il problema è che il conto delle loro scelte prima o poi dobbiamo pagarlo noi.

Pubblicità

Shadow Banking: 80 anni vissuti pericolosamente

Vale la pena continuare l’analisi dello shadow banking perché ci permette di capire bene quanto in profondità il nostro presente affondi le sue radici nella storia. E la storia delle banche ombra, che molti credono siano un prodotto dell’attualità, risale addirittura agli anni ’30, agli anni del New Deal e della nascita del sogno americano che prevedeva, fra le altre cose, che tutti i cittadini avessero la possibilità di comprarsi una casa, come poi in effetti iniziò a succedere nel tempo di guerra.

Anche qui, ci aiuta a ripercorrere questa storia lo staff report “Shadow banking” che la Fed di New York pubblicò nel 2010.

La banca centrale distingue tre sottogruppi di soggetti che operano nella finanza ombra: c’è il sistema dei soggetti sponsorizzati dal governo (government sponsored enterprises, GSE), il sistema dello shadow banking “interno”, ossia che fa riferimento alle banche tradizionali, e infine lo shadow banking “esterno”, ossia praticato da soggetti separati dalle banche. Ognuno di loro racconta una storia.

La radice più antica, come dicevo, risale agli anni ’30. “Il seme dello shadow banking – scrive la Fed è stato piantato 80 anni fa, con la creazione delle GSE” che furono inserite nel Federal Home loans banks. Il FHLB fu una conseguenza del Federal Home loan bank act varato nel 1932 per far fronte alla pesante depressione seguita alla crisi del ’29. Lo scopo di questa normativa era creare istituzioni pubbliche capaci di far arrivare liquidità (quindi prestiti) a basso costo ai cittadini, in particolare per i loro mutui. I partecipanti al FHLB potevano intrattenere rapporti solo con le banche partecipanti al sistema, non quindi direttamente con i privati.

Un ruolo di spicco, relativamente al mercato dei mutui, fu assegnato a Fannie Mae, una società pubblica fondata nel ’38, a cui si affiancarono più tardi (1970) una società simile, Freddie Mac e Ginnie Mae (1968). Ma in generale, spiega la Fed, tutte le GSE “hanno avuto un impatto notevole sul modo in cui le banche hanno iniziato a finanziarsi e hanno condotto la credit transformation“.

Quindi per uscire da una crisi (la grande depressione) si mettono in piedi meccanismi capaci di stimolare l’erogazione del credito. Si pianta un seme che, più tardi, provocherà un’altra crisi. Questa lezione della storia proprio non riusciamo a impararla.

In cosa consisté questa “rivoluzione”? Principalmente nel fatto che le FHLB sono state i primi “immagazzinatori” di prestiti che poi venivano impacchettati e smerciati. Per dirla con le parole della Fed, “Fannie Mae e Freddie Mac sono state la culla del modello di intermediazione originate-to-distribute del credito cartolarizzato”.

Se ricordate la catena sottostante al modello dello shadow banking, l’intervento delle FHLB si situa al secondo anello della catena, ossia nella fase successiva alla concessione del credito da parte della banca commerciale. I partecipanti al FHLB immagazzinano i crediti concessi dalle banche ripagandole con l’emissione di obbligazioni (agency debt, discount notes) che contenevano la garanzia dello Stato, e quindi con un alto merito di credito.

Fannie Mae e Freddie Mac intervenivano nel terzo anello della catena, ossia l’emissione di ABS, attraverso il mercato del TBA, finanziati con l’emissione di agency MBS, ossia di obbligazioni con sottostante mutui immobiliari. In tal modo le obbligazioni contenute in questi titoli cartolarizzati venivano trasferiti (pass) dalla banca originaria (primo anello della catena) attraverso (trough) l’agenzia governativa (GSE) al mercato degli investitori. Ciò spiega perché queste obbligazioni vengano assimilate fra le cosiddette pass-trough security. Per chi non lo sapesse, TBA sta per To Be Announced, ossia una classi di titoli che vengono “annunciati” 48 prima la loro emissione e commerciati, su lotti di minimo un milione di dollari, sulla base di una semplice promessa. Un altro miracolo del concetto di credibilità che regge la finanza.

Gli acquirenti di questi Abs (per lo più agency debt) sono brokers o investitori come gli Mreit che abbiamo conosciuto di recente. Costoro (quarto anello della catena) immagazzinano questi titoli finanziandone l’acquisto con ABCP (asset back commercial paper) o attingendo al mercato dei repo. Dopodiché questi strumenti vengono di nuovo impachettati (resecuritizatrions) in CMOs (collateralized mortgage obligation) da altri operatori (quinto anello della catena) che, dulcis in fundo, li rivendono alle GSE, cioé alle agenzie statali (fra le quali ci possono essere le stesse Fannie Mae e Freddie Mac) che hanno originato il primo ABS.

Il corto circuito perfetto che, di fatto, socializza le perdite quando ci sono (come infatti è successo nel 2008) e privatizza i guadagni.

Queste agenzie, per finanziarsi emettono altro debito (agency debt) che viene piazzato sul mercato dei capitali (wholesale funding), forte com’è di una doppia garanzia statale, quella originaria e quella “ricomprata”. Il guadagno di queste GSE arriva dalla maturity transformation (ossia dal fatto che giocano sulle diverse scadenze). Ma “a differena delle banche – scrive la Fed – le GSE non si finanziano con i depositi dei risparmiatori ma sul mercato dei capitali, dove emettono debito a lungo e a breve termine”.

Vi è più chiaro adesso perché nel 2008 Fannie Mae e Freddie Mac hanno fatto crash?

Con l’aggravante, sottolinea la FEd, che “le funzioni di funding esercitate dalle GSE sono diventate il modello del wholesale funding market”. La lezione, insomma, l’hanno imparata tutti.

Talmente bene che la prova generale del crash del 2007, ossia la crisi delle Casse di risparmio americane degli anni ’80, partì proprio dal FHLB, cui appartengono le GSE e dalle pratiche messe in piedi da questo sistema “ombra” governativo.

La nostra storia però non finisce qui.

“Negli ultimi trent’anni – scrive la Fed – queste tecniche sono state ampiamente adottate anche dalle banche e da operatori finanziari non bancari”.

Ma la cosa divertente è che Fannie Mae fu privatizzata nel 1968 con la solita scusa che bisognava ridurre il debito pubblico. Solo che la privatizzazione, pur facendo sparire l’agenzia dal bilancio dello stato, mantenne “una relazione stretta” con il governo “godendo di una garanzia implicita”, sempre per socializzare le perdite. Ma non solo. La garanzie implicita compie il miracolo della credit transformation, consentendo alle GSE di indebitarsi a un costo ridotto. In pratica si creò quello schema, poi replicato dalle banche con i loso SIVs, per il quale si creano entità fuori bilancio che lavorano grazie alla garanzia dello sponsor (nel caso di Fannie Mae il governo americano).

Le banche, come dicevo, impararono in fretta la lezione delle GSE e presero a fare shadow banking per conto loro. E’ quel sub sistema chiamato “internal shadow banking”. Questa rivoluzione del mondo bancario americano è avvenuto negli ultimi trent’anni, contemporaneamente alla liberalizzazione dei movimenti di capitali. Non a caso. Lo scopo della liberalizzazione era avere mercati dei capitali sempre più liquidi. Quegli stessi mercati a cui chiedere le risorse per tenere a galla le cartolarizzazioni.

La conseguenza dello sviluppo dei questo subsistema fu che le banche più grandi, prima caratterizzate da un basso RoE (return on equity), divennero entità dall’alto RoE. Rivendere il credito (originate-to-distribute) si è rivelato assai più remunerativo che tenerselo fino alla scadenza (originate-to-hold). Spezzare la relazione fra creditore e debitore può essere molto più conveniente, ma alla lunga si paga un prezzo alto. Che poi è il prezzo che stiamo pagando tutti noi ancora oggi.

Le banche sono cambiate, quindi. La lunga transizione duranta trent’anni le ha rese sempre più dipendenti dai mercati del capitale e sempre meno dai depositi. La loro funzione di intermediazione creditizia viene svolta in gran parte da veicoli fuori bilancio grazie alle tecniche imparate dai “padrini” governativi. Gli schemi del sistema ombra “interno” sono gli stessi di quello che abbiamo visto con le GSe. Cambiano solo i protagonisti. Quindi non vi annoiero con i dettagli.

Lo stesso vale per il subsistema “esterno”, ossia non bancario. Stavolta i protagonisti sono i broker-dealer, speciali intermediari non bancari, e altri soggetti come le compagnie assicurative, compagnie di hedge fund o compagnie che commerciano in prodotti derivati. La logica è sempre la stessa: cartolarizzazione e ricorso al wholesale funding per trovare i soldi. Aumentano solo i soggetti che giocano questo gioco pericoloso.

E più aumentano i soggetti, più il gioco diventa rischioso. Non solo perché aumenta la domanda di fondi sul mercato dei capitali. Ma anche perché questi soggetti sono sempre più fragili dal punto di vista finanziario. I SiV, tanto per essere chiari, hanno alle spalle una grande banca, che può sempre rivolgersi alla Fed come prestatore di ultima istanza, così come le GSE hanno alle spalle il governo il governo americano. I broker, al contrario, per fare un esempio, non hanno alcuna forma di “aiuto” pubblico. Possono fallire (ricordate Lehman Brothers?).

In questo modo tutte queste entità, a cominciare dalle agenzie governative (poi privatizzate) hanno creato negli ultimi trent’anni un sistema bancario parallelo che ha doppiato il totale delle passività del sistema bancario. Nel momento del picco lo shadow banking aveva 22 trilioni di passività a fronte alla decina circa delle banche ufficiali. Una parte di questo sistema ombra l’abbiamo visto, faceva riferimento alle stesse banche, che quindi operavano sia nel circuito ufficiale che in quello ombra, guadagnando in tutt’e due i posti, con un grazioso gioco della parti.  

Poi è arrivata la Crisi.

Sono dovuti intervenire la Fed e il governo americano per tenere in piedi tutti gli anelli della catena creditizia, di cui ormai più nessuno sapeva quale fosse la coda e quale il capo. Furono creati una serie di salvagenti (backstops) per garantire le varie emissioni di carta straccia che si erano accumulate nel tempo. Per garantire la carta commerciale (CP) e le obbligazioni su questa emesse (ABCP) fu creato il Commercial paper funding facility (CPFF), che copriva i primi due anelli della catena. Per garantire il terzo anello, quello degi ABS, fu creato il Term Asset Backed loan facility (TALF); per garantire il quarto anello della catena, ossia quelli che immagazzinavano ABS, fu varato il il Term securities lending facility (TSLF) e anzi uno specifico fu dedicato a Bear Stearn (Maiden Lane LLC). Il quinto anello della catena, quello dei CDOs, fu garantito da un altro backstop chiamato Maiden Lane III LC, dedicato ai prodotti finanziari emessi dalla AIG, un altra grande protagonista del disastro. Quindi il sesto anello della catena, che provvide fondi grazie al Term auction facility (TAF) ai soggetti che si erano imbottiti di cartaccia.

L’ultimo gradino era quello più rilevante, perché le tensioni provocate dall’essiccamento della liquidità sul mercato dei capitali aveva messo a rischio il tri-party repo system, ossia il mercato dei pronti contro termine mediato da soggetti di peso come JP  Morgan. Per evitare catastrofi, si aprì un’altra facility, la Primary dealer credit facility, mentre la Money Market investor funding facility avrebbe garantito tutto il mercato degli intermediari monetari.

Allo stesso tempo la FDIC, ossia la Federal deposit insurance corporation, aprì la Temporary liquisity guarantee program per coprire il debito senior (quind a cominciare dai depositi bancari).

In sostanza, dice la Fed, “il sistema dello Shadow banking fu competamente ‘abbracciato’ dal credito e dalla liquidità pubblica e divenne completamente garantito come il sistema bancario tradizionale. In questo modo il crollo è stato controllato”.

E io pago, direbbe Totò.

Abbiamo imparato finalmente la lezione?

La conclusione della Fed dice questo: “Ci aspettiamo che lo shadow banking avrà una parte significativa nel sistema finanziario, in una forma differente, in un prevedibile futuro”.

Evidentemente no.

(2/segue)