Le opportunità nascoste nel digital divide africano

L’unico vantaggio ad essere gli ultimi è che si può arrivare a diventare i primi. Gli ultimi, infatti, hanno un vantaggio che sarebbe errato sottovalutare: possono usare le conoscenze dei primi utilizzandole ex novo senza dover scontare il prezzo della loro conquista. Proprio perché non hanno nulla, possono costruire ex novo avendo già a disposizione le tecnologie più moderne, senza dover fare i conti con i residui del passato.
Da questo punto di vista l’Africa, che non è esagerato definire l’ultima frontiera dello sviluppo economico, ha lo svantaggio di avere una dotazione di capitale molto scarsa e il vantaggio che, di conseguenza, può costruirsene uno stock di qualità contemporanea. Che vuol dire, ad esempio, usare macchinari che consumano meno energia, o fonti di energia rinnovabili che prima semplicemente non c’erano o erano troppo costose per essere realizzate.
Tutto ciò, ovviamente, a patto di avere le risorse finanziarie. Servono quindi investimenti, e soprattutto investimenti esteri, visto che la dotazione di capitale africano è ancora carente. E da quanto si legge nell’ultimo rapporto dell’AFC, Africa finance corporation, questi investimenti non mancano, specie in quelle infrastrutture che per l’Africa sono nientemeno che vitali: la logistica fisica (abbiamo già accennato ai porti) e i collegamenti digitali.
Il grafico che apre questo post elenca sommariamente i cavi sottomarini sviluppati e in corso di sviluppo in Africa dal 2022 al 2026. A ognuno di queste corrispondono cordate di investitori di diverse nazionalità. Dal cavo PEACE, che raccoglie capitali cinesi, francesi, pakistani e di diverse telco africane, ad Equinao, finanziato da Google: tutto il mondo che conta sta circondando l’Africa di cavi dati, che ovviamente favoriscono la fioritura di data center, che vedono in prima linea il Sudafrica. Ma non solo. Ci sono hub regionali emergenti, per i data center, ad esempio in Kenya, Nigeria, Egitto e Marocco. “Il Kenya ha ottenuto grandi successi in questo senso ospitando i suoi Internet exchange point all’interno di data center che ora contano i principali fornitori di contenuti (AWS, Microsoft Azure, Meta, Alphabet)
insieme ad agenzie governative, servizi di pubblica utilità, istituzioni finanziarie e diversi fornitori di servizi Internet (ISP) locali”, sottolinea il rapporto.
Le infrastrutture, insomma, si stanno lentamente edificando. Ma vale per il digitale ciò che abbiamo visto osservando le infrastrutture portuali: lontano dalle coste i collegamenti sono molto più difficili. “Stime disponibili di Hamilton Research – scrive l’AFC – suggeriscono che 2/3 della popolazione africana si trova a più di 10 km dalle infrastrutture di rete in fibra ottica, la percentuale più alta di qualsiasi altro continente”. Grandi distanze dalle infrastrutture implica maggiore difficoltà a raggiungere i destinatari del dato. Vale per il digitale ciò che abbiamo visto per le merci: se mancano le infrastrutture di collegamento interno, o sono carenti, le merci che arrivano da fuori faticano ad arrivare sui mercati. Ciò implica che le coste prosperano e l’interno vivacchia. E questo in un continente che ha un numero elevato di paesi che non hanno sbocchi sul mare.
Questo spiega il digital divide ancora elevato all’interno del continente, che non solo soffre il vincolo infrastrutturale che abbiamo fugacemente osservato, ma anche quello economico generato dal basso livello di reddito delle popolazioni. Detto semplicemente, l’africano medio non ha i soldi né per pagarsi le connessioni, né tantomeno per comprare un qualunque device. E questo determina che l’accesso alla rete della popolazione sia ancora basso.

Gli africani hanno in percentuale il minor numero di telefonini a mondo e ancor meno sono quelli che dispongono di un computer.

E questo spiega perché nel 2024 oltre il 60% degli africani non abbia accesso ad internet. Ci sono ovviamente situazioni migliori – ad esempio in Egitto e Nigeria – ma nel complesso il continente esibisce ancora una situazione di sostanziale arretratezza su questo fronte, che contrasta visibilmente con la sua domanda potenziale di servizi digitali, vista l’enorme quantità di giovani che vivono in Africa.
Di fronte a questo stato di cose, e soprattutto in prospettiva, si capisce bene perché i grand carrier di cavi sottomarini stiano lentamente circondando l’Africa. Si capisce meno la ragione per la quale i paesi avanzati, che pure avrebbero tutto da guadagnarci a “informatizzare” il continente africano, non investano pure per aiutare gli africani ad avere almeno un telefonino di penultima generazione. Sarebbe un compito interessante per l’Europa, che magari potrebbe approfittarne per sviluppare un suo standard, sia hardware che software, invece che rassegnarsi al dominio dei produttori Usa e asiatici. Il problema è che l’Europa è bravissima a vedere i rischi. Mai le opportunità.
