Etichettato: cos’è lo shadow banking

Ecco cos’è e come funziona lo Shadow Banking

Lo shadow banking fa paura, a cominciare dal nome. Spaventa i regolatori, scottati dai danni inflitti al sistema finanziario globale dalle banche-ombra nel 2008. Spaventa gli osservatori, che poco si raccapezzano nel ginepraio di soggetti, regole e tecniche che costituiscono la ragnatela di questo delicato e potente strumento di intermediazione creditizia. Spaventa i cittadini, che ci si raccapezzano ancor meno e percepiscono le banche ombra come l’ennesima minaccia alla loro tranquillità.

Può essere utile, perciò, provare a fare un po’ di chiarezza.

Portare un po’ di luce nell’ombra.

Per farlo è assai istruttivo leggere uno staff report della Fed di New York del 2010 (rivisto a febbraio del 2012) che si intitola proprio “Shadow Banking”, che di fatto è il primo che introduce questo termine nel dibattito e sommarizza il problema.

Leggerlo è innanzitutto un viaggio nella storia. E la conferma, qualora fosse necessaria, di quanto sia pernicioso ed errato il luogo comune secondo il quale lo Stato e il mercato siano entità separate e dialetticamente contrapposte. Al contrario, lo Shadow banking è nato sotto l’egida dello Stato (americano), e ha prosperato grazie alle garanzie pubbliche, fino a diventare una prassi di mercato che ha consentito agli operatori finanziari privati e alle banche di cambiare la logica e soprattutto la redditività dell’intermediazione creditizia. Al prezzo però di una sostanziale instabilità.

In cosa consista la sostanza dello Shadow banking è presto detto: in pratica grazie a questo sistema è cambiata la fonte principale del funding (ossia della fonte di finanziamento) degli operatori finanziari. Invece di limitarsi ad attingere alle fonti “classiche”, tipo i depositi dei risparmiatori o l’emissione di bond, costoro hanno iniziato a trovare risorse in maniera crescente nel mercato dei capitali, esponendosi, di conseguenza, ai suoi capricci e alla sua sostanziale ciclotomia. Ciò ha condotto a grandi guadagni nei tempi di euforia e a grandi perdite in quelle di depressione che hanno costretto gli stati a mettere mano al portafogli rendendo esplicita quella garanzia implicita nell struttura stessa del sistema.

Cominciamo da alcune nozioni che molti conoscono, ma che giova sempre ricordare. Nel sistema bancario tradizionale l’intermediazione fra i risparmiatori e chi prende a prestito si svolge in un’unica entità, ossia la banca. I risparmiatori affidano, sotto forma di depositi, le proprie risorse alle banche che le usano per finanziare i prestiti ad altri. I risparmiatori possono finanziare la banca anche comprando i suoi bond oppure le sue azioni.

Una volta che le banche entrano in possesso delle risorse, che per loro equivalgono a debiti, entra in gioco l’intermediazione creditizia che si articola attraverso la credit transformation, la maturity transformation e la liquidity transformation.

La credit trasformation ha a che fare col merito del credito emesso. Ricordo che il lavoro di una banca commerciale consiste nel caricarsi un debito liquido e a breve termine, che proviene da un suo cliente creditore, come ad esempio un deposito, e trasformarlo un un credito a lungo termine nei confronti di un  suo cliente debitore. Il guadagno sta nella differenza fra il costo del debito contratto nei confronti del cliente/creditore e del credito concesso al cliente/debitore. In questo processo il merito di credito ha un suo peso. Per semplificare: la banca accende un suo debito a tripla A, visto che fondato sui depositi, e vende un credito a un compratore a doppia A. La A di differenza coincide con lo spread fra i due tassi applicati. Esempio classico: la banca investe i suoi depositi in un titolo di stato a doppia A.

La maturity transformation ha a che fare con la pratica, che abbiamo già visto, di indebitarsi a breve per prestare a lungo. Ciò genera liquidità per il risparmiatore, ma espone la banca al rischio di avere difficoltà a rifinanziarsi (rollover e duration risk). In compenso la banca guadagna perchè i tassi a breve sono più bassi di quelli a lungo.

La liquidity transformation ha a che fare con la capacità di procacciarsi risorse liquide tramite asset illiquidi. Se io ad esempio aggrego in un contenitore finanziario un insieme di mutui che hanno un valore X, posso venderlo a un valore X-Y in cambio di liquidità. Y è tanto più basso quanto più il contenitore è commerciabile (quindi a sua volta liquido) e ha un buon rating.

A cosa ci serve sapere tutto cio? A capire quali sono le regole generali del gioco dello shadow banking.

Proprio come le banche, infatti, i soggetti convolti nei processi utilizzano le tecniche bancarie, pur senza essere banche, per far girare i soldi.

In comune con le banche, le banche ombra hanno pure una qualche forma di garanzie ufficiali. Diverse, certo, dalle assicurazioni sui depositi di cui godono le banche commerciali. Ma comunque pubbliche.

L’elenco dei soggetti che fanno Shadow Banking è lungo e ve lo risparmio. Vi basti sapere che dal 1990 in poi, quando lo Shadow banking ha iniziato a prendere piede, questo sistema parallelo ha generato una montagna crescente di debiti.

Il grafico elaborato dalla Fed mostra con chiarezza che nel 1990 le passività dello shadow banking erano alle stesso livello delle passività bancarie, meno di 5 trilioni di dollari. Dieci anni dopo, a fronte di passività bancarie che superavano di poco i 5 trilioni, quelle dello shadow banking avevano già superato i 10, arrivando a superare i 20 trilioni nel momento di picco del 2007 (22 trilioni a giugno), mentre le passività bancarie erano circa 14 trilioni.

Il crollo del 2008 ha provocato un pesante de-leveraging dello shadow banking, grazie sostanzialmente alle garanzie e alle risorse pubbliche, che a fine 2011 quotava “appena” 15 trilioni, un po’ sopra il livello raggiunto dalle passività bancarie, intanto cresciute.

Capite bene perché questo shadow banking desti così tante preoccupazioni, visto che alla prova dei fatti ha dimostrato “la sua inerente fragilità dovuta all’ esposizione nei confronti fornitori di wholesale funding”.

Per capire come abbiamo potuto formarsi questa montagna di debiti, però è necessario fare un’altra incursione nella noiosissima tecnica finanziaria. In parole povere dobbiamo capire come funzioni praticamente lo shadow banking.

Le paroline magiche dello shadow banking sono due: cartolarizzazioni e wholesale funding, che potremmo tradurre grossolanamente “finanziamento sul mercato”. In questo sistema i debiti vengono cartolarizzati diventando così strumenti finanziari commerciabili. Il finanziamento sul mercato avviene tramite strumenti anch’essi commerciabili, come la carta commerciale (commercial paper) e i repo.

“Come il sistema bancario tradizione – spiega la Fed – lo shadow banking fa intermediazione creditizia”. La differenza è che mentre la banca conduce tutte le sue operazioni all’interno del suo perimetro (“under one roof”) lo shadow banking è una specie di catena di sant’Antonio che si articola lungo sette passaggi ognuno dei quali implica soggetti e strumenti differenti. L’unica cosa che hanno in comune questi soggetti è che non sono banche.

Vediamo questi passaggi insieme. Poi cerchiamo di capirli.

1) generazione del prestito; 2) stoccaggio del prestito; 3) emissione di un Abs (asset backed security); 4) stoccaggio degli Abs; 5) emissione di un CdO (collatelarized debt obligation) sugli Abs emessi; 6) intermediazione su Abs; 7) wholesale funding.

Come al solito tanta complicazione nasconde un principio molto semplice. Il debito originario viene messo a garanzia di un altro debito che viene trasformato in un altro debito ancora. Ogni passaggio genera nuovo debito che, alla fine della catena, viene venduto al mercato dei capitali, dove lavorano grandi operatori come i fondi monetari. Costoro, di conseguenza, non hanno la minima idea di cosa comprino. E questo spiega perché al minimo stormir di fronde scappino a gambe levate mandando in crash la catena di sant’Antonio.

Scendiamo nel dettaglio. E non tanto per amore della tecnica, ma per sincera ammirazione nei confronti di tanta fantasia.

Cerco di raccontarlo a modo mio, quindi mi scuserete per il pressappochismo.

Un bel giorno decidete di comprare una macchina nuova. La vostra società finanziaria vi fa un bel prestito e voi, tutti contenti, andate a spenderlo, del tutto ignari (e in fondo indifferenti) a quello che succederà al vostro debito. Per trovare i soldi da prestarvi, la società finanziaria si finanzia emettendo commercial paper (CP) o titoli a medio termine (medium term note, MTNs).

La società finanziaria, che non vuole avere nulla a che fare con voi, e che deve pure pensare a come ripagare i propri debiti, cede il vostro debito ad un veicolo finanziario specializzato (conduit) che, forte dello sponsor di qualcuno (magari una banca) raccoglie questi prestiti e li immagazzina. Per trovare i soldi da dare alla finanziaria emette altro debito, che prende la forma di asset backed commercial paper (ABCP), ossia obbligazioni che hanno come sottostante carta commerciale (magari la stessa emessa dalla finanziaria).

A questo punto si pone il problema di cosa fare con questa montagna di prestiti. A svuotare il magazzino ci pensa un broker che li raccoglie li struttura in un Abs, che sta per asset backed securities. In pratica li cartolarizza, impacchettandoli in un contenitore finanziario che, in quanto tale avrà un rating e un certo grado di liquidità. E soprattutto diventa cedibile. Il rischio inerente al prestito originario viene mischiato con altri rischi nell’ipotesi che così facendo diventi statisticamente meno rilevante. Il pensiero sottostante a tale pratica è si possa eliminare il rischio. Ma è chiaramente un’illusione statistica.

Anche gli Abs, essendo commerciabili e redditizi, finisce che vengono immagazzinati nei trading book dei broker o delle banche che li usano, fra le altre cose, sul mercato dei repo.

Ma siccome non basta mai, ecco che ogni tanto bisogna anche svuotare il magazzino degli Abs, che finiscono anche loro raccolti e strutturati in un altro contenitore, i Collateralized debt obligation (CDOs), anche questa minestra viene cucinata da broker-dealer specializzati.

A commerciare in Abs sono precise società finanziarie di scopo (Limited purpose finance companies, LPFCs). Fra queste troviamo i Structured investment vehicles (SIVs) resi celebri dal crash subprime (si scoprì che erano semplici travestimenti di molte banche), arbitraggisti, hedge fund specializzati nel credito e altre amenità più o meno incomprensibili.

E arriviamo al punto sette della nostra catena. Tutte queste simpatiche entità, che fanno attività di intermediazione creditizia lavorando con la credit, la maturity e la liquidity transformation, attingono tutte alla stessa fonte le risorse necessarie affinché la catena continui a scorrere senza strozzare nessuno: il famoso finanziamento sul mercato dei capitali (wholesale funding) nel quale agiscono intermediari più o meno regolati come i fondi monetari, che forniscono risorse liquide abbondanti che cercano parcheggi sicuri per breve tempo. E siccome almeno fino alla crisi del 2007 la carta delle banche ombra veniva considerata sicura, nella convizione che spacchettando il rischio quello magicamente scomparisse (ma poi vedremo perché), ecco che i nostri fornitori di liquidità sembravano la perfetta quadratura del cerchio per gli apprendisti stregoni dello shadow banking.

E non solo loro. A questi fornitori di risorse cash (tali vengono considerate anche i repo e la carta commerciale) si sono aggiunti nel tempo anche i pezzi grossi come i fondi pensione e le compagnie di assicurazioni. Se considerate la quantità di risorse di cui dispongono queste entità, capite bene perché la montagna di passività dello shadow banking sia cresciuta così tanto e così allegramente.

La cosa divertente di tutta questa faccenda è che lo shadow banking è diventato di dominio pubblico soltanto dal 2007 in poi, grazie ai disastri che ha provocato.

Ma le cartolarizzazione, gli Abs e tutto l’armamentario sono roba vecchia. Almeno di ottant’anni.

Ma questa è un’altra storia.

(1/segue)

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S’allunga l’ombra delle banche-ombra

Tutti quelli che si preoccupano dello stato di salute delle banche, avranno un soprassalto d’ansia scoprendo che accanto al sistema ufficiale, oggetto di cotanta attenzione e regolamentazione, cresce nell’ombra un sistema “parallelo” di entità che, pur non essendo banche, si comportano come tali. Ossia aumentano il volume di credito/debito nel mondo, senza esser soggette ai controlli del circuito bancario tradizionale.

Queste entità, che la letteratura economica ha chiamato Shadow Banking, hanno finito col diventare uno dei più grandi rischi sistemici del sistema finanziario internazionale, che ne ha patito la terribile influenza durante la grande crisi del 2008, quando le banche “parallele” furono travolte dall’ondata di sfiducia partita dai mutui subprime, che le Banche-ombra avevano contribuito non poco ad alimentare.

Da allora queste istituzioni sono finite sotto la lente d’ingradimento di alcune autorità, a cominciare dal FSB, il Financial stability board, che per primo le ha classificate come “entità fuori dal sistema bancario regolato che svolgono funzioni tipiche del sistema bancario, ossia l’intermediazione creditizia”. Di recente se n’è occupato anche il Fondo monetario internazionale, che ha dedicato un interessante articolo al tema.

Prima di andare avanti servono alcune premesse per capire cosa si intenda per intermediazione creditizia.

Nella definizione dell’FSB, tale attività si estrinseca in quattro funzioni:

1) Maturity transformation, ossia l’ottenimento di fondi a breve termine che vengono investiti in asset a lungo termine;

2) Liquidity transformation, vale a dire trasformazioni di liquidità, come i passivi di cassa, per acquistare asset da vendere, come i prestiti;

3) Leverage, ossia l’utilizzo di tecniche che amplificano (nei guadagni come nelle perdite) gli effetti degli investimenti;

4) Credit risk transfer, vale a dire la possibilità di distribuire il rischio degli investimenti a soggetti diversi da se stessi. Tipico il caso degli Abs, di cui abbiamo già parlato.

Stante questa definizione, viene fuori che le banche non sono le sole a svolgere questo coacervo di attività. Tutt’altro. Nel tempo sono sorte altre istituzioni, molto spesso espressione delle stesse banche, che hanno svolto intermediazione creditizia al di fuori del circuito ufficiale, col risultato di innalzare in maniera significativa il livello generale del credito/debito nel circuito finanziario. E quindi del rischio.

Fra queste entità spiccano alcuni fondi di investimento che hanno costituito pool di investitori che hanno iniziato ad agire nei circuiti della carta commerciale e degli MBS al fine di aumentare la quantità di credito a disposizione delle famiglie.

Il problema è che finché va tutto bene non c’è problema. E che dopo è troppo tardi.

Quando c’è stata la gelata del credito, queste entità hanno contribuito non poco al credit crunch, visto che hanno iniziato a vendere asset per rientrare dalle loro esposizioni. E lo hanno fatto in un contesto che ancora ignorava il loro peso relativo e quindi la magnitudo del loro effetto sistemico.

La conseguenza è che si è avvitata una spirale ribassista che ha messo fuori mercato, rendoli illiquidi, una mole di strumenti finanziari custoditi nelle pance delle banche “normali”.

Da qui la catastrofe vissuta negli anni scorsi, aggravata dalla circostanza che non si disponesse di informazioni né sulla consistema dello shadow-banking, né trasparenza sugli assetti proprietari.

Molte banche, che possedevano o alimentavano questi strumenti, si sono limitati a ingoiare le perdite che hanno provocato senza fare troppa pubblicità, per le solite questioni di credibilità.

Il problema si ripropone oggi.

Le analisi che dal 2008 in poi si sono sviluppate attorno a queste entità confermano che, dopo il “raffreddamento” vissuto fra il 2008 e il 2010, tale pratica si sta sviluppando persino più di prima.

Negli Stati Uniti, scrive il Fmi, lo shadow banking copre una quota rilevante del sistema finanziario, pure se è calato dal 44% del pre-crisi al 35% di oggi.

Per dare un’idea delle risorse che muovono queste banche-ombra, basti considerare che nel periodo di picco, ossia nel 2007, facevano circolare 62 trilioni di dollari (62.000 miliardi).

La crisi ha fatto declinare ad “appena” 59 trilioni questa montagna di asset, ma già nel 2011 l’importo era di nuovo risalito oltre il picco del 2007, ossia a 67 trilioni di dollari.

A livello globale, stima il FSB, lo shadow-banking, fra il 2009 e il 2011, ha pesato almeno il 25% dell’intermediazione creditizia, a fronte del 27% raggiunto nel 2007.

“Il vero rischio di queste attività – sottolinea il Fmi – e che è ancora indetermiato se sono sistemicamente importanti”.

Insomma, sappiamo che l’ombra delle banche-ombra si allunga sempre più su di noi. Ma non sappiamo nient’altro.

Salvo che sono pericolose.