Miti del nostro tempo: la politica industriale

In un tempo come nostro, che sogna soluzioni semplici a problemi complessi, non sorprende per nulla che sia tornata prepotente fra i nostri governanti la seduzione di riesumare le politiche industriali per dare maggior vigore a una crescita che si teme sempre più anemica.

Fa bene perciò il Fmi nel sul ultimo Fiscal monitor a ricordare che le politiche industriali non sono una “magica cura” – ottima scelta di termini – per la crescita debole. Piuttosto, sottolinea il rapporto, servirebbero politiche di vario genere per stimolare l’innovazione, tenendo magari conto di alcune peculiarità delle nostre società: una per tutte gli andamenti demografici.

Sorprende ancora meno che la seduzione delle politiche industriali abbia trovato terreno fertile nelle economie più avanzate che sono meglio dotate, per risorse economiche e capacità organizzative, per promuovere l’idea che una intelligente politica industriale, quella che negli anni ’60-’70 si chiamava pianificazione, sia il modo ideale per risolvere i nostri problemi.

Il passato dovrebbe averci insegnato a cosa conduce l’idea di poter giocare agli apprendisti stregoni del bilancio pubblico. Ma purtroppo mai condizionale fu più obbligato. Basta anche solo guardare in casa nostro, dove l’ultima trovata di politica industriale – chiamiamola così – è stata il mitico Superbonus che oltre ad aver devastato il bilancio dello stato per un tempo indefinito, ha dimostrato con chiarezza che non siamo in grado di programmare alcunché.

Peraltro, in un paese a saldo demografico negativo, che si distingue per il livello assai modesto della sua istruzione, che è la chiave per qualunque aumento di produttività, si è scelto di investire risorse incalcolabili sul mattone, che è naturalmente destinato a deflazionarsi in un contesto di decrescita demografica, anziché puntare sui giovani. Pensate solo a quante borse di studio nelle università di eccellenza di tutto il mondo avremmo potuto pagare ai nostri studenti con le decine di miliardi spese per accontentare pochi padroni di casa che poteva pagarsi i lavori di tasca propria. Scelta, quindi scellerata, sia dal punto di vista contabile che squisitamente politico.

Il Fmi nel suo rapporto suggerisce di limitare gli esperimenti di politica industriale – sempre che i governi abbiano una forte capacità di gestirne le complessità – ai pochi settore capaci di generare benefici di produttività. Come esempio si fa il caso dell’industria dei semiconduttori, o quello dei sussidi, se ben disegnati e trasparenti, per la transizione energetica. Ma “i paesi con spazio fiscale limitato dovrebbero individuare le priorità della propria spesa e aumentare le entrate nel breve termine”. Non so a voi, ma a me fischiano le orecchie.

Un Commento

  1. Eros Barone

    “Peraltro, in un paese a saldo demografico negativo, che si distingue per il livello assai modesto della sua istruzione, che è la chiave per qualunque aumento di produttività, si è scelto di investire risorse incalcolabili sul mattone, che è naturalmente destinato a deflazionarsi in un contesto di decrescita demografica, anziché puntare sui giovani. Pensate solo a quante borse di studio nelle università di eccellenza di tutto il mondo avremmo potuto pagare ai nostri studenti con le decine di miliardi spese per accontentare pochi padroni di casa che poteva pagarsi i lavori di tasca propria. Scelta, quindi scellerata, sia dal punto di vista contabile che squisitamente politico.”

    Assolutamente d’accordo. Non solo è stato un enorme e abnorme regalo alla rendita urbana e ad un coacervo di ceti proprietari grandi e piccoli, ma anche – contrariamente a chi ebbe l’impudenza di definirlo “debito sano” – un esempio macroscopico di debito malsano.

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