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Pensioni e diseguaglianza. La “regressività” del contributivo
Dovrebbe dircela lunga il fatto che l’Inps nel sul ultimo rapporto annuale dedichi un approfondimento che spiega come il sistema previdenziale che abbiamo faticosamente costruito dopo un trentennio di riforme più o meno sensate sia diventato un elemento che contribuisce a far crescere la diseguaglianza, anziché mitigarla. Ma per non commettere l’errore comune di parlare di diseguaglianza senza specificare cosa si intenda, è meglio entrare un po’ più nel dettaglio.
Cominciamo dal primo caso. Nell’ultimo ventennio è cresciuta la differenza fra la mediana del reddito pensionistico degli uomini rispetto alle donne, che evidentemente hanno visto crescere relativamente meno il loro reddito pensionistico.

Questa diseguaglianza è divenuta particolarmente evidente a partire dal 2012, passando da 400 euro a 550 nei trattamenti di anzianità e da 200 a 250 in quelli di vecchiaia, divenute 400 dopo il 2017.
Più interessante, aldilà delle diseguaglianze di genere, osservare come il sistema previdenziale abbia finito col generare iniquità per la semplice ragione che è diventato neutro dal punto di vista redistributivo, grazie all’introduzione del sistema contributivo al posto di quello retributivo.
Per capire meglio serve una breve premessa. Un sistema pensionistico, ricorda l’Inps, può generare diversi tipi di redistribuzione delle risorse. Intanto, quando è a ripartizione come il nostro, “girando” i contributi di chi lavora a chi è in pensione, e abbiamo visto quanto pesi oggi questa spesa. Poi c’è la cosiddetta redistribuzione intergenerazionale, quando nel corso della vita una generazione risulta avvantaggiata rispetto a un’altra.
Un’altra forma di redistribuzione è quella che il sistema pensionistico opera all’interno di una stessa generazione. Caso interessante perché ci consente di misurare il grado di progressività di un sistema pensionistico, quindi la sua capacità di trasferire risorse dai più ricchi ai più poveri. Che poi è quello che tutti dicono di voler fare, salvo operare praticamente per il contrario.
Questa evidenza viene confermata anche dall’analisi svolta dall’Inps sul nostro sistema previdenziale contributivo frutto di un trentennio di riforme che hanno condotto al sistema attuale, dove i lavoratori non versano contributi per la parte dei redditi eccedenti i 103 mila euro ed è stata eliminata l’integrazione al minimo delle prestazioni di vecchiaia di importo più basso.
“Se valutati nell’ottica della redistribuzione intragenerazionale tutti questi provvedimenti vanno nella direzione di una riduzione della progressività del sistema pensionistico”, scrive l’Inps. E non c’è bisogno di aggiungere altro. Salvo forse che con le nuove regole “gli spazi per redistribuire risorse dai più ricchi ai più poveri siano diventati molto più stretti”. “L’abolizione dell’obbligo contributivo sui redditi di importo elevato – sottolinea – riduce il contributo da parte della componente più ricca della popolazione dei lavoratori e l’abolizione dell’integrazione al minimo trasferisce alla sfera assistenziale (assegno sociale, maggiorazione sociale e pensione di cittadinanza) il problema del contrasto alla povertà per la popolazione dei lavoratori poveri”.
Tale considerazione teorica è stata confermata empiricamente osservando l’effetto del passaggio da retributivo a contributivo su dati estratti dall’archivio dell’istituto. E’ emerso che il numero dei lavoratori che ha un imponibile superiore al tetto contributivo è composto dal 75 mila persone, nel corso del 2020, pari allo 0,5% della platea contributiva. La base imponibile esentata dalla contribuzione è stata pari a cinque miliardi di euro. Mentre dall’altra parte della distribuzione, ossia i più poveri, le integrazioni al minimo pesavano tre miliardi di euro ed erano erogate al 10,1% dei pensionati, con un importo medio pari a 2.462 euro su base annuale. In sostanza l’esenzione dei più ricchi sarebbe più che sufficiente a garantire la copertura delle integrazioni ai più poveri senza gravare sulla fiscalità generale come è adesso.
Ulteriori analisi svolte dall’Istituto hanno confermato che mentre era presente una debole progressività del sistema pensionistico quando vigeva il sistema retributivo, tale caratteristica “scompare completamente in quello contributivo”. “In altri termini il passaggio al sistema contributivo renderebbe sostanzialmente neutro, dal punto di vista distributivo, il sistema pensionistico, in coerenza con la logica strettamente assicurativa che ha accompagnato questa modifica normativa all’interno del sistema pubblico”. Tale risultato viene confermato anche dall’analisi dell’indice di Gini nell’uno e nell’altro caso. Insomma: il contributo è neutro dal punto di vista distributivo, ma solo perché il carico dell’esenzione viene sopportato dal fisco. Sennò sarebbe regressivo. Altro che eguaglianza.
Padri e figli, divisi alla mèta
C’è molto più dei semplici numeri, che pure sono scoraggianti, nello scenario sociale che l’Ocse traccia nel suo ultimo rapporto sul nostro paese di cui abbiamo già parlato. Ci sono i padri (e le madri), costretti dalle nuove riforme pensionistiche, ad andare in pensione sempre più tardi, assai più che nel resto dei paesi industrializzati. E ci sono i figli che superano ogni anno il record di disoccupazione giovanile perché i padri non possono lasciare il lavoro.
Ci sono pure i padri che invecchiano, e invecchiando diventano sempre meno produttivi e sempre più costosi, vista la particolarità del nostro sistema retributivo. E ci sono i figli che man mano che invecchiano sono destinati a guadagnare di meno, perché su di loro (e non su altri) si scaricherà quella mitica flessibilità che dovrebbe salvare l’Italia, secondo il noto mainstream economico.
Su padri e su figli incombono come due giganteschi Moloch altrettanti riforme perseguite con straordinaria temerarietà e rara inconcludenza negli ultimi vent’anni: la riforma del mercato del lavoro e quella delle pensioni. Entrambe presenza fissa nell’agenda di tutti i governi, con i risultati che abbiamo tutti sotto gli occhi e che l’Ocse ricapitola bene, concludendo il suo rapporto con l’invito a “proseguire nel percorso delle riforme”.
Come se proseguire a parlare di una cosa di cui si parla da vent’anni sia normale.
Qualche numero servirà a capire la dimensione del problema.
La spesa italiana per le pensioni in rapporto al Pil è la più alta dell’area. Nel 2010 era intorno al 15% del Pil, più o meno quanto era nel 1992, quando iniziò il tormentato percorso di riforme della previdenza in nome della “sostenibilità del sistema pensionistico”.
Vent’anni di riforme, in sostanza, hanno ottenuto di stabilizzare questo peso relativo, tanto è vero, nota l’Ocse, che “il governo progetta di stare sotto il 16% del Pil per i prossimi 50 anni”.
Dovremmo essere contenti? Certo. A patto di non confrontarci con gli altri, visto che l’incidenza delle pensioni sul Pil “rimane alta nel confronto internazionale”.
In cambio di questa fatica ventennale, che di sicuro non finirà con l’ultima riforma del governo Monti, abbiamo ottenuto due cose per nulla commendevoli: l’età più alta di pensionamento dell’area Ocse, e la percentuale più alta di ultra55enni al lavoro da qui al 2020.
Due primati di cui si farebbe volentieri a meno.
Del primo abbiamo già detto, ma è utile ripetere usando le parole dell’Ocse: “La media dell’età pensionabile si presume crescerà dai 61 del 2010 ai 65 anni del 2020, un incremento assai più rapido che negli altri paesi dell’Ue. Questo avrà profonde implicazioni nel mercato del lavoro”.
E qui veniamo al secondo primato: “Nel 2020 la partecipazione degli ultra55enni dovrebbe arrivare al 57% del mercato del lavoro, un notevole incremento rispetto a 38% del 2010”. E’ probabile, scrivono che “la produttività diminuisca a quell’età”. Con grave nocumento per il beneamato Pil.
Come uscirne? “Il mercato del lavoro deve essere flessibile abbastanza da generare un calo dei salari in corrispondenza dell’allungamento della vita lavorativa”: E poiché, come ammette la stessa organizzazione, in alcuni settori, specie quello pubblico, le retribuzioni crescono con l’anzianità, chi dovrà patirla, questa flessibilità salariale?
Pagare salari più alti ai soggetti meno produttivi implica per logica pagare salari più bassi a chi produce di più. Ossia i giovani.
La soluzione Ocse si chiama flexicurity, ossia un sistema di retribuzioni che sia collegato alla produttività e che quindi preveda salari calanti al declinare della produttività lungo tutto il periodo della vita lavorativa.
Detto in parole semplici significa che gli stipendi dovranno essere elastici. Bassi in entrata, perché tanto sono giovani e hanno tempo, crescere se aumenta la produttività, e poi tornare ad abbassarsi in uscita.
Il che proiettato in un sistema previdenziale contributivo (dove quindi si incassa in relazione a quanto versato) significa pensioni basse dopo una vita di stipendi incerti.
Non fa un piega.
Tutto questo nella migliore delle ipotesi.
Nella peggiore avremo una quota crescente di anziani sul mercato del lavoro costosi e poco produttivi, costretti a rimanere in servizio (se sono fortunati) fino a tarda età, per i quali la mèta della pensione sarà sempre più una speranza e uno spauracchio insieme.
E poi avremo una larga massa di giovani che non trovano lavoro perché i posti sono occupati dai loro padri. Ragazzi per i quali la mèta di una vita normale rimane una semplice chimera.
Padri e figli: divisi alla mèta.
