Etichettato: futuro dell’europa

Un ponte con l’Africa per ritrovare l’Europa

La poco felice conclusione della lunga telenovelas del Mes, che l’Italia ha deciso di bocciare perché si è fissata col dito e ha scelto con poco giudizio di ignorare la direzione, ci dice molto della difficoltà nella quale si agita l’idea europea, fragile costruzione esposta ai venti turbinosi dei capricci dei singoli stati nazionali. Discutere di allargamento, quando ancora non sappiamo gestire problemi come quello del Mes significa semplicemente aggiungere elementi di instabilità a un quadro già dissestato. Come dice il proverbio, più sei grosso, più fai rumore quando cadi. E nessuno di noi ha voglia di vedere ingrossare l’Europa solo per finire assordato dal rumore della sua caduta.

Poiché è del tutto inutile aggiungersi al rumore di fondo che già disturba le nostre cronache, ci limitiamo qui a proporre una breve riflessione sul passato dell’Europa, che pure offre preziose suggestioni. Un semplice promemoria che delinei anche una prospettiva. Un modo per provare ad armonizzare la storia dell’Europa con la sua geografia. 

Partiamo dal presente. La costruzione europea, la cui forma più avanzata che include la condivisione della moneta è quella dell’Eurozona, è una curiosa creatura istituzionale che non arriva a esprimere una fisionomia compiuta. Non è una federazione, come gli Stati Uniti, ma neanche una confederazione, come quella Svizzera. Somiglia più a una comunità d’intenti, che nel tempo è riuscita a strutturare una costituzione economica, ma anche questa in modo ancora parziale. 

Per completarla sarebbero necessarie un’unione bancaria e un’unione del mercato dei capitali, per avere non solo una politica monetaria comune ma anche una politica finanziaria comune e, soprattutto, un mercato univoco dei titoli sovrani, come il mercato dei Treasury statunitensi. Di Unione Bancaria e del Mercato dei capitali si parla da anni, ma siamo ancora lontani dal vederli attuati. Il risultato di questo tentennare è che l’Europa si presenta a ogni crisi come un interlocutore polifonico. Alla voce delle istituzioni europee si sovrappongono, spesso in maniera dissonante, quelle dei singoli stati nazionali. L’Europa, per ricordare una celebre espressione, sembra un’espressione geografica declinata maldestramente dagli stati che la compongono. 

Di fronte al mondo, perciò, l’Europa non appare un interlocutore solido con cui fare i conti, ma un universo composito, retto non si sa bene come da figure che hanno un riconoscimento istituzionale, delle quali però non sono chiari i reali margini di manovra. Viene percepita come un corpo intermedio: fra un’associazione e uno stato. Qualcosa di morbido in un mondo di solidi.

Non è la prima volta. Qualcosa di simile, anche se ovviamente con espressioni molto diverse, l’Europa l’ha conosciuta secoli fa: col Sacro Romano Impero del XVI-XVII secolo.

In quel periodo il sistema degli stati, formatosi durante il Medioevo nelle città italiane, si espanse generando il sistema degli stati europei dell’Età moderna. Fu un’epoca contrassegnata da gravi crisi che squassarono le coordinate dell’Europa medievale distruggendo le due universalità che avevano retto la storia fino ad allora: quella religiosa – con l’avvento della riforma protestante – e quella politica, con la messa in crisi dell’idea imperiale da parte delle nascenti nazioni europee. 

Il sistema trovò un equilibrio sulle spoglie della distruzione dell’Europa centrale – ossia degli Stati tedeschi che erano il cuore del Sacro Romano Impero – dopo la Guerra dei trent’anni. Nacque il sistema di Vestfalia, che affermò il principio dell’identità nazionale su base territoriale. Paradossalmente il sistema contemplava anche l’esistenza di numerose entità statali germaniche spezzettate nel Sacro romano impero.  La loro polverizzazione faceva da contrappeso alla pesantezza degli stati nazionali europei in formazione. Il Sacro Romano Impero era un gigantesco non-stato cuscinetto capace di assorbire le tensioni emergenti fra le grandi potenze laterali dell’Europa del tempo, quindi innanzitutto Francia, Inghilterra, la Spagna declinante e, più tardi, la Russia zarista.

Questo principio fu restaurato a Vienna, dopo le guerre napoleoniche, e messo in discussione dalla rivoluzione “antirivoluzionaria” di Bismarck. Il cancelliere, unificando la Germania, la “solidificò”: accese una bomba a frammentazione nel cuore dell’Europa, che l’espansione rese sempre più pericolosa. 

Bismarck conosceva perfettamente i rischi. Per questo perseguì con scrupolo l’idea del concerto europeo delle nazioni per rassicurare i suoi interlocutori europei. Ma era una politica di corto respiro. Una volta divenuta un corpo solido, era solo questione di tempo prima che la Germania finisse in urto con le sue potenze laterali. 

La bomba, perciò, scoppiò. L’esplosione generò la “Seconda guerra dei trent’anni” iniziata nel 1914, quando il sistema degli Stati europei deflagrò, devastando nuovamente la Germania, come era accaduto trecento anni prima e  dando vita al sistema degli stati globali che ci accompagna oggi.

L’Europa di oggi somiglia al Sacro romano impero: una disunità che equilibra le potenze laterali, che ormai sono quelle Atlantiche e quelle Euroasiatiche, nei confronti delle quali l’Europa coltiva un comportamento ambiguo per la semplice ragione che in esse, a Ovest come ad Est, sono fioriti semi che provengono dal suo suolo. Il sedicente comunismo cinese e il cosiddetto capitalismo americano sono frutto di idee nate in Europa. 

In sostanza, l’Europa è divenuta un gigantesco non-stato cuscinetto, che adesso dice di volere anche una sua autonomia strategica. E in questo risiedono infiniti pericoli. Una semplice analogia con la storia dovrebbe suggerire a noi europei molta prudenza e senso della realtà, mentre lavoriamo “bismarckianamente” alla nostra rivoluzione “antirivoluzionaria”. L’Europa di domani, qualora dovesse consolidare la sua forma istituzionale, potrebbe somigliare alla Germania del cancelliere di ferro. E un’Europa “germanizzata”, per dirla con Thomas Mann, deve sempre ricordare la propria storia per non commettere per la terza volta il suo errore fatale. 

La storia dovrebbe ricordarci – e la tragedia ucraina è un ottimo promemoria – che le tensioni fra le potenze laterali tendono a scaricarsi sul centro, che ormai è l’intero territorio europeo. E la geografia suggerirci che è molto difficile sfuggire alla morsa della tenaglia Asiatico-Atlantica. Salvo proporci una soluzione. Che sta proprio sotto gli occhi dell’Europa: l’Africa.

Oggi si discute molto dell’Africa, e l’Ue ha il merito di portare avanti progetti importanti come il Global Gateway, attraverso il quale vuole proporre un suo nuovo ruolo nella politica internazionale. Ma adesso non si tratta più semplicemente di accompagnare lo sviluppo degli stati africani, fornendo denaro o know how. Qui si tratta di “fare” l’Africa, né più né meno. Ossia una nuova entità comune e riconoscibile nel panorama globale.

Bruxelles ha un’esperienza unica in tal senso. Sono decenni che persegue, all’interno dell’Europa con successi altalenanti, questo obiettivo. E’ la sorella maggiore ideale per interloquire con le nascenti istituzioni africane, – una per tutte, l’Unione Africana (UA) – che in qualche modo stanno camminando sulle sue tracce. Anche l’Africa, per fare un esempio, pensa da tempo a una moneta comune.

Questo passaggio richiede un cambio radicale di prospettiva. L’Ue dovrebbe rivolgersi preferenzialmente alle istituzioni africane assai più che ai singoli stati africani, che sono ancora molto coinvolti nel bilateralismo con i loro omologhi internazionali. L’UE può aiutare l’UA a promuovere l’idea e la pratica dell’Africa, che in un continente ancora devastato dai tribalismi somiglia a un’ottima panacea e a un’autentica rivoluzione. In questo trasferimento di esperienza e conoscenza l’Europa realizzerebbe il suo significato più alto, che è quello di essere una comunità di valori che guarda e vive aldilà delle frontiere fisiche, che sono un’ossessione degli stati nazionali. In un mondo che si popola di giganti di pietra, l’Europa a-nazionale deve diventare un gigante ideale capace di aiutare a crescere quel gigante-bambino che è l’Africa. 

Perché tutto ciò non appaia astratto, concludiamo con un esempio. Da anni il governo spagnolo e quello marocchino discutono senza costrutto di un ponte o un tunnel che colleghi i punti più vicini di Spagna e Marocco. Un’idea che avrebbe effetti straordinari sui rapporti fra Europa e Africa. I governi nazionali non ne vengono a capo. Perciò l’UE dovrebbe far proprio il dossier, mettere sul tavolo le risorse e dialogare con l’Unione Africana per trovare un percorso comune di realizzazione. L’Africa ha bisogno di politiche di questo calibro. E anche l’Europa.

Croazia, un altro piccolo indiano bussa alle porte dell’eurozona

Che dovremmo dire alla piccola Croazia, che dal 1 luglio si è unita all’Ue?

Potremmo dirle benvenuta, come si sono affrettati a fare la Commissione Europea e la Banca centrale europea, che peraltro si è premurata di sottolineare che per il momento la Croazia non entro nell’euro. Anzi, sarà sottoposta a uno screening accurato da parte di commissione e banca centrale, e, una volta che verrà giudicata degna, entrerà automaticamente. La Croazia, a differenza di Danimarca o Gran Bretagna, infatti, non ha il diritto di sfilarsi dalla moneta unica se cambia idea.

Ma se ci limitassimo a dire benvenuta, si tratterebbe solo di buona educazione.

Allora potremmo fare due conti, come ha fatto Eurostat, per valutare il contributo “quantitativo” offerto dalla Croazia all’Ue a 27 che da oggi si chiamerà Ue a 28.

Scopriremmo che la Croazia ha 4,4 milioni di abitanti, grazie ai quali l’UE arriverà alla cifra complessiva di 506,8 milioni. Che l’età media dei croati è leggermente più bassa del resto dell’Ue, che il tasso di fertilità è leggermente più basso(1,4 rispetto a 1,57), così come il tasso di divorzi (1,3 su 1.000 rispetto a 1,9) e il numero di figli fuori dal matrimonio (14% rispetto a 39,5 nell’Ue 27).

Se poi volessimo andare più sull’economico, scopriremmo che il Pil della Croazia, nel 2012, è stato di 44 miliardi, in calo del 2% rispetto al 2011, mentre la disoccupazione (aprile 2013) ha superato il 18%, a fronte del 11% dellUE a 27, (quella giovanile è al 51,8%) con la conseguenza che il primo effetto dell’ingresso della Croazia sarà un incremento della disoccupazione nell’area.

Scorrendo il rapporto Eurostat scopriamo anche che pure il saldo commerciale croato va maluccio, visto che nel 2012 ha chiuso in deficit di 2,2 miliardi, il 5% del Pil, mentre quello fiscale, che sono andato andato a vedermi sull’ultimo staff report del Fmi, viaggia intorno alla soglia del deficit del 3%, decimale più decimale meno, a fronte di un debito/Pil del 54%. E tuttavia, scrive il Fmi, “le vulnerabilità esterne rimangono elevate”. Da cui la solita richiesta di riforme per correggere “la strutturale debolezza” della Croazia.

Insomma, abbiamo un altro piccolo indiano che si candida un domani a fare il Gipsi (Ex Pigs) dell’eurozona, e che per giunta si porta appresso gli altri piccoli indiani dei Balcani, come si è affrettato a dichiarare il presidente Ivo Josipovic a doppia voce con il collega sloveno Borut Pahor. Per chi non lo ricordasse, la Slovenia, che adesso è alle prese con una crisi devastante, stava benissimo prima di entrare nell’euro, a differenza della Croazia. Che infatti, per ora, non entra.

L’ingresso della Croazia, dopo la Slovenia, tuttavia avrà un chiaro effetto centripeto sull’adesione degli altri stati balcanici, quindi Serbia, Bosnia-Erzegovina, Montenegro, Macedonia, Kosovo e Albania, sempre che la Serbia si decida a riconoscere il Kosovo. Quindi potremmo dire ai croati che, anche grazie a loro i Balcani, che da una vita sono il problema dell’Europa, entreranno in un club vasto e coeso che finalmente farà sparire qualche secolo di guerre e divisioni etnico-religiose.

Ma è difficile che ci credano.

Allora potremmo ripetere ai croati quello che ha detto lo stesso giorno in cui entravano nell’Ue Olli Rehn, vice presidente della ormai anche loro commissione europea, in un bellissimo intervento intitolato “Moving Europe out of crisis”.

“La crescita economica – ha spiegato – non ripartirà prima che il debito, sia pubblico che privato, sia stato ridotto in tutte le economie”. Perciò, cari croati, ricordatevi che avete una percentuale di sofferenze bancarie del 13,2% e un debito estero, per lo più privato, pari al 100% del Pil.

Da tenere a mente anche la lezioncina di storia. “Nella prima decade dell’euro – ha aggiunto – le facili condizioni del credito hanno provocato crescenti squilibri in alcuni stati membri, facendo aumentare i rischi e creando bolle negli asset”. Quindi, cari croati, tenete sempre presente che l’Ue, e in particolare l’eurozona, sarà pure un bel club, ma pericoloso. Avete visto che fine ha fatto la Grecia? E il Portogallo? E la Spagna? E Cipro? Se volete evitare problemi, non fatevi prestare soldi da nessuno, questo dovremmo dirvi.

Ma ve lo potete permettere?

Anche perché non è mica finita qua. “Gli aggiustamenti richiederanno un caro prezzo sia in termini economici che sociali”. Anche voi croati, insomma, dovete prepararvi ad assaggiare la medicina tedesca che conosciamo bene. L’export ristagna, scrive infatti il Fmi, perché i salari sono troppo alti e la competitività è troppo bassa.

Vi lusigherà sapere, tuttavia, che l’Ue favorisce ben volentieri un sempre maggiore allargamento dell’Ue, perché, per dirla con le parole di Rehn, “paesi con una forza lavoro ben istruita, ma con costi del lavoro significativamente inferiori entrano a far parte del mercato unico”.

Perciò potremmo dire ai nostri amici croati che fanno parte di un grande disegno, con il notevole vantaggio, rispetto ai paesi del Sud Europa, sempre secondo Rehn, di far parte di quei paesi centro-orientali che “sono stati integrati nella catena del valore del motore economico europeo, la Germania, più delle economie dell’Europa meridionale”.

Partite pure avvantaggiati.

Questo grande disegno si pone un obiettivo straordinario, per non dire storico: La costruzione dell’EMU 2.0.

Un posto bellissimo “che aiuterà a generare crescita e a creare posti di lavoro per i cittadini”.

Questo meravigliosa costruzione, che si propone di “riformare il modello economico e sociale dell’Europa”, non punterà certo, spiega Rehn a  “a ristabilire quello status quo che ha condannato l’Europa al declino permanente, ma a riformare genuinamente l’economia sociale di mercato”.

Potremmo concludere, a questo punto, dicendo ai nostri amici croati che a noi italiani ci avevano detto che grazie all’ingresso nell’euro avremmo lavorato di meno e guadagnato di più. E noi, ben contenti, abbiamo pure pagato l’eurotassa.

Poi è successo il contrario. Nel senso che da quando c’è l’euro chi ha ancora un lavoro guadagna meno di prima.

Non è una minaccia, cari amici croati.

E’ un avvertimento.