La metamorfosi del settore produttivo italiano

L’ultima relazione annuale dell’Istat contiene anche una ricognizione molto interessante sull’evoluzione del nostro sistema imprenditoriale, alle prese con una doppia recessione, fra il 2009 e il 2011, una ripresa ciclica, iniziata intorno al 2014, e adesso nuovamente scosso dalla crisi sanitaria. Se, come insegnano i proverbi, ciò che non ti uccide ti rinforza, dovremmo dedurne che alla fine di quest’ennesimo terremoto, il sistema delle imprese italiano ne uscirà più forte. Almeno questa è la speranza.

Ciò non toglie che nel frattempo dovremo fare i conti con le rovine. Sapendo, peraltro, che non è affatto detto che questo miglioramento qualitativo, ammesso che arriverà, sia capace di coniugarsi con un livello quantitativo adeguato a esprimere l’occupazione di cui ha bisogno un paese come il nostro. La teoria e la storia ci ricordano che esistono livelli eccellenti di sotto-occupazione delle risorse.

L’esperienza maturata nell’ultimo decennio, in tal senso, solleva qualche preoccupazione. “Durante gli anni della ripresa ciclica (2014-2017) – scrive Istat – il sistema delle imprese non aveva del tutto ricostituito la base produttiva persa durante la prolungata recessione del periodo 2011-2014. Nel 2017 le imprese attive in Italia erano ancora quasi 80mila in meno rispetto a quelle operanti nel 2011 (-1,7 per cento), gli addetti erano oltre 125mila in meno (-0,7 per cento) e il valore aggiunto complessivo era dell’1,9 per cento inferiore a quello di sette anni prima”.

Questo ridimensionamento è avvenuto a fronte di una ricomposizione settoriale profonda che ha colpito le costruzioni e l’industria in senso stretto. Le imprese operanti nelle costruzioni sono diminuite del 13,6% e hanno perso il 20% degli occupati oltre a un quarto dell’intero valore aggiunto. Quanto all’industria in senso stretto, fra il 2011 e il 2017 sono diminuite le imprese del 7%, gli addetti del 5,1% ma il valore aggiunto è aumentato del 3,3%. Quindi meno soggetti economici hanno aumentato il valore della produzione.

Se guardiamo al terziario, i risultati sono stati ancora diversi. Sono cresciuti gli addetti nel settore dei servizi di mercato (+4,7%) pure se sono diminuite le imprese (-1,5%) e anche il valore aggiunto (-2,4%). Per i servizi alle persone sono cresciute si le imprese (+14,2%) sia gli occupati (+17,2%) e anche il valore aggiunto (+5,6%). Una buona notizia a metà: in entrambi i settori è diminuita la produttività e soprattutto sono aumentate le attività nei settori caratterizzati proprio da minore produttività.

Se guardiamo alla dimensione di queste imprese, la transizione ha premiato soprattutto quelle più grandi e penalizzato le più piccole, che sono anche una realtà importante nel nostro tessuto economico.

Il quasi 2% di imprese con meno di dieci addetti perdute equivale a circa 77 mila unità e riguarda il 4,2% degli addetti, circa 330 mila persone, ma ben il 10,6% del valore aggiunto. La crisi, insomma, ha premiato le imprese più grandi che, nel 2017, hanno superato i livelli raggiunti prima del 2011.

Succederà la stessa cosa anche dopo la crisi Covid? Ovviamente il passato non si ripete, ma ci sono buone ragioni per porre questa ipotesi alla base dei nostri ragionamenti. Vuoi perché è ragionevole aspettarsi andamenti simili a quelli più recenti. Vuoi perché le imprese più grandi sono in generale meglio attrezzate per affrontare i torbidi di una crisi.

Altrettanti c’è da aspettarsi che si ripeta quello che è successo dopo la ripresa del 2014: trovare un equilibrio, ma a un livello più basso. Ciò anche in ragione del fatto che “in quanto il sistema resta caratterizzato dalla preponderante presenza di micro imprese”. La crescita delle medio-grandi, insomma, non riesce a compensare il calo delle piccole.

Da qui la conclusione: “Questi mutamenti possono avere conseguenze rilevanti qualora la selezione recida legami stabili tra le imprese. In un sistema produttivo frammentato come quello italiano, infatti, la capacità di generare crescita è correlata anche, in misura sostanziale, alla capacità delle imprese di attivare relazioni produttive con altre unità o istituzioni”. Ma chi pensa che basti far scendere il campo il governo per risolvere il problema rischia di generare grossi equivoci. Oltre che illusioni fallaci.

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