L’incarichificio

C’era una volta, in un paese lontano, una fabbrica meravigliosa che non conosceva mai crisi.

Di anno in anno il suo contributo alla crescita del prodotto nazionale era aumentato senza sosta. Crescevano i prodotti e anche gli addetti, e la domanda dei beni di questa fabbrica sembrava non arrivasse mai ad esser soddisfatta.

Tanto che si arrivò al punto che ogni altra attività, nel paese lontano, si sospese. Nessuno intraprendeva alcunché fino a quando la grande fabbrica non si fosse messa in attività.

Il resto del mondo guardava a questo paese con comprensibile invidia. La crisi, che fiaccava le energie produttrici di tutti, sembrava dar vigore alla fabbrica meravigliosa che anzi ne usciva ogni volta più splendida, potente e produttiva che mai.

Non capiva, il resto del mondo, la sottigliezza economica di questa fabbrica. Ciò che all’occhio inesperto poteva sembrare caotica instabilità, nel paese lontano era fonte di ogni rivoluzione benigna e progresso sociale, paretiana circolazione delle élites.

Ogni volta che la fabbrica riapriva, la lunga catena del valore iniziava a contorcersi, trasmettendo impulsi nervosi dalle alte gerarchie ai più umili sottoposti, muovendo energie e motivazioni fino a rivoluzionare la società.

Succedeva così che ognuno iniziasse a sognare cambiamenti epocali, di reddito e funzioni, e si agitasse a tal punto che ogni cosa ne veniva scossa.

Al contrario, quando la fabbrica si tacitava, l’uggia della quotidianità avvolgeva ogni cosa. I dirigenti dirigevano senza direzione, i lavoratori lavoravano senza lavorio, i pensionati si annoiavani ai giardinetti.

Il paese meraviglioso sperimentava così i ruvidi tormenti dell’immobilismo disperato.

Anche quell’anno la fabbrica meravigliosa sembrava spenta. Le sue ciminiere emettevano pigre nuvolette bianche intermittenti, segnale d’un tranquillo tran tran che mal si addiceva agli spiriti animali di quel paese lontano, rotto ormai alla continua necessità del cambiamento, che come una droga circolava nelle sue vene alla costante ricerca di un richiamino.

Le attività del paese lontano iniziarono a deperire. Tutto divenne tremendamente quotidiano.

Senza la febbre indotta dalla fabbrica, rimanevano solo questioni inani, come mettere insieme il pranzo e la cena, i debiti da pagare e piccole soddisfazioni calcistiche per i più fortunati. Piccolezze poco adatte alla grandezza di un così grande paese.

Fu deciso allora un concilio dei grandi spiriti che per fortuna abitavano il paese lontano.

Costoro scrutarono preoccupati grafici e tabelle e poi, disgustati i titoli ormai incolore delle gazzette, privati dello smalto del gesto ardito e dell’afflato delle grandi speranze.

La situazione parve a tutti disperata e disperante: se continuava così tutto il paese meraviglioso avrebbe dovuto riaprire le altre fabbriche e mettersi a produrre le stesse cose che producevano gli altri. Lavorare persino. Prospettiva tremenda, in un mondo globalizzato dalle paghe cinesi.

Finché non prese la parole il più grande di quegli spiriti, il Papà della Nazione.

“Figli miei”, disse contrito “l’ora è grave e abbisogna di grandi responsabilità. E’ arrivato il momento che la Fabbrica riaccenda il vigore dei suoi altiforni, che torni a suggestionare i nostri produttori e che anche i consumatori, ormai anemici, ritrovino il gusto del bene durevole, che richiede determinazione a far debiti. In tre parole: serve una rivoluzione”.

L’allocuzione paterna scosse gli animi e accese le guance dei convenuti di un pudico rossore. Come avevano potuto, costoro, lasciar credere per tutto questo tempo che la Fabbrica facesse mancare il suo fondamentale contributo alla modernizzazione del Paese?

Colpa e pentimento allignarono sui loro volti, appena appena consolati dal benigno rassicurare del Papà nazionale.

“Non preoccupatevi”, disse infine sorridente, “mai mancherà a voi e al Paese il mio impegno”.

Poco più tardi le gazzette urlarono in edizione speciale che la Fabbrica riapriva i battenti. Che gran contorcimento sulle cronache. Che incosapevole epopea di déjà vu.

Eppure che gioia, che attese, che speranze.

Alle alte sfere si previde un immediato calo della disoccupazione, come sempre accadeva ogni volta che arrivava la lieta novella. I migliori cervelli si sarebbero messi all’opera per scrutare l’articolarsi delle nuove gerarchie e per riposizionarsi di conseguenza. E persino i più pigri avrebbero rispolverato l’amor proprio e l’agenda e si sarebbero rimessi in gioco.

Il dirigente avrebbe brigato per altra dirigenza o un seggio in lista bloccata, l’assessore per un sottosegretariato, il sindaco per un ministero, l’usciere della provincia per un posto da commesso al Parlamento.

Sarebbero ripartite, finalmente, le relazioni sociali, ormai artritiche, e in questo amorevole interfacciarsi si sarebbe declinata l’intera panoplia di favori, regalie e prebende che così tanto vigore, in epoche passate, aveva conferito alla contabilità nazionale.

Il tutto in un trionfo di speranze finalmente accese che avrebbe finalmente fatto dimenticare i noiosi doveri della quotidianità.

La Fabbrica riapriva, finalmente.

Il Papà Nazionale aveva dato l’Incarico.

L’incarichificio poteva ripartire.

E tutti vissero felici e contenti.

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  1. legione del sole

    Salve Maurizio, le favole depistano e ci hanno portato dove ora siamo…è meglio credere a dei sogni intelligenti, che si basano su realtà culturali solide, dove la verità venga esaminata e discussa, ma non manipolata. Le favole spesso portano nebbia alle menti delle persone…Credere alle favole è bello…ma di tanto in tanto è anche bello crescere!
    Proponiamo bagni di luce – quando c’è- e tanti sogni anche ad occhi aperti.E per un futuro migliore RIFORMIAMO LA SCUOLA!!! Potrà giovarne anche l’economia, se insegnata e fatta capire impostando nuove etiche.
    Buone cose,
    Legsol

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    • Maurizio Sgroi

      salve,
      non concordo col vostro giudizio sulle favole. ho trovato assai più realtà nei sogni, come li chiamate voi, del fratelli Grimm che non negli astrusi calcoli degli economisti. per questo di tanto in tanto mi perito di scriverne una, ben consapevole della modestia del mio sforzo.
      e tuttavia concordo sullì’importanza di riformare la scuola. nel senso che dovrebbe andarci solo chi davvero vuole studiare. l’istruzione come diritto ha finito con l’erodere il dovere di istruirsi e oggi ci troviamo di fronte a marmaglie di studenti che a stento compitano nella loro lingua natia, col cervello occluso dal tremendo rumore di fondo del chiacchiericcio social.
      Per non parlare dello stato dell’istruzione pubblica. la scuola italiana non è stata neanche capace di rendere obbligatoria una seconda lingua sin dall’infanzia, malgrado i nostri governanti si dicano, a gran voce, europei. sicché oggi un giovane italiano, parlatore di lunga morta, è costretto a pagarsi costosi studi privati per recuperare lo svantaggio competitivo con i suoi cugini del continente. ma se è così, se, voglio dire, l’istruzione pubblica è un mezzo fallimento, dobbiamo continuare a insistere nell’errore?
      Grazie per il commento

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  2. legione del sole

    Non siamo contro le favole, ma contro i falsi valori che spesso le accompagnano. La scuola ha bisogno di riforme sostanziali…il che ci porterebbe ad avere insegnamenti di economia che consentano alle giovani generazioni di capirla e di richiedere una finanza adeguata e più etica che possa supportarla (quella islamica già sembra più accettabile). L’idea del massimo profitto e della crescita perenne ci sembrano delle utopie…ma si continua a crederci. 7 miliardi di persone sul pianeta che vivono di crescita perenne è da meditare!!!
    Nostro umile parere.
    Sempre encomiabile il tuo lavoro.
    Buone cose,
    Legsol

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