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Politica monetaria e diseguaglianza: il caso della Finlandia
Questione teorica assai controversa, la domanda se le politiche monetarie abbiano effetti significativi sulla diseguaglianza, materia radioattiva di questi tempi, è stata brillantemente discussa in un paper di Bofit che si riferisce al caso finlandese. Gli amanti delle verità generali saranno delusi, ma se una questione è teoricamente controversa, non resta che affidarsi all’empirismo per tentare una risposta, pure se con tutti i limiti del caso. Che nello studio è una piccola economia aperta dotata di un notevole welfare e una lunga tradizione all’interno dell’eurozona.
Detto ciò, meglio anticipare subito la conclusione e poi guardare i dettagli. Gli economisti finlandesi giudicano trascurabile l’effetto delle politiche monetarie sulla diseguaglianza. E questo non perché l’espansione monetaria non provochi effetti: al contrario. Le politiche ella Bce, infatti, producono effetti su diversi canali, sia sul lato degli asset, che dell’economia reale, a cominciare dall’occupazione. E proprio questi effetti, combinandosi, garantiscono che alla lunga tutti stiano meglio, i ricchi come i poveri. Almeno in Finlandia.
Il paese peraltro parte da un situazione di diseguaglianza alquanto contenuta. Stabile, o in leggera crescita se si guarda agli ultimi anni. Questo sia sul versante del reddito, che della ricchezza, come si può osservare dai due grafici sotto.


Secondo i calcoli degli economisti di Bofit la risposta dell’indice di Gini, che misura la diseguaglianza, alle manovra di espansione monetaria è stata contenuta. Un ribasso dei tassi di 25 punti base ha condotto a un aumento dell’indice di Gini sul reddito lordo dello 0,05%, portandolo dal 39,06 al 39,14%, mentre lo stesso indice, calcolato stavolta sulla ricchezza, ha avuto una crescita di 0,20 punti percentuali, passando dal 66,2% al 66,4%, in un orizzonte di due anni. Da qui la conclusione che l’effetto economico sulla diseguaglianza dell’espansione monetaria sia trascurabile, nonostante abbia la Bce abbia provocato notevole stimolo all’attività economica complessiva.
Questa conclusione si rafforza se si guarda all’evoluzione storica,ossia prima dell’attuazione della politica monetaria espansiva. La tendenza all’aumento di diseguaglianza, osservabile dai grafici sopra, è molto più pronunciata nei decenni anteriori all’espansione monetaria, mentre nel decennio abbondante seguito al 2008 è più contenuta.
Gli studi più diffusi accreditano un ruolo rilevante nella distribuzione degli effetti espansivi sul versante di reddito e ricchezza alla crescita dell’occupazione, “che ha aumentato il reddito lordo del quintile più basso dei percettori”. dove peraltro si concentra il tasso più elevato di disoccupazione, come si può vedere dal grafico sotto.

A ciò si aggiungano altri vantaggi distributivi derivanti dall’aumento del prezzo delle abitazioni che comunque hanno un peso rilevante nella composizione della ricchezza in tutti i quintili, ma in particolare in quelli più bassi.

Sul versante della composizione del reddito, i quintili più bassi godono del sostegno fiscale più elevato.

Vale la pena sottolineare, tuttavia, che le ricchezza netta, quindi senza i debiti, è molto diversa fra i vari quintili. Per quello più basso è zero, per il secondo quintile è 27.000 euro per famiglia, per il terzo 100.000, per il quarto circa 230.000 e per il quintile più ricco 700 mila.
Sulla base di questi dati gli economisti hanno sviluppato un modello secondo il quale malgrado le politiche monetarie espansive abbiano un notevole effetto sull’attività economica aggregata, gli effetti distributivi su ricchezza e reddito sono marginali. Combinandosi, i diversi effetti effetti economici neutralizzano lo scarto distributivo.
I più poveri godono soprattutto del fatto che entrano nel mercato del lavoro, anche se gli aumenti di salari beneficiano soprattutto le famiglie a più alto reddito. Ciò per dire che la crescita della ricchezza, almeno quella indotta dalle politiche monetarie, riguarda tutti. Anche i più ricchi, quindi. Anzi, soprattutto loro. Il proverbio che piove sempre sul bagnato, perciò, è confermato dalla ricerca economica empirica. Ma quando piove si bagnano tutti. Anche i poveri.
La metamorfosi del lavoro che fa aumentare la disuguaglianza
Nel gran dibattere sulla disuguaglianza cui di recente ha contribuito l’Ocse con il suo ultimo rapporto “In It Together: Why Less Inequality Benefits All” si tende a trascurare un elemento. Ossia che non è, o almeno non più, solo una questione fra ricchi e poveri.
L’aumentata disuguaglianza, infatti, non è solo questione di reddito, pure se il reddito e la ricchezza sono gli elementi distintivi di questo tipo di conteggi. Ormai a fare la differenza, e di conseguenza il reddito, sono l’età e le condizioni di lavoro.
Le autentiche novità che il rapporto fotografa con chiarezza sono essenzialmente due: dagli anni ’80 a oggi è cambiato il modo di lavorare, con la conseguenza che i lavori atipici hanno rappresentato oltre la metà dei nuovi posti di lavoro creati dalla seconda metà dei ’90, e che ciò che una volta era la categoria svantaggiata, ossia gli anziani, oggi hanno ceduto il posto ai giovani: sono loro quelli che oggi subiscono gli effetti deleteri dell’aumentata disuguaglianza.
E ciò solleva un inquietante interrogativo sul loro futuro. Che anziani saranno domani i giovani di oggi?
Che la metamorfosi del lavoro abbia contribuito a questa evoluzione l’Ocse non sembra dubitarne.
Ciò che stupisce, ma forse non dovrebbe, è la magnitudo delle conseguenze che l’oscillazione del pendolo dal lavoro al capitale, per usare una vecchia terminologia, ha determinato sul tessuto sociale.
I dati aggregati testimoniano di questa evoluzione meglio di ogni ragionamento. In molti paesi il gap fra ricchi e poveri è al suo livello più alto degli ultimi 30 anni. Nei paesi Ocse il 10% più ricco della popolazione guadagna in media 9,6 quello che guadagna il 10% più povero, quando nel 1980 non arriva a guadagnare sette volte.
Da lì in poi c’è stato un costante peggioramento. Il rapporto sale a 8 volte nel 1990, a nove nel 2000 per arrivare al 9,6 dei nostri giorni. E come correttamente nota Ocse, più che concentrarci su quanto siano diventati più ricchi i ricchi, è interessante notare quanto siano diventati più poveri i poveri, non soltanto quel 10% più povero, ma il 40%, dentro il quale ci stanno moltissimi che prima non c’erano. E che adesso vedono ampliarsi il solco fra loro e il resto della popolazione.
Il rapporto esordisce notando come ormai i lavori temporanei, parti time o self-employed pesino circa un terzo del totale dei posti di lavoro nei paesi dell’area, sottolineando come “più della metà di tutti i posti di lavoro creati dalla metà degli anni ’90” sono di questo tipo (cd non standard). Con l’aggravante che i giovani, che in gran parte vengono impiegati con tali modalità, sono quelli che hanno “una probabilità più bassa di spostarsi lungo un percorso di carriera più stabile”.
I più penalizzati da quest’andazzo sono i lavoratori poco qualificati (low skilled) che registrano maggiori tassi di povertà (+22%), e questo è stato uno dei driver dell’aumento dell’ineguaglianza. Forse il principale. E poi l’aumentata partecipazione delle donne al lavoro, che porta con sé anche la spiacevole caratteristica di retribuzioni parecchio più basse di quelle maschili.
Il combinato disposto ha fatto salire di un punto l’indice di Gini medio dell’area, che è un indicatore che misura la diseguaglianza in un range da 0, massima uguaglianza, a 1, massima diseguaglianza.
Se questo è il quadro, è interessante vedere cosa sia successo nel nostro Paese, che certo non sfugge alla tendenza generale e anzi, per certi versi, la esaspera.
Dal 1980 al 2013 infatti l’indice di Gini nel nostro Paese è cresciuto parecchio. Da circa 0,30 siamo arrivati a 0,313 nel 2007 e nel 2013 viaggiavamo intorno a 0,327, che vuol dire un peggioramento del 9%. Nel 2013 il 10% più ricco deteneva una quota del 24,7 del reddito nazionale a fronte del 2,2% del 10% più povero, quindi dieci volte tanto, ma è sui valori mediani che spicca la differenza. il 40% più povero, infatti, ha una quota del 19,7% del reddito nazionale a fronte del 62,8% del 40% più ricco, mentre il 20% più ricco arriva al 39,7%.
Se guardiamo ai tassi di povertà, osserviamo che quello dei giovani (18-25 anni) è del 14,7%, quello dei “maturi” (26-65 anni) del 12,1, mentre quello degli over 65 del 9,3%. Un dato che non dovrebbe sorprendere, solo che si ricordi l‘andamento del reddito equivalente in Italia nell’ultimo ventennio.
Il succo è che ci sono più poveri fra i giovani che fra gli anziani, e anche questa è una curiosa evoluzione del tessuto sociale, come la stessa Ocse rileva.
Se poi guardiamo alla quantità di lavori atipici creati in Italia, notiamo la straordinaria crescita fra il 1995 e il 2007, rispetto a quelli normali cui ha fatto seguito, nel periodo 2007-2013 una robusta perdita di lavoro normali e un minimo guadagno di quelli atipici.
Tutto ciò è più che sufficiente a spiegare perché sia aumentata la diseguaglianza.
Meno a capire chi subirà i danni che ciò può provocare e sui quali l’Ocse disserta a lungo.
Ma non servono tante parole per capirlo. Ne bastano due.
Il futuro.
