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La Ue “illuminista” di fronte a un bivio esistenziale

Un bell’intervento di Olli Rehn, governatore della banca centrale finlandese, è un ottimo promemoria per ricordare nei suoi tratti essenziali il bivio esistenziale di fronte al quale si trova l’Unione Europea. Potremmo dirla così: l’Ue dovrà decidere se farsi guidare dal principio di ragione, che sin dai tempi della creazione dello spazio pubblico, all’inizio dell’età moderna, ha informato lo sviluppo delle società europee, attraverso le varie rivoluzioni borghesi che ho raccontato nella Storia della ricchezza, oppure arrendersi al declino cognitivo che ha già fatto vittime illustri. E ogni riferimento al tormento che sta vivendo il popolo americano è voluto.

Il dilemma europeo intitola l’intervento di Rehn (“In science we trust? European enlightenment in the harsh world of geopolitics”) che molto opportunamente ci ricorda quale sia la posta in gioco nel nostro momento attuale. Crediamo nella scienza?

Domanda per niente banale. Credere nella scienza è molto più che affidarsi alla soluzioni e alle diavolerie che per suo tramite la tecnologia introduce nella nostra esistenza. Significa, e fa bene il nostro banchiere a ricordarlo, risalire alle radici del discorso scientifico che affondano nell’Illuminismo e ancor prima, ossia all’epoca di Bacone e Galileo, Cartesio e Newton, quando il vecchio mondo aristotelico, cui corrispondeva una struttura sociale basata sul dominio dell’aristocrazia di sangue e del clero, fu messo in discussione dai ceti emergenti al prezzo di grandi catastrofi – e qui basta solo ricordare la guerra del Trent’anni nella prima metà del Seicento – dalle quali emerse l’ordine statuale e quindi l’opinione pubblica. Un’opinione pubblica, come scriveva Habermas nei primi anni Sessanta del secolo scorso, che sull’argomento razionale aveva costruito il senso del suo essere al mondo.

L’Unione Europea è il frutto tardivo e incompiuto di questo atteggiamento, “un’opera straordinaria di pensiero razionale, cooperazione e progresso. Le sue fondamenta sono profondamente intrecciate con l’eredità dell’Illuminismo, un periodo che ha promosso la ragione, la scienza e la ricerca della conoscenza”, dice Rehn, ricordando altresì che “le sue radici affondano più indietro nel tempo. Quando osserviamo la storia medievale europea, dalla tarda antichità all’alba dell’era moderna, assistiamo a un’epoca di profonda trasformazione. Questo periodo pose le basi dell’Europa moderna. Stati e nazioni iniziarono a prendere forma. Emerse una cultura europea condivisa, costruita sull’eredità della civiltà classica e della fede cristiana. In seguito arrivò l’umanesimo, che plasmò il Rinascimento e contribuì ad aprire la strada all’Illuminismo”.

E’ piacevole scoprire che ormai siano i banchieri i custodi della nostra memoria, e piacerebbe ascoltare anche qualche politico, che in teoria dovrebbe avere il ruolo di tracciare le rotte del nostro futuro, sottolineare, come fa Rehn, che “la tradizione illuminista è ancora valida oggi. La fede in un processo decisionale razionale rimane al centro della governance europea. La scienza e la ricerca svolgono un ruolo cruciale nel plasmare le politiche e le decisioni che guidano la nostra Unione in questo momento storico e nel futuro. Come affermò saggiamente Benjamin Franklin, “Investire nella conoscenza paga i migliori interessi”. 

Purtroppo i politici parlano d’altro. E quelli europei non fanno eccezione, mostrando una preoccupante cortezza di vedute, che la recente vicenda dei dazi imposti dal presidente americano non fanno altro che confermare. Dopo giorni di conciliaboli, tutto quello che sono riusciti a proporre è stato un mini aumento di dazi “ritorsivi” con ampi margini di trattativa. Poco più di un guaito da animale ferito. Che fine ha fatto il pensiero razionale? Il coraggio dell’Illuminismo?

Anche solo guardano il grafico che apre questo post si capisce bene la quantità di cose che può fare un’Ue che si decida a ragionare, “prevalendo sull’impulso e sulla mera ideologia”, come dice Rehn. Un’Ue che creda davvero che “l’impegno per la conoscenza e l’apprendimento” mantengono “le nostre istituzioni efficaci, le nostre politiche solide e le nostre democrazie vive e vegete” e che “il ruolo della ricerca scientifica e delle competenze deve rimanere centrale nelle nostre strategie e politiche” non può affrontare un tema come quello dei dazi americani con una lista di dazi di ritorsione.

Tanto più ben sapendo, come ci ricorda Rehn, che “queste nozioni (ricerca scientifica e competenze, ndr) non sono di moda in molti ambienti in quest’epoca di populismo e autocrazia. Ma a mio avviso, dobbiamo attenerci a questi principi, affinché l’Europa sia l’Europa. Anche se gran parte del mondo oltre i nostri confini dovesse volgersi all’autocrazia, dovremmo attenerci al nostro modello europeo di democrazia e Stato di diritto, finché gli europei lo desidereranno, in modo democratico. E confido che lo desiderino davvero”.

L’auspicio di Rehn richiede davvero un atto di fiducia, simile a quello che guidò l’allargamento europeo che, secondo il nostro banchiere, “può essere visto come un’estensione del progetto illuminista. L’allargamento all’Europa sud-occidentale negli anni ’80 fu molto più di una semplice impresa economica: fu un modo per radicare la democrazia nella regione. La stabilizzazione della democrazia in Spagna e Portogallo fu saldamente sostenuta da questo processo, a dimostrazione di come l’integrazione europea promuova i valori democratici”. “Allo stesso modo – aggiunge -, l’allargamento a est ha fornito un quadro attraverso il quale i popoli dell’Europa centrale e orientale sono passati dal socialismo di stato alla democrazia liberale, rafforzando la stabilità e favorendo un progresso condiviso. Un giorno, in un futuro non troppo lontano, nonostante le attuali difficoltà, questa è la prospettiva anche per l’Ucraina e i Balcani occidentali”.  

Bastano queste poche parole per capire il bivio di fronte al quale ci troviamo. Da una parte ragione e conoscenza, dall’altra istinti belluini e conclamata ignoranza. Da una parte violenza predatoria, dall’altra condivisione di un progetto cooperativo.

Tutto il resto – progetti di riarmo, di allargamento delle intese commerciali, emissioni di valuta digitale, fondazione di una unione fiscale – viene dopo. Dopo che gli europei avranno deciso da che parte stare.

Croazia, un altro piccolo indiano bussa alle porte dell’eurozona

Che dovremmo dire alla piccola Croazia, che dal 1 luglio si è unita all’Ue?

Potremmo dirle benvenuta, come si sono affrettati a fare la Commissione Europea e la Banca centrale europea, che peraltro si è premurata di sottolineare che per il momento la Croazia non entro nell’euro. Anzi, sarà sottoposta a uno screening accurato da parte di commissione e banca centrale, e, una volta che verrà giudicata degna, entrerà automaticamente. La Croazia, a differenza di Danimarca o Gran Bretagna, infatti, non ha il diritto di sfilarsi dalla moneta unica se cambia idea.

Ma se ci limitassimo a dire benvenuta, si tratterebbe solo di buona educazione.

Allora potremmo fare due conti, come ha fatto Eurostat, per valutare il contributo “quantitativo” offerto dalla Croazia all’Ue a 27 che da oggi si chiamerà Ue a 28.

Scopriremmo che la Croazia ha 4,4 milioni di abitanti, grazie ai quali l’UE arriverà alla cifra complessiva di 506,8 milioni. Che l’età media dei croati è leggermente più bassa del resto dell’Ue, che il tasso di fertilità è leggermente più basso(1,4 rispetto a 1,57), così come il tasso di divorzi (1,3 su 1.000 rispetto a 1,9) e il numero di figli fuori dal matrimonio (14% rispetto a 39,5 nell’Ue 27).

Se poi volessimo andare più sull’economico, scopriremmo che il Pil della Croazia, nel 2012, è stato di 44 miliardi, in calo del 2% rispetto al 2011, mentre la disoccupazione (aprile 2013) ha superato il 18%, a fronte del 11% dellUE a 27, (quella giovanile è al 51,8%) con la conseguenza che il primo effetto dell’ingresso della Croazia sarà un incremento della disoccupazione nell’area.

Scorrendo il rapporto Eurostat scopriamo anche che pure il saldo commerciale croato va maluccio, visto che nel 2012 ha chiuso in deficit di 2,2 miliardi, il 5% del Pil, mentre quello fiscale, che sono andato andato a vedermi sull’ultimo staff report del Fmi, viaggia intorno alla soglia del deficit del 3%, decimale più decimale meno, a fronte di un debito/Pil del 54%. E tuttavia, scrive il Fmi, “le vulnerabilità esterne rimangono elevate”. Da cui la solita richiesta di riforme per correggere “la strutturale debolezza” della Croazia.

Insomma, abbiamo un altro piccolo indiano che si candida un domani a fare il Gipsi (Ex Pigs) dell’eurozona, e che per giunta si porta appresso gli altri piccoli indiani dei Balcani, come si è affrettato a dichiarare il presidente Ivo Josipovic a doppia voce con il collega sloveno Borut Pahor. Per chi non lo ricordasse, la Slovenia, che adesso è alle prese con una crisi devastante, stava benissimo prima di entrare nell’euro, a differenza della Croazia. Che infatti, per ora, non entra.

L’ingresso della Croazia, dopo la Slovenia, tuttavia avrà un chiaro effetto centripeto sull’adesione degli altri stati balcanici, quindi Serbia, Bosnia-Erzegovina, Montenegro, Macedonia, Kosovo e Albania, sempre che la Serbia si decida a riconoscere il Kosovo. Quindi potremmo dire ai croati che, anche grazie a loro i Balcani, che da una vita sono il problema dell’Europa, entreranno in un club vasto e coeso che finalmente farà sparire qualche secolo di guerre e divisioni etnico-religiose.

Ma è difficile che ci credano.

Allora potremmo ripetere ai croati quello che ha detto lo stesso giorno in cui entravano nell’Ue Olli Rehn, vice presidente della ormai anche loro commissione europea, in un bellissimo intervento intitolato “Moving Europe out of crisis”.

“La crescita economica – ha spiegato – non ripartirà prima che il debito, sia pubblico che privato, sia stato ridotto in tutte le economie”. Perciò, cari croati, ricordatevi che avete una percentuale di sofferenze bancarie del 13,2% e un debito estero, per lo più privato, pari al 100% del Pil.

Da tenere a mente anche la lezioncina di storia. “Nella prima decade dell’euro – ha aggiunto – le facili condizioni del credito hanno provocato crescenti squilibri in alcuni stati membri, facendo aumentare i rischi e creando bolle negli asset”. Quindi, cari croati, tenete sempre presente che l’Ue, e in particolare l’eurozona, sarà pure un bel club, ma pericoloso. Avete visto che fine ha fatto la Grecia? E il Portogallo? E la Spagna? E Cipro? Se volete evitare problemi, non fatevi prestare soldi da nessuno, questo dovremmo dirvi.

Ma ve lo potete permettere?

Anche perché non è mica finita qua. “Gli aggiustamenti richiederanno un caro prezzo sia in termini economici che sociali”. Anche voi croati, insomma, dovete prepararvi ad assaggiare la medicina tedesca che conosciamo bene. L’export ristagna, scrive infatti il Fmi, perché i salari sono troppo alti e la competitività è troppo bassa.

Vi lusigherà sapere, tuttavia, che l’Ue favorisce ben volentieri un sempre maggiore allargamento dell’Ue, perché, per dirla con le parole di Rehn, “paesi con una forza lavoro ben istruita, ma con costi del lavoro significativamente inferiori entrano a far parte del mercato unico”.

Perciò potremmo dire ai nostri amici croati che fanno parte di un grande disegno, con il notevole vantaggio, rispetto ai paesi del Sud Europa, sempre secondo Rehn, di far parte di quei paesi centro-orientali che “sono stati integrati nella catena del valore del motore economico europeo, la Germania, più delle economie dell’Europa meridionale”.

Partite pure avvantaggiati.

Questo grande disegno si pone un obiettivo straordinario, per non dire storico: La costruzione dell’EMU 2.0.

Un posto bellissimo “che aiuterà a generare crescita e a creare posti di lavoro per i cittadini”.

Questo meravigliosa costruzione, che si propone di “riformare il modello economico e sociale dell’Europa”, non punterà certo, spiega Rehn a  “a ristabilire quello status quo che ha condannato l’Europa al declino permanente, ma a riformare genuinamente l’economia sociale di mercato”.

Potremmo concludere, a questo punto, dicendo ai nostri amici croati che a noi italiani ci avevano detto che grazie all’ingresso nell’euro avremmo lavorato di meno e guadagnato di più. E noi, ben contenti, abbiamo pure pagato l’eurotassa.

Poi è successo il contrario. Nel senso che da quando c’è l’euro chi ha ancora un lavoro guadagna meno di prima.

Non è una minaccia, cari amici croati.

E’ un avvertimento.