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La nuova globalizzazione americana somiglia (per ora) a quella vecchia

Molto si discute di come stia cambiando il mondo in conseguenza dei vari cataclismi che lo squassano da almeno un ventennio, con gli ultimi due o tre anni che hanno svolto il ruolo poco sempre poco apprezzato di chi scatena l’incendio. Per fare un parallelo, la pandemia e la guerra sono stati l’equivalente del colpo di pistola di Sarajevo nel 1914, con il vecchio equilibrio internazionale nel ruolo dell’arciduca austriaco assassinato. La guerra è scoppiata, ma covava da tempo.

Altresì la nostra cara, vecchia globalizzazione: è scoppiata ma la crisi covava da tempo. Solo un occhio poco avveduto non indovina, nel grande crash del 2008 la prima crisi di un grande movimento di internazionalizzazione iniziato con l’ingresso della Cina nel Wto, e che già sul finire degli anni Novanta, mentre montava la prima crisi del millennio, quella di Internet, riempiva le piazze di contestatori. Il celebre libro No logo è stato pubblicato nel 1999, proprio mentre le piazze di Seattle protestavano contro la WTO. Quasi un quarto di secolo fa, quindi, non ieri l’altro.

Ricordare queste cose ci aiuta ad apprezzare meglio un ottimo lavoro svolto da alcuni economisti che hanno pubblicato un paper, proposto di recente dal NBER, assai utile ai giorni nostri (Global Supply Chains: the looming “great reallocation”), quando sembra – sembra – che il mondo stia rivedendosi allo specchio alla ricerca di un nuovo modo di essere. Utile innanzitutto perché fornisce alcuni dati riferiti agli Stati Uniti (vedi tabella sopra e sotto) che poi sono stati il grande motore, e non da oggi, di questa globalizzazione. Capire come e dove stia girando questo motore, perciò, è molto interessante.

Prima di inerpicarci sui numeri, anticipiamo subito una prima conclusione che rivela chiaramente quel legame, ormai intuito da tempo, fra globalizzazione e livello generale dei prezzi. “Non è chiaro se si ridurrà la dipendenza degli Stati Uniti dalle catene di approvvigionamento collegate alla Cina, e del resto ci sono già segnali che i prezzi delle importazioni dal Vietnam e dal Messico siano in aumento”.

Questa conclusione ci dice due cose: la prima è che le gli Stati Uniti, specie dopo il 2017, con l’epoca Trump, hanno iniziato il loro percorso di allontanamento dalla Cina, di sicuro molto velleitario ma chissà quanto efficace. Al tempo stesso hanno iniziato a spostare le proprie catene di fornitura, in Vietnam e Messico ad esempio. Ma non è affatto detto che questo abbia effetti positivi sui prezzi all’importazione, rimasti bassi a lungo nell’epoca “cinese”, che sono stati un potente driver della deflazione internazionale – insieme al basso costo dei fattori di produzione – nell’epoca d’oro della globalizzazione.

La tabella che apre questo post ci dice molto altro circa l’andamento della globalizzazione “americana”. La prima è che cambiano i luoghi, per la ragion politica, ma non le logiche: si cerca sempre di produrre utilizzando forza lavoro a basso costo. Si punta su nuovi emergenti – L’India vede aumentare le sue esportazioni negli Usa (dal 2 al 3 per cento del totale dell’import statunitense) nello spazio di pochi anni, che è sicuramente molto, ma non certo indice di una rivoluzione. Specie quando si osservi che Cina, che pure ha perso posizione – nel 2022 pesava il 17 per cento delle importazioni Usa a fronte del 22 del 2017 – rimane saldamente al primo posto come principale fornitore degli americani.

Questo perché è molto facile dire, o scrivere, mentre rimane difficile fare e quindi cambiare prassi che si sono consolidate nel corso di decenni. Se la nouvelle vague del near-shoring, friend-shoring, o comunque si voglia chiamare, avrà effetti lo vedremo solo nel periodo medio-lungo, durante il quale nel frattempo avremo appreso anche i costi.

Per il momento si possono sicuramente osservare sotterranei mutamenti nei rapporti di partnership economica che, per quanto “incombente”, come scrivono gli autori del paper, è ancora ben lungi dall’essere compiuta. E anche ammesso che si compirà è difficile attendersi profonde rivoluzioni.

Un esempio, raccontato nel paper, aiuterà a capire. Nel corso degli anni Novanta Canada e Giappone hanno visto diminuire la loro quote di importazioni dagli Usa a vantaggio di Cina e Messico, e tuttavia sono rimasti forti legami fra questi paesi e gli Stati Uniti perché, ad esempio, il Giappone “ha sostituito gli investimenti diretti ai flussi commerciali come modalità di accesso al mercato Usa”.

Solo un esempio, ma istruttivo. Un altro ancora, stavolta lato export statunitense, aiuta a comprendere quanto i contesti siano volatili e al tempo stesso molto stabili. Negli anni ’90 gli Usa erano forti esportatori di prodotti relativamente a monte della catena di produzione (circuiti integrati elettronici, macchinari e parti e altri input materiali per la lavorazione e l’assemblaggio all’estero), pur essendo un importatore di beni finali (elettronica, tessili). “La fine degli anni 2000, a sua volta, ha visto un cambiamento significativo (anche se spesso trascurato) nel profilo commerciale degli Stati Uniti, poiché la sua crescente indipendenza energetica ha portato a una diminuzione delle importazioni di petrolio e prodotti correlati”.

I cambiamenti avvengono, insomma, ma all’interno di una struttura che tende a rimanere stabile. A meno ovviamente di cambiamenti catastrofici. L’esempio calzante, in questo caso, è il crash osservato durante la pandemia.

L’analisi svolta dagli autori degli ultimi cinque anni “caratterizzati da un’intensificazione del sentimento anti globalizzazione” mostra infatti che non c’è stato il temuto “netto ridimensionamento del commercio globale in termini di quota del PIL mondiale”. Al contrario: “Di fatto, il valore aggregato dei principali flussi commerciali, come le importazioni di beni statunitensi, ha registrato una forte ripresa dopo la pandemia di Covid-19, raggiungendo i massimi storici nel 2022”.

Serve, insomma, una catastrofe di livello Covid per disseccare le fonti del commercio internazionale, e comunque sia il sistema ha una sua resilienza che tende a riportarlo verso l’equilibrio perduto. Questo non vuol dire che i cambiamenti non accadano. L’effetto Trump, chiamiamolo così, ha spostato cinque punti di import americano dalla Cina ad altri paesi. Ed è probabile che le recente politiche economiche della nuova amministrazione, tese in qualche modo a “rimpatriare” gli investimenti esteri Usa ne provochino altri. Ma servirà tempo, appunto. E il tempo è denaro.

Questo denaro passa dalle merci, che cambiano luogo di produzione, e dagli investimenti diretti esteri, che si dirigono altrove. E a seconda dell’altrove che si sceglie, vengono a formarsi nuovi prezzi di produzione, che hanno effetti diretti sui prezzi al consumo. Specie se le catene di produzione vengono internalizzate. Nel caso, vale a dire, di reshoring.

A tal proposito il paper osserva che i primi effetti delle politiche usa si iniziano a intravedere. In particolare, si nota che alcune catene di produzione tendono a chiudersi dentro il territorio Usa. E questo, se da un lato frena il declino della manifattura statunitense, dall’altro solleva interrogativi non banali sull’effetto che il reshoring può avere sul livello generale dei prezzi.

Detto diversamente, fino a che punto siamo disposti ad accettare un aumento dei prezzi in cambio di una ripresa della manifattura interna? Non esistono pasti gratis in economia. Tantomeno in quella internazionale.