La Globalizzazione emergente. Ombre turche sulle strade dello Yemen

La disgrazia più grande dello Yemen coincide beffardamente con la sua più grande fortuna: la posizione che la geografia gli assegnato nella storia.

Oggi che il paese è sconvolto dalla guerra, le epidemie e la fame si sottolinea giustamente la disgrazia, ma sarebbe poco saggio ignorarne la fortuna, perché lo spicchio Sud-Occidentale della penisola arabica, che si affaccia sul  e presiede lo stretto di Bab el Mandeb, proprio di fronte a Gibuti, porta d’ingresso di almeno cinque milioni di barili di petrolio al giorno, è uno di quei punti dolenti – perché molto frequentato – della nostra globalizzazione e giocoforza anche di quella emergente che stiamo provando a delineare ormai da qualche tempo sul nostro blog. Ma per la stessa ragione è un ottimo punto su cui far leva per sollevare il mondo. O almeno provarci. E questo spiega perché in così tanti guardino ossessivamente da quella parte.

Sulla situazione attuale in Yemen, c’è poco da aggiungere. Di recente Ispi ha pubblicato un buon riepilogo dello stato del conflitto che serve anche a conoscere l’elenco aggiornato dei contendenti che si fanno la guerra, e per le più svariate ragioni, da un tempo lunghissimo.

Inutile dilungarsi sui dettagli, basta un semplice riepilogo: lo Yemen adesso si trova sostanzialmente diviso in due parti, a Nord e Sud, in una situazione che ricorda quella antecedente alla riunificazione del 1990, covando per lo più diverse guerre contemporaneamente e tre governi con due capitali.

C’è il governo ufficiale del presidente Hadi, che è filo saudita. Ci sta quello dei secessionisti del Sud, con capitale ad Aden, appoggiati dagli Emirati Arabi Uniti, che prima erano alleati dei Sauditi nella coalizione, nonché storici “influencer” dello Yemen, che si oppone ai ribelli Houthi, sostenuti dall’Iran, che occupano ancora parte del nord, e hanno un governo con capitale a Sana’a. Il governo “legittimo” è l’unico che di capitali non ne ha.

Le cronache che ancora si susseguono, numerose e sempre più barocche nel disegnare l’evoluzione del conflitto, vengono scritte come al solito sulla pelle di una popolazione ormai esausta senza che questo scoraggi altre potenze ad allungare le loro mire su questo spicchio di terra.

Oltre alle potenze classiche, quindi Stati Uniti, Russia e Arabia Saudita, cui si sono aggiunti negli ultimi anni gli Emirati Arabi, L’Egitto, il Qatar, adesso, secondo alcune fonti che alcuni giudicano però inquinate, anche la Turchia avrebbe iniziato a volgere lo sguardo su questa porzione di mondo che sarebbe logicamente strategico per la visione neo-ottomana di Erdogan, replicando la rischiosa contraddanza con i russi che abbiamo già visto in Libia e quella con l’Iran che abbiamo visto in Iraq del Nord.

In questo percorso la Turchia replicherebbe i percorsi già efficacemente sperimentati altrove: con lo strumento religioso – e in particolare la sua vicinanza al movimento della Fratellanza musulmana -, quello finanziario – la forza economica del Qatar – che peraltro era parte della coalizione Saudita che diede inizio, nel 2015, alla guerra yemenita – nel 2017 con l’inizio della “guerra fredda” fra i paesi del Golfo culminata con l’embargo contro il paese.

In conclusione sulla pelle degli yemeniti si gioca l’ennesima partita a scacchi fra potenze in una sorta di gioco dove tutti sono contro tutti, ma in particolare contro qualcuno. I Sauditi e gli Emirati contro l’Iran, innanzitutto. Ma anche divisi fra loro, con lo Yemen a spaccarsi in due di conseguenza.

Ma ci sono poi gli Emirati contro i Fratelli Musulmani, e perciò sostenitori dei separatisti meridionali yemeniti, che però hanno ottime aderenze coi Turchi e quindi col Qatar, replicandosi in Yemen quel copione di alleanze e scontri che ha disegnato l’attuale cartina delle influenze in Libia e potrebbe ridisegnare quella dell’Iraq.

La cartina sopra pubblicata da Limes è una buona sintesi della situazione. I grandi assenti da questa contesa, Europa e Cina, contribuiscono anche loro, ognuno a suo modo. In Europa i singoli paesi vendono armi ai paesi coinvolti nel conflitto mentre l’Ue invita alla pace. I cinesi esortano anch’essi alla composizione diplomatica del conflitto, ma sicuramente guardano con grande attenzione all’imbocco del Golfo, dove passa anche molto del “loro” petrolio. Peraltro fra le due aree esiste una collaborazione di vecchia data che Pechino, già ben posizionata a Gibuti, non può che voler riattivare.

Tutte queste esortazioni alla pace, per adesso, sembrano non sortiscano altro effetto che moltiplicare le pedine sulla scacchiera e prolungare così, ancora una volta beffardamente, la guerra. Le strade dello Yemen sono intricate e malfrequentate. E conducono a un punto morto.

 

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