Etichettato: ricchezza finanziaria famiglie italiane

Non sappiamo cos’è l’inflazione, ma compriamo Bitcoin

C’è molto da imparare a scorrere l’ultimo rapporto presentato da Consob sulle scelte di investimento delle famiglie italiane. Una ricognizione molto documentata che ci consente non solo di sapere come gli italiani gestiscono i propri risparmi, ma anche il livello di consapevolezza dietro le proprie scelte di investimento. Due cose che nel caso italiano sono curiosamente divergenti: a un alto livello di ricchezza finanziaria, è infatti associata una carente conoscenza finanziaria.

Non sorprende quindi tanto la circostanza che in Italia ci sia un livello molto elevato di risparmio che rimane nei depositi. 

Piuttosto sorprende che negli ultimi anni, complice probabilmente anche lo sviluppo tecnologico, siamo diventati discreti investitori nel mondo esotico delle monete virtuali, a cominciare da Bitcoin, e della finanza decentralizzata. Un settore che ha avuto un notevolissimo sviluppo: ormai vi agiscono decine di milioni di utenti finali a livello globale, per un mercato che ormai ha toccato i 100 miliardi.

Anche gli italiani non sono sfuggiti a questa seduzione. La Consob riporta che circa il 3% del campione monitorato ha usato i propri risparmi per investire in Bitcoin. Una cifra che può sembrar bassa, ma che risulta di assoluto rilievo se si confronta con le altre scelte di investimento e si ricorda che parliamo di mercati non solo molto esotici ma anche non regolamentati.

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Il crescente interesse verso questi asset, di sicuro incoraggiato dai notevoli rendimenti (e perdite) che possono generare, è maturato all’interno di un contesto di tassi di interesse ancora molto bassi, che può aver alimentato una certa fame di rendimento, senza che però sia cresciuta allo stesso la consapevolezza dei rischi. 

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La “fame” di criptovalute, insomma, è una delle tante conseguenza della maggiore propensione al rischio che gli investitori italiani sembrano aver sviluppato nell’ultimo biennio, confermata anche dalla notevole crescita di interesse verso i mercati azionari, frequentati sempre più grazie agli strumenti di trading on line, il cui uso. cresciuto nell’ultimo biennio.

Fra gennaio e ottobre del 2021 gli investitori italiani hanno originato 34 miliardi di transazioni on line che si confrontano con i 26 miliardi dell’intero 2019, per un controvalore di 119 miliardi di euro di acquisti lordi, rispetto i 93 miliardi del 2019. Ciò a fronte di un calo delle transazioni per le obbligazioni, arrivate a 22 miliardi di acquisti loro nel 2021, a fronte dei 33 del 2019. Insomma: gli investitori italiani dimostrano una maggiore tolleranza al rischio. O almeno sembra.

Il campione osservato da Consob – circa 2.700 persone – ci dice infatti che gli investitori italiani, che sono in larga maggioranza uomini (72%), sono in prevalenza ancora avversi al rischio (76%) e alle perdite. Ma soprattutto conferma il livello ancora molto carente di competenza finanziaria, che si confronta con un livello di ricchezza finanziaria tutto sommato invidiabile.

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Malgrado siamo diventati amanti di Bitcoin – pur rimanendo un paese di correntisti – coloro che sanno orientarsi su concetti semplici di finanza, come il rapporto fra rischio e rendimento, l’inflazione o l’interesse composto, sono ancora una minoranza.

L’eredità del nostro passato di Bot people, quando le famiglie finanziavano massicciamente i deficit pubblici lasciandosi irretire da rendimenti a doppia cifra e trascurando l’inflazione, evidentemente chiede ancora il suo tributo.

Il Rapporto tuttavia concede spazio per un certo ottimismo. “Il livello di conoscenza finanziaria di base dei decisori italiani, pur rimanendo contenuto, ha continuato a crescere”, recita. Anche se rimane bassa l‘attitudine all’educazione finanziaria, visto che “il 43% degli intervistati non avverte la necessità di approfondire temi potenzialmente utili in occasione di scelte importanti”. Speriamo che per quando avremo imparato tutti cos’è l’inflazione, rimanga qualcosa, nei nostri portafogli. A parte i Bitcoin.

L’anno d’oro dei paperoni italiani

L’anno orribile alle nostre spalle non deve esser stato così orribile, o almeno non per tutti, se le attività finanziarie delle famiglie italiane sono cresciute in valore del 2,1%, arrivando a quotare il 3,6% del reddito disponibile.

In media, ovviamente.

Sicché mentre continuo a sfogliare l’ultima relazione di Bankitalia, che così tante verità sussura nelle orecchie di chi voglia ascoltarle, mi sorge il dubbio che siamo tutti vittima di una rappresentazione artatamente drammatizzata della nostra realtà, dove trovano ostello solo uggie e depressioni, ritmate dall’onnipresente crisi, mentre molti, all’ombra di cospicui conti correnti o portafogli zeppi di carta valevole, nel disgraziatissimo anno che abbiamo superato, col suo prodotto declinante e la sua finanza pubblica in bilico, prosperino assai bene. E buon per loro, ovviamente.

Ma perché allora non raccontarla tutta questa storia?

Mi dico che dev’essere un vezzo del carattere nazionale farla sempre peggio di come sia, oppure svalutare le nostre peculiarità più belle solo perché magari le disgrazie hanno buona stampa, a differenze delle fortune. O forse perché ci piace raccontarci tristi e disgraziati, mentre sorseggiamo l’aperitivo delle cinque attrezzati di tutto punto con lo smartphone all’ultimo grido.

Sicché mi dico pure che non è prova di scarsa discrezione ficcare il naso nelle tasche altrui, ma semplice restituzione di realtà a un Paese che ha smesso di pensare a come usare i suoi soldi in un modo che sia altro da farci altri soldi.

La ricchezza finanziaria, perciò, croce e delizia delle famiglie italiane (e delle imprese), che si trovano invischiate nel fastidioso (e invidiabile) problema di dover gestire masse di attivi che a fine 2013 sfioravano i 3.900 miliardi di euro che, al netto di debiti per altri 900 circa, quotano una rispettabile ricchezza numeraria netta di quasi 3.000 miliardi. Per la precisioni sono 2.975,535 miliardi.

Parlo di ricchezza finanziaria perché quella totale, che quindi include i beni reali, ha sofferto per il calo del mattone, che anche nel 2013 ha patito, dopo aver goduto a inizio secolo di rialzi spettacolari. Sicché la ricchezza totale, sempre a fine 2013, è diminuita rispetto al 2012 da 8 volte a 7,9 volte il reddito disponibile. Ciò, malgrado il corposo rialzo che abbiamo visto della quota finanziaria di tale ricchezza. Ciò per dire quanto sia rilevante il mattone a casa nostra.

Limitiamoci alla finanza, perciò, che ha già tante cose da dirci.

La ricchezza finanziaria lorda è arrivata a quotare, sempre in media, 3,6 volte il reddito disponibile, superando persino il livello del 2007, quando era 3,5 volte il reddito, come se la crisi fosse stata solo un brutto sogno.

Circostanza comune, peraltro. E’ accaduta la stessa cosa in Francia (da 2,94 a 3,17), in Germania (da 2,78 a 2,79), al contrario della Spagna, che ancora deve recuperare (da 2,86 a 2,79). Mentre nell’area euro il trend è consolidato (da 3,14 a 3,27).

Se poi depuriamo delle passività la ricchezza, scopriamo, sempre nel confronto intereurozona, che godiamo ancora dell’invidiabile privilegio della più bassa quota di debiti finanziari sul reddito disponibile, pari al 65%, persino in calo rispetto al 2012, a fronte dell’85% franco-tedesco e del 116% spagnolo, ben al di sotto della media euro del 95%.

Vale la pena rilevare, tuttavia, che dal 2007 i debiti li abbiamo peggiorati (erano il 57% del reddito), al contrario di quanto è accaduto in Spagna, che erano al 131%, ma in coerenza con quanto è accaduto nell’intera euroarea (dal 95 al 98%).

E ciò malgrado, la nostra ricchezza finanziaria netta quota 2,76 volte il reddito disponibile, ben oltre la media euro di 2,17 e sopra anche Francia (2,12) e Germania (1,94). Certo, le statistiche sono ingannatrici, e bisogna pur tener conto del numero di abitanti e dei valori medi e mediani. Però l’indicazione è chiara: i soldi, come sistema paese, ce li abbiamo. E sono pure aumentati.

Nel 2013 il saldo finanziario delle famiglie è arrivato al 2,5% del Pil, superando quota 30 miliardi, in crescita rispetto ai 18 del 2012. Per chi non lo ricordasse, il saldo finanziario misura la differenza fra il flusso dei risparmi e quello degli investimenti. Quindi un saldo finanziario positivo significa che si è investito più di quello che si è disinvestito.

Come li utilizziamo è un altro paio di maniche.

Quindi è scrutando la dinamica degli impieghi che s’arguisce la fisionomia di un popolo e di un’epoca.

Scopro così che nel 2013 siamo diventati un filo più amanti del rischio, ma solo perché siamo molto più attenti ai rendimenti. Sono aumentati gli investimenti in azioni e nelle varie forme del risparmio gestito. Da bravi capitalisti, gli italiani danarosi vogliono trarre il massimo dalle proprie provvidenze, in forme di rendite. Anche perché il governo le ha pure tassate più di prima e perciò bisognerà pure rischiare qualcosa di più per cavarci una qualche soddisfazione.

E perciò a soffrire deflussi sono innanzitutto i titoli di stato (non c’è più lo spread di una volta) e anche le obbligazioni bancarie.

Ma ciò non vuol dire che siamo diventati degli spregiudicati gambler. Al contrario. Una rilevante percentuale di questi soldi è investita in attività liquide, quindi circolante e depositi. Parliamo del 30,9% del totale del malloppo, in decisa crescita rispetto al 27,3% del 2007. In valori assoluti parliamo di circa 1.047 miliardi di depositi, ai quali bisognerebbe aggiungere circa 273 miliardi di risparmio postale e soldi liquidi, carta commerciale e altre amenità.

Ma è cresciuta di più la quota di ricchezza investita in attività più rischiose, arrivata al 31,4%, dal 29,2 del 2007.

E già qui si individua una interessante linea di faglia che appassionerebbe un sociologo: i più ricchi cercano il rischio, i più poveri si aggrappano al conto alla posta. I primi guadagnano, gli altri no. Risultato: aumenta la disuguaglianza.

I dati del 2012, sempre di Bankitalia, sottolineano che il 10% più ricco ha portato la sua quota di ricchezza al 46,6% dal 45,7 del 2010, a dimostrazione (qualora fosse necessario) che le crisi servono a far ricchi i più ricchi. E sono proprio costoro, i più ricchi, quelli che si possono permettere di giocare al rialzo, dando la caccia al rendimento.

“Le famiglie più abbienti sono i principali investitori in attività rischiose e detengono oltre due terzi del totale di azioni, obbligazioni emesse dal settore privato, risparmio gestito e titoli esteri”, scrive Bankitalia.

Per darvi un’idea di che cifre stiamo parlando, sappiate che le consistenza di azioni a fine 2013 quotavano oltre 916 miliardi di euro, i titoli obbligazionari 624 miliardi, dei quali appena 184 bond statali (in calo di quasi 40 mld fra 2012-13), e 308 miliardi di fondi comuni.

I soldi fanno soldi, dice il proverbio.

E anche la relazione annuale conferma un dato che ci era noto: “Il valore mediano della ricchezza netta dei nuclei con capofamiglia di età superiore a 64 anni registra una
dinamica di lungo periodo più favorevole rispetto a quella dei nuclei con capofamiglia di età inferiore a 35 anni”.

Detto in parole semplici: la ricchezza è concentrata nella fascia più anziana della popolazione.

Il 2013, perciò, è stato un anno d’oro per i paperoni italiani, che sono diventati più ricchi di prima. E di nuovo: buon per loro. Ma possibile che non si riesca a fare nulla di meglio coi soldi che farne altri?

A fronte di ciò leggo con divertito sconcerto che sono aumentati, nella generale crisi del credito, i prestiti garantiti dal quinto dello stipendio, “una forma di finanziamento meno rischiosa per gli intermediari (le banche, ndr)”.

Sicché i ricchi si arricchiscono e i poveracci cedono il quinto.

D’altronde non ho mai detto che questa fosse una storia a lieto fine.