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Cosa ci insegnano le tariffe applicate da Trump nel primo mandato

Visto che sono entrate in vigore le nuove aliquote che raddoppiano i dazi su importazioni Usa di acciaio e alluminio, vale la pena spendere un po’ di tempo per leggere un interessante post pubblicato dalla Fed di S. Louis che analizza a tutto tondo gli effetti della politica tariffaria adottata dalla prima amministrazione Trump sull’economia americana. Lettura consigliata tanto più oggi, visto che l’amministrazione Usa giudica non meno che vitali, per la sopravvivenza dell’economia Usa, l’applicazione dei dazi, che adesso sono al centro di una una controversia giudiziaria che fa tutto tranne che bene all’economia internazionale, contribuendo ad alimentare l’incertezza, che dell’economia è il veleno.
In attesa che il futuro faccia il suo corso, perciò, può servire ricordare il passato, peraltro a noi molto vicino. Parliamo del 2018, quando il commercio internazionale visse un shock, che preparerà quello assai più profondo generato dalla pandemia, a causa della decisione degli Usa di applicare i dazi a un’ampia gamma di beni prodotti in Cina in diversi settori, dall’elettronica ai mobili, con notevoli conseguenze anche sui beni intermedi e i beni strumentali usati dalle famiglie Usa.
Il peso economico di queste manovre ha interessato 376 miliardi, all’incirca la metà del totale delle importazioni Usa. Prima di queste misure i dazi alla dogana su queste merci pesavano il 3-4%. L’effetto dei dazi è stato notevole.

Assorbire lo shock ha richiesto una profondo riassestamento delle catene di fornitura. Sono gli anni in cui nel vocabolario economico appaiono termini come friendshorig, nearshoring, eccetera. E infatti se osserviamo come sia cambiata la geografia degli esportatori verso gli Usa se ne comprende la ragione.

La Cina ha perso un 40% di importazioni dagli Usa, nei beni oggetto di dazi, mentre gli importatori Usa, che ricordiamo pagano i dazi alla dogana, hanno visto crescere notevolmente i costi all’importazione. Sicché è del tutto ovvio chiedersi quanto questa politica abbia pesato sull’inflazione interna, visto che oggi gli Usa si trovano di nuovo di fronte a un’inflazione piuttosto resiliente con dazi in arrivo praticamente su tutto.
La risposta alla domanda se dazi abbiano influenzato i prezzi finali non è così pacifica. Alcuni studi osservano che il costo del dazio è stato trasferito interamente sul prezzo pagato dagli esportatori e in parte su quello pagato dai consumatori. Ma se guardiamo l’evoluzione die prezzi al consumo negli anni interessati (grafico che apre il post) i dubbi sono pochi: i beni daziati sono aumentati di prezzo, con l’eccezione della voce “apparecchiature e supporti video”, che include prodotti come tv e computer.
Chiaramente il passato ci dice poco del futuro. Ma comunque l’esperienza dovrebbe anche insegnarci qualcosa. Ossia che se le cose non sono andate bene, prendendo certe decisioni, ripetere certe scelte rischia di farle andare peggio. Ma a quanto pare molti ci sperano.
I consigli del Maître: I dazi Ue sulle Harley e lo shadow banking europeo
Anche questa settimana siamo stati ospiti in radio degli amici di Spazio Economia. Ecco di cosa abbiamo parlato.
Passione africana per lo yuan. Mentre l’Europa si strazia fra polemiche populiste e dazi, la Cina indisturbata prosegue la sua sapiente opera di penetrazione nel continente africano, ormai divenuto di fatto una succursale cinese, non solo per la produzione e la logistica, ma adesso anche per l’influenza finanziaria. Il 29 maggio scorso nella capitale dello Zimbawe si sono incontrati i banchieri centrali di 14 paesi africani, secondo quanto riportato da un’agenzia cinese, per discutere l’inserimento dello yuan fra le valute di riserva dei loro paesi. Una mossa del tutto logica se si considera che molti paesi, ad esempio l’Angola o il Kenya, hanno contratto debiti con la Cina e per loro può essere molto più conveniente o pratico ripagarli in yuan. Senza considerare che il traffici commerciali fra molti paesi africani e la Cina sono ormai fittissimi. La Cina dal canto suo può solo guadagnarci da questa decisione, visto che il governo di Xi ha fatto capire da tempo di voler aumentare il livello di internazionalizzazione della valuta cinese, ancora molto basso, intorno all’1% del totale delle riserva valutarie a fronte di oltre il 62% del dollaro e di circa il 20% dell’euro, secondo alcune dati riferiti al quarto trimestre 2017, anche a causa dei vincoli sui movimenti di capitale. Ma d’altronde la moneta cinese è ancora giovane apprendista del grande gioco del capitalismo globale e il fatto che di recente abbia iniziato a denominare un future sul petrolio può essere un altro potente strumento per la sua internazionalizzazione. Basta ricordare che l’Angola, ad esempio, è uno dei venditori di petrolio ai cinesi.
Il reddito degli italiani diventa vecchio. La Banca d’Italia nella sua ultima relazione annuale ha pubblicato un approfondimento sull’andamento della diseguaglianza nelle diverse classi d’età del nostro paese all’indomani della crisi dalla quale emerge che gli ultra65enni hanno visto crescere il loro reddito equivalente, anche se di poco, mentre i più giovani lo hanno visto crollare. Ciò ha fatto aumentare drammaticamente il numero di giovani poveri.
Lo shadow banking dell’eurozona. Il settore dello non banche, ossia gli operatori finanziari non bancari che però si comportano come banche, quindi investono soldi e sono soggetti di investimenti, cresce a ritmi forsennati nell’eurozona, secondo quanto riportato nell’ultimo rapporto sulla stabilità finanziaria della Bce.
A dicembre 2017 gli asset totale detenuti da questo settore quotavano 43 trilioni, il 56% dell’intero sistema finanziario, quindi più di quelli detenuti dal sistema bancario. Queste entità, che sono fondi pensione, assicurazioni, fondi di investimento, hanno potuto contare sull’aumento della ricchezza finanziaria dell’area per diventare sempre più capitalizzati e in certi periodi hanno persino compensato il credit crunch bancario acquistando obbligazioni corporate europee. Ma tale crescita ha alcune criticità. Sono aumentate le quote di titoli più rischiosi in pancia ai fondi di investimento e è aumentata l’interconnessione fra questi fondi. Inoltre buona parte investono sulle corporation Usa, concentrando un po’ troppo i rischi. Sarà interessante osservare cosa succederà in caso di guerra commerciale fra Usa e Ue.
Brutte notizie per gli harleysti. La decisione di Trump di daziare acciaio e alluminio europei non sarà certo un buon viatico per l’interscambio fra le due regioni e a pagare il conto saranno i consumatori, dall’una e dall’altra parte dell’Atlantico. L’Ue ha già fatto sapere di aver individuato una lista di 182 prodotti che potrebbe finire nel mirino dei controdazi europei a far data dal prossimo 20 giugno. Si tratta di prodotti industriali che alimentari. E fra questi uno dei più noti sono le moto Usa, a cominciare dalle mitiche Harley che anche in Europa hanno un coorte di grandi ammiratori.
L’import di moto Ue dagli Usa non è certo significativo, parliamo di 300 milioni di dollari nel 2017, e tuttavia molti affezionati della mitica moto Usa rischiano di pagarla di più (e già costava parecchio). E non solo loro. Anche gli amanti del whisky americano, delle t-shirt e persino le carte da gioco. Non sarà facile per noi europei, cresciuti a pane e coca cola, abituarsi a questo nuovo regime commerciale.



