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Andante ma non troppo: il tempo dell’inflazione nell’Eurozona secondo la Bce

Intorno alle 11 del mattino di giovedì 23 maggio il sito della Bce ha pubblicato il dato trimestrale della crescita dei salari negoziati nell’Eurozona (grafico sopra). Alle 11.48 l’Ansa, che è la nostra principale agenzia di informazione, ha lanciato un titolo in evidenza che recita: “Crescita record dei salari nell’Eurozona a +4,7%” spiegando che le previsioni degli economisti sono smentite e che il dato indica un ritorno ai livelli record del terzo trimestre 2023. Con la deduzione che questo andamento potrebbe non giustificare più un allentamento della politica monetaria di Francoforte.

Si accende il fuoco di paglia delle reazioni: le aspettative di un taglio dei tassi vengono contraddette dalle nuove aspettative di giornata – anzi, di mattinata – che generano una certa glaciazione nell’entusiasmo. La Bce pubblica poco dopo un lungo post nel quale spiega, argomenta, analizza. Il succo è questo: la crescita dei salari rallenta, ma rimane vibrante. E poiché i salari sono il punto di osservazione privilegiato per stimare le dinamiche inflazionistiche, si potrebbe dire che il tempo dell’inflazione nell’eurozona è quello di un andante, ma non troppo, per dirla con le parole dei musicisti.

Un andamento del genere richiede direttori d’orchestra esperti, capaci di abbassare gradualmente il ritmo dell’orchestra, che già di suo tende a decelerare ma conserva ancora una certa baldanza. Perciò nutrire le aspettative di un taglio di tassi serve almeno quanto fare il contrario. Di fronte a un dato che fa credere che il taglio non ci sarà, spiegare il dato per far vedere che il dato non è come sembra. Che poi è il lavoro che svolge il post in questione, che vale la pena sintetizzare non solo per il suo pregevole valore analitico, ma perché ci aiuta a entrare nel “cervello” della Bce, che non è ovviamente diverso dal nostro: ha bisogno di avere un’idea del futuro, che fa sempre paura perché ignoto, e per questo elabora previsioni che però vengono costantemente dissezionate per non trasformarle in profezie che si autoavverano.

Il primo passo che dobbiamo compiere per comprendere le decisioni della Bce è osservare i dati raccolti dalla banca.

Il grafico sopra ci consente di capire quanto l’effetto di trascinamento (wage drift) di alcuni incrementi salariali ottenuti dai lavoratori in risposta allo shock inflazionistico non collegati a negoziazione salariale sia ormai in larga parte stato riassorbito. Ormai la componente “negoziazione” è quella principale che guida la crescita delle retribuzioni. Per la cronaca, la crescita complessiva della CPE (compensation per employee), che misura la crescita complessiva delle retribuzioni, è stata del 5,2% nel 2023, al top dalla nascita della moneta unica.

Il dato nudo e crudo potrebbe farci credere che le tensioni salariali siano destinate a permanere, e in effetti la Bce non nasconde che i salari tenderanno ancora a crescere. Anche perché la componente negoziale dei salari è molto rilevante nell’eurozona, dove circa l’80% delle retribuzioni è soggetta a contrattazione collettiva.

Per avere una comprensione più chiara di questa dinamica, la Bce ha sviluppato un sistema di monitoraggio (ECB wage tracker) che le consente di guardare con più attenzione dentro il dato. E le osservazioni più aggiornate dicono che includendo i pagamenti una tantum nel tracker, la curva tende a deviare verso il basso rispetto a quella che misura il semplice incremento negoziale.

Nel 2024, ad esempio, ci sono stati pagamenti una tantum, quindi non ripetibili, nel settore pubblico tedesco che hanno probabilmente avuto un peso nel dato sugli andamenti negoziali. Ma se non ci fossero stati, la componente avrebbe avuto un andamento più disteso. E infatti nell’indicatore salariale calcolato in due diversi momenti di tempo, a dicembre e aprile, si osserva che la rilevazione di aprile che tiene conto del pagamento una tantum tedesco la curva del tracker si abbassa.

Tutto ciò ci dice che aggiustiamo costantemente le previsioni sulla base degli esiti più recenti della realtà. E quanto più precisiamo questi esiti, tanto meglio possiamo aggiustare le previsioni. Senonché non tutti hanno il tempo o la voglia di leggere i post della Bce. La gran parte di noi si limita all’Ansa, o, peggio, alle interpretazioni che ne danno i giornali. E così la previsione diventa un destino. Quando invece è solo una possibilità.

I salari “rigidi” che frenano l’inflazione in Europa

Fra le tante ansie che agitano le previsioni economiche, quella di un’inflazione che venga alimentata dalla mitica spirale prezzi-salari, comincia a manifestarsi sempre più di frequente fra gli osservatori, che molto rapidamente hanno dovuto dismettere il mindset deflazionista, alimentato da un ventennio di recessioni patrimoniali, e sostitituirlo con i vecchi modelli ormai dimenticati di interpretazione della realtà.

Questo revival degli anni ’70, però, deve fare i conti con un contesto istituzionale molto diverso da allora. E un recente approfondimento contenuto nell’ultimo bollettino della Bce ce lo conferma: la possibilità che questa spirale si inneschi è remota, pure una qualche probabilità esiste. Gli anni Settanta sono lontani, ma vivono e lottano ancora con noi. O, per meglio dire, con le nostre convinzioni.

Presupposto essenziale perché le tensioni sui prezzi si trasferiscano sui salari è che la struttura della contrattazione collettiva sia predisposta in tal senso. Non basta quindi che le aspettative si disancorino – quindi che gli agenti economici si convincano che la crescita dei prezzi sarà duratura – perché le tensioni sui prezzi aggancino i salari. Serve che i lavoratori abbiano gli strumenti per trasformare le loro aspettative di inflazione in maggiori aumenti di salario. Quella che negli anni Settanta si chiamava scala mobile, e più avanti, meccanismi di indicizzazione.

Nell’eurozona le regole sono molto diverse fra i paesi. La Bce ha individuato quattro diversi regimi che spaziano dai sistemi automatici di indicizzazione dei salari a quelli che neanche formalizzano il ruolo dell’inflazione nel processo di formazione dei salari. Il grafico sotto ci dà un’idea più chiara dello stato dell’arte.

I vari regimi, inoltre, possono utilizzare una diversa definizione dell’indice di inflazione. Nel senso che si può adottare un approccio prospettico o retrospettivo e includere o escludere i prezzi dei beni energetici. “Gli indicatori retrospettivi – spiega la Bce – implicano un adeguamento ritardato dei salari all’inflazione osservata, mentre gli indicatori prospettici devono affidarsi alle previsioni”.

La Banca ha calcolato che i sistemi di indicizzazione automatica si applicano a circa il 3% dei dipendenti del settore privato, sia sui salari minimi che normali. Una quantità quindi non abbastanza robusta da innescare una spirale prezzi-salari. Per questi lavoratori, la misura del tasso è retrospettiva e include i beni energetici.

Poi ci sono i sistemi di indicizzazione che assegnano un ruolo esplicito all’andamento dei prezzi. Di solito questi meccanismi usano l’inflazione prospettica e escludono i beni energetici, e vengono applicati a circa il 18% degli occupati.

Un altro 18% di dipendenti del settore privato lavora in paesi dove solo i salari minimi vengono automaticamente indicizzati all’inflazione usando un approccio retrospettivo nella definizione del tasso e l’inclusione dei beni energetici. Ma ovviamente non tutti costoro percepiscono salari minimi. Anzi, “solo una percentuale relativamente esigua di dipendenti” ne ha diritto.

Il punto centrale è che “per oltre la metà dei dipendenti del settore privato nell’area euro l’inflazione non svolge un ruolo esplicito nel processo di formazione dei salari, ma può essere un fattore importante nelle trattative salariali”. Per capire l’aria che tira in Europa, è bene ricordare che “a partire dalla crisi finanziaria mondiale i meccanismi di indicizzazione che prevedono un ruolo esplicito per l’inflazione nel processo di formazione dei salari sono diventati lievemente meno diffusi”.

Da qui la conclusione. “Nel complesso, nell’area dell’euro la probabilità che i meccanismi di
formazione dei salari inneschino effetti di secondo impatto basati sull’indicizzazione all’inflazione è relativamente limitata, soprattutto quando si tratta dell’inflazione dei beni energetici”. Potrebbero salire i salari minimi, insomma, ma non tutti gli altri. A meno che, ovviamente, non parta un ondata “imitativa”, visto che “gli incrementi dei salari minimi possono servire da parametro di riferimento per le strutture salariali nell’economia nel suo complesso”.

Come dire: l’indicizzazione automatica, uscita alla porta dell storia, può rientrare dalla finestra della cronaca. “Nel complesso – conclude la Banca -, a meno che lo shock all’inflazione non determini un aumento significativo dell’indicizzazione dei salari, una trasmissione generalizzata e automatica dei recenti aumenti dell’inflazione alla crescita dei salari sembra piuttosto improbabile, dati i meccanismi prevalenti”. Il problema è che i meccanismi sono notoriamente provvisori.