Etichettato: mobile money

Il futuro dell’Africa 2.0, fra equilibrio ed egemonia

La nuova campagna d’Africa si svolge silenziosa sotto le acque degli oceani che circondano il gigantesco continente. La raccontano migliaia di chilometri di cavi sottomarini che progettano di collegare la grande massa terrestre africana con il resto del mondo assai più di quanto non sia adesso. Collegamenti nascosti, perciò, ma non certo immateriali. La ragnatela dei cavi sottomarini, che potremmo chiamare “Undernet”, è l’ultima frontiera della geoeconomia che inevitabilmente diventa politica, poiché tutta la nostra vita viene declinata ogni istante lungo le dorsali della rete digitale, della quale i cavi sottomarini sono il veicolo più frequentato: sotto il mare viaggia la stragrande maggioranza dei dati che arrivano sui nostri terminali. Volendo fare un paragone, potremmo dire che le rotte marittime per il commercio di beni pesano tanto quanto le rotte dei cavi sottomarini nello scambio di dati.

Le rotte dei cavi sottomarini (in verde, i progetti in corso di realizzazione)

Ciò è sufficiente a comprendere perché questa partita della Undernet sia strategica per il futuro del continente, di nuovo al bivio fra il desiderio evidente di prendere in mano il proprio destino e le seduzioni egemoniche, travestite spesso da generosità, che promanano da Oriente come Occidente, con l’Europa a interpretare il ruolo di crocevia, che la storia e la geografia le assegnano per natura.

Tutto ciò si può indovinare analizzando anche sommariamente i partecipanti a questo nuovo Grande Gioco globale nel quale l’episodio africano si inserisce con tutto il peso specifico di continente quasi cuscinetto fra l’Eurasia e le Americhe. A tale centralità, nei tempi del dominio digitale, non può che corrispondere una connettività adeguata.

Quest’articolo è stato pubblicato su Aspenia on line. L’articolo completo si può leggere qui.

La scomparsa del contante nel sistema monetario che sarà

La rigogliosa fioritura di valute digitali dell’ultimo decennio ha innescato una profonda trasformazione nella teoria e nella pratica monetaria, che possiamo analizzare scorrendo un paper recente diffuso dal Nber (“The digitalization of money”).  Lo studio ricorda un libro di Friedrich Von Hayek degli anni ’70 (“Denationalisation of money”) e traccia un parallelo molto interessante fra le intuizioni dell’economista e l’evoluzione determinata da internet che ha consentito a soggetti privati di emettere moneta. Si pensi alla saga di Bitcoin.

Diventa perciò attuale l’ipotesi di Von Hayek, secondo la quale una moneta emessa in concorrenza dai privati può essere una valida alternativa alla moneta pubblica fondata su una banca centrale che emette una moneta, avendo alle spalle un governo forte del suo potere impositivo, rendendola credibile abbastanza da essere riserva di valore, unità di conto e mezzo di scambio.

Il paper del Nber arriva ad alcune conclusioni. La prima: “Le valute digitali presentano innovazioni che separeranno le tre funzioni dal denaro, rendendo la concorrenza tra valute molto più accesa”. La seconda: “L’importanza della connessione digitale porterà alla creazione di “Aree valutarie digitali” (DCA) che collegano la valuta alla gestione di una determinata rete digitale piuttosto che a un paese specifico”. Potrebbero nascere monete “denazionalizzate”, proprio come aveva immaginato Von Hayek, anche se su basi completamente diverse.

Le valute digitali possono essere criptovalute indipendenti, come Bitcoin; stablecoin, ossia agganciate ad altre valute, come la Libra di Facebook o USD Coin, o versioni digitali di monete già esistenti, come quella a cui sta lavorando la banca centrale cinese. Possono essere emesse da entità private o da una banca centrale. Uno scenario dove prevalgano le prime implica una perdita di importanza del sistema bancario. In un modello de-centralizzato e disintermediato le banche vengono semplicemente scavalcate. In uno scenario dove prevalgano le seconde, il sistema rimarrà basato sulla fiat currency governativa, ma in versione 2.0. “E’ difficile concordare con gli apocalittici che pronosticano la fine delle banche”, scrivono Riccardo De Bonis e Maria Iride Vangelisti in un libro mandato di recente in libreria dal Mulino (“Moneta, dai buoi di Omero ai Bitcoin”), “Le fintech aumenteranno la concorrenza tra gli intermediari, porteranno a nuove innovazioni dell’offerta bancaria e a riduzioni possibili del numero delle banche, ma non alla loro scomparsa”. Si immagina quindi una sorta complementarietà fra i due scenari che abbiamo tratteggiato che però hanno una cosa in comune: possono fare a meno del contante. Quindi tutto sembra portare in questa direzione. E molti ne sarebbero felici. Vale la pena ricordare un libro di Kenneth S. Rogoff, (“La fine dei soldi. Una proposta per limitare i danni del denaro contante”). La tecnologia, dicono, trasformerà il dannoso denaro analogico in un utilissimo denaro digitale. Lo sterco del demonio diventerà cioccolata.

E qui arriviamo alle cronache. Del lancio di Libra si ricordano le successive intemerate di Donald Trump contro il progetto e del governatore della Fed Jerome Powell, per una volta d’accordo su qualcosa. La levata di scudi delle principali banche centrali è stata pressoché unanime. Fra gli altri vale la pena ricordare un intervento di Benoit Couré, componente del board della Bce, dove si osservava come “le iniziative di stablecoin globali, come la Libra, si riveleranno dirompenti in un modo o nell’altro”. Il banchiere, convinto “che solo il denaro pubblico possa garantire una riserva sicura di valore, un’unità credibile di conto e un mezzo di pagamento stabile”, auspicava la creazione di “un ambiente in cui i sistemi di pagamento pubblici e basati sul mercato si completano a vicenda”. Una visione che le cronache rendono già attuale e non solo nelle economie avanzate. Al contrario. Nell’iconografia corrente il contadino del paese emergente ormai si raffigura con uno smartphone in mano, non con la carta di credito. E non è un caso. In Cina, al progetto di moneta digitale sponsorizzata dalla banca centrale potrebbero partecipare anche i giganti locali di internet che muovono numeri più che rispettabili. Quest’anno Alipay ha raggiunto gli 870 milioni di user e il volume trimestrale degli scambi mediati dalla piattaforma quota sette trilioni di dollari. Queste entità, formalmente private, sono la perfetta rappresentazione di quel peculiare connubio fra pubblico e privato che caratterizza l’economia cinese. Il dispotismo asiatico, per usare una vecchia definizione, troverà sicuramente di che esercitarsi con le valute digitali.

Se dalla Cina ci spostiamo in India lo scenario cambia poco. Nel luglio scorso un comitato interministeriale aveva suggerito di mettere fuorilegge tutte le monete virtuali, salvo poi suggerire lo sviluppo di una moneta digitale emessa dalla banca centrale, che sembra l’ideale completamento della riforma monetaria indiana culminata nella demonetizzazione delle banconote di grosso taglio decisa a fine 2016. Ma al momento le monete virtuali possono ancora circolare e secondo alcune indiscrezioni rilanciate dal giornale on line The Verge, Il Ceo di Facebook Mark Zuckenberg avrebbe parlato di test sulla circolazione di Libra proprio in India, oltre che in Messico. Ossia lo stesso paese dove, alla fine del settembre scorso, il governatore della banca centrale ha presentato una nuova piattaforma per i pagamenti digitali che ha il fine dichiarato di ridurre l’uso del contante tramite lo sviluppo di pagamenti via app telefoniche collegate al circuito bancario.

Se dall’Asia e l’America latina ci spostiamo in Africa, troviamo quello che alcuni osservatori chiamano il paradiso delle criptovalute. Botswana, Ghana, Kenya, Nigeria, Sud Africa e Zimbawe sono massicci utilizzatori di Bitcoin. Alcuni lo usano per difendersi dall’inflazione, ma riescono a farlo soprattutto perché c’è stato uno sviluppo notevole delle infrastrutture informatiche che alimenta la diffusione degli smartphone. Si stima che entro il 2020 si saranno oltre 720 milioni di sottoscrittori di contratti telefoni. L’industria della Mobile money, ossia dei pagamenti svolte tramite app, è in crescita costante con transazioni cresciute dieci volte dal 2011 in poi. Fra i servizi più noti alle cronache c’è M-Pesa, servizio di pagamenti mobili sviluppato sulla rete mobile Safaricom che secondo la banca centrale del Kenya ha fatto circolare oltre 38 miliardi di dollari fra i suoi 40 milioni di aderenti. L’Africa d’altronde è la terra dove l’anno scorso metà degli investimenti delle startup sono andati al fintech.

Ma il futuro delle monete digitali e quindi del sistema monetario non verrà certo deciso in Africa. Nei paesi avanzati le cronache si rincorrono freneticamente sotto gli occhi ansiosi di regolatori, economisti e banchieri. Ognuno di loro guarda cose diverse, ma fondamentalmente arriva alla stessa conclusione: nel sistema monetario che verrà, col vecchio monopolio pubblico insidiato dai privati, non c’è più bisogno delle vecchie banconote. Nel meraviglioso (e oppressivo) mondo digitale che stiamo costruendo un simile strumento analogico è un “barbarous relic”, come ebbe a dire Keynes dell’oro. Roba fuoricorso. Su questo governi, banche centrali e giganti hi tech troveranno di che intendersi.

Questo articolo è stato pubblicato sull’inserto economico del Foglio il 16 ottobre scorso. E’ un buon epilogo per la miniserie sulle monete digitali che abbiamo sviluppato nei giorni scorsi.