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Le colpe del fisco nella diseguaglianza Usa

Abbiamo già accennato a come le scelte fiscali contribuiscano non poco a determinare, almeno secondo quanto dice il Fmi, i trend crescenti di diseguaglianza che affliggono molti paesi avanzati. Un’analisi recente pubblicata dalla Fed di S.Louis ci consente di stringere il fuoco sul caso statunitense che ha il pregio di manifestare alcune particolarità che contraddicono alcune evidenze empiriche abbastanza assodate. Una delle quali mostra una sorta di correlazione fra il livello del reddito pro capite e il tasso di diseguaglianza all’interno di un paese. Per dirla in altro modo, i paesi più ricchi tendono ad avere tassi di diseguaglianza minori di quelli più poveri per una serie di ragioni, non ultima i sistemi di redistribuzione più efficienti.

Come si può osservare dal grafico, c’è una relazione indiretta fra il pil pro capite e l’indice di Gini, un indicatore statistico che si utilizza per misurare la distribuzione della ricchezza all’interno di una società. Più l’indice è elevato, più la distribuzione è diseguale. La pendenza della curva mostra con chiarezza questa relazione. Per testarne la robustezza, oltre che osservare come sia distribuita nel mondo tale diseguaglianza, i ricercatori hanno isolato i paesi in regioni.

Emerge perciò che America Latina e Africa siano le regioni più affette da diseguglianza mentre curiosamente l’indice più basso si registra nell’Asia centrale nell’est Europa, che non si possono certo considerare paesi avanzati, ma tant’è: il bello delle costruzioni mentali è che sono rassicuranti, al netto delle eccezioni.

Ma non è tanto questo il punto, quanto l’ulteriore disaggregazione che gli economisti della Fed fanno dei dati della regione Usa e Canada, dalla quale emerge che gli Usa hanno un indice di 40,46, un pugno di punti sotto la media africana. Al contrario, in alcuni paesi europei come la Finlandia e la Svezia, dove il reddito pro capite è simile a quello statunitense, la diseguaglianza è molto più bassa, forse perché in questi paesi il sistema garantisce, per via fiscale, un’ampia redistribuzione dei servizi. Ma soprattutto, gli autori ricordano un paper del 2013 che mostrava come il top tax rate declinasse al crescere dal reddito prima delle tasse “supportato dalla convinzione che premiare chi guadagna di più avrebbe condotto a più crescita e stimolato l’imprenditoria”.

Sarà pure vero, ma rimane il fatto che così facendo si è nutrita la diseguaglianza nazionale. A ciò si aggiunga il progresso tecnologico, che ha aumentato la produttività e diminuito il prezzo relativo del capitale, e quindi favorito la sostituzione di lavoro con capitale. L’assottigliamento della labor share, in declino ultradecennale, ha fatto il resto. Ma il Fisco ha fatto la sua parte.

L’ultima (e unica) generazione di possidenti

Uno studio recente nota che “la natura eccezionale della crescita dei redditi familiari tra i più anziani si estende molto indietro nel tempo. A partire dal 1967, il reddito reale mediano tra i nuclei con capofamiglia di 65 anni o più anni è aumentato molto più di quello di qualsiasi altro gruppo di età”. E poi che “non è solo il gruppo di età più anziano che ha beneficiato (dell’aumento di ricchezza, ndr), anche se più il gruppo è maggiore d’età, più cresce a lungo termine il reddito medio reale della famiglia”. Perché questi anziani hanno finito col surclassare le altre classi d’età, finendo col garantirsi la fetta più corposa della ricchezza nazionale? Secondo gli economisti i fattori principali sono tre: partivano da un livello piuttosto basso, sono stati favoriti dalle politiche pubbliche, e poi hanno inciso le dinamiche demografiche. Tutto ciò provocato che gli anziani, che fino agli anni ’50 rappresentavano il 35% della popolazione in povertà, ad arrivare a poco più del 10% nel nostro tempo, la metà degli under 18. Questi anziani di oggi, a differenza dei loro coetanei di sessant’anni fa, grazie a “politiche pubbliche e decenni di forte crescita economica, godono di aumenti senza precedenti nel loro benessere”. Il loro reddito mediano aggiustato per l’inflazione è raddoppiato fra il 1967 e oggi.

Prima che iniziate a guardavi intorno, è bene precisare che lo studio l’ha redatto la Fed di S. Louis e riguarda gli anziani statunitensi.  Molti tuttavia noteranno una sorprendente somiglianza fra questo grafico

e quest’altro, pubblicato qualche tempo fa dalla Banca d’Italia in una delle sue ricognizioni sulla ricchezza delle famiglie italiane.

In entrambi i casi, i redditi delle generazioni più attempate sono quelli che resistono meglio alle turbolenze dell’economia e che, a conti fatti, hanno consolidato la posizione di ricchezza più stabile. Ecco come è andata negli Usa:

e in Italia:

Probabilmente se conducessimo ricognizioni simili in altri paesi avanzati troveremmo lo stesso pattern all’opera: anziani mediamente ben istruiti e in buona salute, con redditi cresciuti notevolmente nel tempo e una quota importante di ricchezza nazionale. Sono i veri vincitori del dopoguerra.

È inutile fargliene una colpa. Hanno avuto la fortuna di nascere nel posto giusto nel momento giusto. Ma soprattutto sarebbe insensato. Questi anziani possidenti rappresentano l’unico esperimento sociale riuscito, al lordo delle medie, di benessere realmente diffuso. Col senno di poi, considerando alcuni esiti discutibili che ha provocato, si può valutarlo più o meno criticamente, questo esperimento. Ma, per come vanno le cose adesso, non è escluso che oltre ad essere l’unico sia anche l’ultimo.